di Daniela Padoan
Il mare di fango e lamiere di calle Gómez Ferrer, alla periferia Sud di Valencia – immagine divenuta simbolo della catastrofe, con le sue carcasse di automobili accatastate e rovesciate contro le facciate delle case, con le sue figure che vagano smarrite in quella scena esorbitante – era talmente assurdo da far pensare, sulle prime, a una simulazione prodotta dall’intelligenza artificiale: qualcosa di non verosimile, che investe lo statuto della verità; qualcosa che chiede decostruzione, dunque rassicurazione.
Le automobili sbalzate sull’autostrada o inabissate in sotterranei divenuti vasche di melma, la solitudine di chi vi è restato imprigionato – «come topi», ha detto il sindaco di Utiel, uno dei centri più colpiti –, i garage di casa, gli ipermercati, i luoghi della nostra normalità divenuta distopica, toccano qualcosa che giace sul fondo della nostra coscienza e che non vogliamo sapere.
Una rappresentazione perturbante della fragilità e della follia del nostro modo di vivere: le macchine in cui passiamo tanto tempo da essere diventate un’estensione del nostro corpo ridotte d’un tratto a rifiuti di metallo, i corpi di persone perse e disperse negli abitacoli, aggrappate a uno smartphone senza segnale, ci mettono di fronte al nostro carrello della spesa, al biglietto del parcheggio sotterraneo, alle code in autostrada, al cellulare come cordone ombelicale col mondo, a un modo di vivere innaturale e cieco che è concausa dei disastri prodotti da un clima ingovernato e forse già ingovernabile.
Ci mostrano lo smarrimento davanti alla perdita delle cose senza le quali ci pare di non essere, la cui deprivazione tocca la nostra identità profonda, al punto da preferire non vedere, non sapere, non correre ai ripari, non pretendere politiche diverse da un’imbarazzate inadeguatezza fatta di negazione o di millantata preoccupazione a coprire la ricerca del profitto, da ultimo con la riesumazione delle centrali nucleari, magari a Venezia.
La risposta, da noi come in Spagna, è negare il disastro, isolarlo come evento straordinario, criminalizzare chi lo denuncia, procedere nella marcia ferrata della distruzione. Siccità, ondate di calore, desertificazione, incendi, scioglimento dei ghiacciai, innalzamento dei mari, erosione costiera, uragani, tempeste di grandine, alluvioni, piogge torrenziali: tutto viene rimosso, ridotto a scontro ideologico, mostrato come una stucchevole panoplia di minacce senza costrutto o con un secondo fine da smascherare e respingere.
La realtà ci passa davanti agli occhi e si sfalda come il residuo di un sogno: gli alberi secolari di Milano divelti e scagliati sui cavi dei tram da un downburst a cento chilometri orari, le ripetute alluvioni dell’Emilia-Romagna, il mare nel sud d’Italia ancora estivo a novembre, l’iperbole del Sahara allagato. Il desiderio è sempre lo stesso: richiudere, dimenticare il più in fretta possibile, anche quando i fenomeni ci toccano da vicino.
Nel 2023, l’Italia ha subito 378 eventi meteo estremi, il 22% in più rispetto all’anno precedente. Incendi in Trentino, grandinate nel Veneto, mareggiate nelle Marche, ondate di calore in Calabria, desertificazione di intere zone della Sicilia, visti immancabilmente come eventi a sé stanti. Guardiamo senza vedere, in un doppio registro cognitivo dove ogni enormità viene normalizzata, negata, ricacciata in fondo alla coscienza, ben lontana dalla necessità di pretendere da chi ci governa decisioni politiche conseguenti.
Meglio adattarci a vivere sempre più in bilico, fingendo che sia normale. Le scale mobili così familiari che portano a riprendere le nostre macchine dopo aver fatto una grande spesa sono ora ripugnanti, inservibili accessi al magma nauseabondo in cui i corpi si stanno decomponendo; così come, verosimilmente, si decompongono le merci sugli scaffali, allegorie medievali del trionfo della morte sui beni terreni, non fosse che qui si tratta di beni intensivi, non diversamente dalla nostra vita, e dalla nostra morte.
«Ciascuno reca racchiusa in sé la propria morte. Come il proprio nòcciolo un frutto», scrive Rilke ne I quaderni di Malte Laurids Brigge. Ma la morte che rechiamo oggi nel petto è un nòcciolo che non germina, un ogm delle serre. La morte mostrata dall’iconografia macabra di Valencia è industriale, è la scomparsa dei singoli nella solitudine di luoghi affollati e iperconnessi, in templi dissacrati del quotidiano, inventario delle emissioni climalteranti prodotte da automobili, industria, agricoltura e allevamento intensivi.
È una morte alienata, deprivata che dice della nostra normalità, come Pompei cristallizzata sotto la lava. La morte di Valencia per un momento prezioso squarcia un velo e ci rende estranea la nostra esistenza fatta soprattutto di solitudine: prigionieri dei dispositivi, delle automobili, degli ipermercati, privi di comunità.
L’Oms ha definito la solitudine «un problema di salute pubblica globale», al punto che la Gran Bretagna, primo Paese al mondo, ha istituito il Ministero della Solitudine. Ma solitudine e crisi climatica sono fenomeni connessi, non solo perché lo stile di vita che maggiormente induce la catastrofe è prerogativa di un mondo fatto di bolle di esistenza e consumi individuali, ma perché le conseguenze della crisi climatica rendono ancora più inerme chi è solo. Più di otto milioni di italiani sono esposti al rischio di frane e alluvioni – su 900mila frane in Europa, 600mila si sono verificate in Italia – e il 40% degli italiani vive da solo. Uno su dieci dichiara di non avere nessuno a cui chiedere aiuto in caso di bisogno.
Conforta il rovesciamento agito dai cittadini della comunità valenciana che, abbandonati dalle autorità regionali, si sono autorganizzati portando soccorso a La Torre, Alfafar, Paiporta e agli altri luoghi simbolo della tragedia. Non è un caso che il climatologo di fama mondiale Jean Jouzel abbia affermato, in un’intervista a La Stampa, che il surriscaldamento globale deve essere affrontato con una «solidarietà reale».
E non stupisce che il governatore della Regione valenciana, esponente del Partito popolare alleato dell’estrema destra di Vox che nega il cambiamento climatico, abbia diffuso un video che minimizzava l’allerta idrogeologica proprio mentre il ciclone Dana iniziava a flagellare le zone interne, inducendo così la popolazione a non adottare le misure di sicurezza che avrebbero potuto evitare, o almeno contenere, l’ecatombe.
D’altra parte, non appena insediata, nel 2023, la giunta di destra aveva eliminato il piano per l’emergenza climatica e azzerato l’unità di crisi creata dal precedente governo: una spesa inutile, diceva, mentre procedeva alla cementificazione della costa. I corpi di lamiera spiaggiati in calle Gómez Ferrer, le scale mobili allagate che scendono in una morgue limacciosa sono un’apparizione del nostro tempo, impietosa nella sua agnizione. «C’è un sapere che preesiste a tutti gli approcci, ad ogni ricezione delle immagini», scrive il filosofo e storico dell’arte Georges Didi-Huberman. «Ma avviene qualcosa di interessante quando il nostro sapere precedente, composto di categorie già fatte, è messo in pausa per un momento – che inizia nell’istante stesso in cui l’immagine appare».
(La Stampa, 6 novembre 2024)