di Nadia Urbinati
Difficile per le donne fare carriera politica. La difficoltà non giustifica i comportamenti delle singole donne. Ma è un fatto che non può passare sotto silenzio. Non vale solo per la politica, bensì per tutte le professioni tradizionalmente tenute dagli uomini.
Essere state allevate con il marchio del futuro scritto nella funzione procreatrice non ha aiutato nessuna donna ad essere tranquillamente sé stessa nei ruoli sociali e politici. E anche questo parlare al singolare-collettivo è fastidioso, perché nessuna donna è un’indistinta parte del suo genere.
Se le donne hanno bisogno di unirsi è per una ragione tutta politica – la “questione femminile” è nata politica come quella della “classe” o delle altre forme di esclusione per ragioni identitarie. È nata per reclamare che uomini e donne sono ugualmente animali politici e possono far politica attiva se lo vogliono. “Se lo vogliono” è una premessa fondamentale. Non vi è nessun dovere nel fare politica di carriera. Ma è proprio questa volontarietà che fa vedere gli impedimenti e li rende intollerabili e irragionevoli, soprattutto nelle società fondate sui diritti.
Le “donne in politica” sono la cartina di tornasole per sondare lo stato di salute di una società. Ci fanno vedere le storture che la loro presenza non basta a sanare. Le donne ne sono consapevoli. E si comportano, si legge con toni scandalistici, “come” gli uomini. E certo!
Appunto perché non c’è alcuna essenza femminile, il fatto di avere una donna in un luogo dirigente non risolve la questione dell’inospitabilità dei luoghi di potere verso le donne. Quel che sta succedendo nel Pd mostra la durezza di questo fatto: una o due donne non fanno primavera.
Cosa succede? La lotta tra Marianna Madia e Debora Serracchiani per il ruolo di capogruppo alla Camera ha mostrato quanto insalubre sia la vita politica nel Pd, non solo per le donne, e non perché due donne competono. Insalubre perché l’appartenenza al partito non ha valore. Conta prima di tutto l’appartenenza ad una fazione. Ciascuno, uomo o donna, è in quota di qualcuno.
Non ci sono “le donne del Pd”. Ci sono le donne afferenti a quel capo o a quella sigla (perfino il simbolo del Pd è stato infeudato dai simboli delle fazioni).
Se il PD è una confederazione di signorie, la presenza delle donne perde di senso, poiché ogni ruolo dirigenziale è comunque un campo di conquista per gli interessi di corrente.
Le donne sono proxy, segnaposti delle fazioni. E allora, che differenza fa avere una donna o un uomo come capogruppo se l’essere vicini a chi aveva coperto quell’incarico è la condizione principale? Se al Senato tutto è filato liscio è stato perché la fazione dell’ex-capogruppo gode lì di solido potere: e una donna ha rimpiazzato un uomo. Ma alla Camera i giochi sono più fluidi; e si scatena una competizione tra due donne.
Secondo Madia, questa competizione al femminile serve essenzialmente a legittimare chi dovrebbe vincere, ovvero la candidata vicina a Graziano Delrio, il precedente capogruppo. Che questa dichiarazione contenga del risentimento non cambia il fatto: il problema alla base di tutto, e che sta emergendo anche per le candidature a sindaco in vista delle elezioni d’autunno, è che chi ha coperto l’incarico designa il proprio successore, come se la funzione fosse posseduta da chi la ricopre. Che il candidato sia uomo o donna, la logica non cambia. Ed è una logica che fa buon gioco all’argomento dei populisti: il Pd è un establishment istituzionale che riproduce sé stesso per partenogenesi. La “questione” della presenza delle donne nel PD mette in luce un sistema oligarchico che sconcerta.
(Domani, 29 marzo 2021)