Ginevra Bompiani
Qualche giorno fa, alla Casa delle Donne di Roma, ho assistito a un confronto fra psicanaliste, una italiana, Manuela Fraire, e una francese, Elisabeth Roudinesco, sul tema della maternità surrogata.
Roudinesco spiegava le sottigliezze di una legislazione. Ovvero di una legislazione che regoli puntigliosamente il contratto fra una coppia desiderosa di figli e la donna che fornisce l’utero. E Manuela Fraire vedeva in questa pratica il possibile superamento del patriarcato.
Ahimè, temo che il superamento del patriarcato non verrà da questa pratica, che, a mio vedere, ne è piuttosto l’apogeo.
In realtà, da quando il patriarcato si è imposto su gran parte del mondo, circa 5000 anni fa, il suo proposito è stato quello di spostare il possesso di diritti e di beni dalle donne agli uomini.
E il primo obiettivo, che giustificava e imponeva tutti gli altri era di assicurarsi la proprietà dei figli che, secondo il diritto matrilineare, erano di pertinenza della casa materna.
Il principale diritto rivendicato e difeso dal patriarcato è dunque il diritto di proprietà, per accedere al quale la via più diretta è l’esproprio.
E proprio di questo si tratta nella maternità surrogata: dell’esproprio di un utero e della rivendicazione di proprietà del figlio partorito.
Tutto il resto è secondario e le questioni giuridiche, che dovrebbero regolare il “contratto di locazione” dell’utero e il possesso del suo prodotto, sono semplicemente quelle che il patriarcato – e il capitale, che è la sua più recente ed efficace rappresentazione -, si pongono nei confronti di un organo vitale.
La questione si è posta per la prima volta per la “donazione” degli organi.
Poiché questi non potevano essere espropriati da organismi senza vita, si è cambiata la denominazione della morte, dividendola in “morte clinica” (adatta all’espianto degli organi) e morte reale.
È significativo che la stessa parola “dono” venga usata nel caso di un “donatore di organi” privo di coscienza e di volontà, e delle donne che danno in uso il proprio utero.
Ed è sorprendente che nessuno si ponga la domanda del perché una donna sana di corpo e di mente sia disposta a un sacrificio di nove mesi, con rischio della vita, quando si escluda la ragione economica.
L’opinione corrente fra i sostenitori è che sebbene, nella maggior parte dei casi, l’accordo preveda un compenso in denaro, almeno sotto forma di “rimborso spese”, “mantenimento” o semplice “gratitudine”, questo non entri in alcun modo nelle ragioni del consenso, che restano puramente altruistiche.
E poiché si tratta di un “dono”, non può che venire da uno slancio generoso, anche nei confronti di sconosciuti, incontrati attraverso gli uffici di Stati compiacenti.
E non ci può sorprendere che un simile disinteresse provenga dalla componente femminile della razza umana, che non ha equivalenti nella componente maschile (se non si vuole paragonare il “dono” dello sperma, che dopo tutto richiede pochi minuti di un’attività non spiacevole).
Questo è l’ultimo, in ordine di tempo, esproprio che la donna subisce, e al quale si sottopone “volontariamente”, come si è sottoposta a tutti gli altri in questi 5000 anni.
E da parte di chi ne usufruisce, è l’ultima confusione fra desiderio, privilegio e diritto.
(il manifesto, 31 gennaio 2018)