di Franca Fortunato
In un villaggio della Sierra Leone, in Africa, viveva una bambina di undici anni con il padre e tre fratelli più grandi di lei. La madre (forse) era morta. Un giorno il padre decise di lasciare la propria casa con tutta la sua famiglia. Sognavano di andare in Italia, in Europa, ma avrebbero dovuto attraversare il deserto, arrivare in Tunisia e da lì affrontare la traversata di quel mare che ormai faceva paura. Un mare, il Mediterraneo, divenuto un cimitero che accoglie nei suoi abissi migliaia di esseri umani come loro (1.600 nel 2024, 20.894 i riportati indietro con la forza nei lager libici). A ucciderli è la disumanità, crudeltà e ferocia di chi li vuole fermare, respingere, e ostacola in ogni modo chi, invece, vuole soccorrerli e salvarli. Costruisce prigioni, come quella in Albania, per rinchiuderli e respingerli più velocemente in quanto non degni di vivere in un paese europeo. L’Europa tutta, dopo la Shoah, si sta macchiando di crimini contro l’umanità. Nel cuore di quel padre e dei suoi figli il desiderio di partire era più forte della paura del viaggio. Volevano lasciarsi alle spalle miseria, fame, disperazione. Attraversarono a piedi il deserto, arrivarono in Tunisia ma quando venne il momento d’imbarcarsi, dopo aver pagato uno scafista, sul barchino di ferro non c’era posto per tutti. Il padre volle che a partire per primi fossero la figlia e il figlio maggiore, li avrebbero poi raggiunti.
Maria, Maryam, è questo il nome della bambina. Un nome che, in prossimità del Natale, non può non fare pensare a quella giovinetta di Nazareth che, duemila anni fa con il suo sì, rese possibile quell’evento straordinario, che si ripete ogni anno, dell’irrompere di Dio nella storia umana. Maryam parte col fratello che doveva proteggerla. Partono l’8 dicembre. Il mare è agitato, il barchino scivola tra le acque ma ben presto si scatena una tempesta. «Sulla barca di ferro eravamo in 45. Ma a un certo punto il mare – racconta Maryam – è diventato troppo più grande di noi. La barca si è riempita d’acqua ed è andata a fondo. Per un po’ siamo rimasti in tre», lei il fratello e il cugino, «tutti attaccati a quel salvagente», una camera d’aria che il fratello era riuscito ad afferrare prima del naufragio. «Eravamo vicini nel mare. Ci tenevamo. Pregavamo. Ma poi non li ho più visti. Sono rimasta sola». Unica sopravvissuta al naufragio. Non oso nemmeno immaginare cosa abbia provato in quelle ore, forse giorni, notti, albe rimasta da sola aggrappata disperatamente alla camera d’aria. Sola, in preda alla paura, immersa nell’acqua a soffrire il freddo, la fame, la sete e a pregare il suo Dio. Nessuna bambina o bambino, in ogni parte del mondo, dovrebbe mai provare quello che ha provato lei. Non c’è crimine più grande di questo. L’11 dicembre, in una notte senza stelle e senza luna, la bambina sente in lontananza il rumore del motore di una barca. È il veliero Trotamar III di una Ong tedesca. Raccoglie tutte le sue forze e si mette a urlare «Help!», Aiuto. Il suo grido arriva fino al veliero. «È stata una coincidenza incredibile, noi eravamo in mare a cercare altre persone che avevano lanciato Sos. Ma dopo una tempesta durata giorni non c’era speranza. Solo per caso, alle 3,20 del mattino, il nostro equipaggio – racconta il capitano – ha sentito le urla della bambina nell’oscurità e ha avviato immediatamente una manovra di salvataggio». «Incredibile, pazzesco, un miracolo aver sentito la sua voce», dice la vice-capitana, Ina Fien. Maryam è a Lampedusa, «le sue condizioni sono abbastanza buone, a parte il trauma di quello che ha vissuto e che è inimmaginabile». Il Natale di quest’anno avrà il volto della bambina di undici anni salvata dalla strage degli innocenti di Erode del nostro tempo.
(Il Quotidiano del Sud, Rubrica “Io Donna”, 14 dicembre 2024)