di Rosalba Castelletti
L’etichetta di “coscienza di San Pietroburgo” non le piace. «La coscienza serve solo a nasconderla. E molto spesso viene usata a sproposito». Eppure a resistere contro la «follia» dell’“operazione militare speciale” c’è rimasta quasi solo lei. Elena Osipova, pittrice ed ex insegnante d’arte, scende in strada a San Pietroburgo con i suoi poster, disegnati tutti da lei, nonostante gli acciacchi dei suoi 76 anni, i continui fermi della polizia e le provocazioni dei cosiddetti titushki. Milano le ha conferito la cittadinanza ordinaria.
«E qui in Russia non vengo neppure nominata», dice mentre ci versa un tè e ci offre un prjanik, un panforte. «L’ho preso al forno qui sotto», sorride facendo un cenno oltre la finestra al primo piano di un appartamento che condivide con una coppia più giovane. Una kommunalka (*) dove vivevano i suoi nonni e sua madre. «Mio nonno è morto durante l’assedio. E io sono figlia della Grande Guerra. I miei, un’infermiera e un medico, si sono conosciuti al fronte». Osipova sgrana gli occhi chiari mentre mette in fila le parole come in un flusso di coscienza o ci mostra una tela dopo l’altra. «Molti poster non li ho più, me li hanno strappati o sequestrati».
Che cosa le dà la forza di continuare?
La gente ne ha bisogno. Ha bisogno di vedere che c’è chi la pensa come loro. Ha bisogno di non sentirsi sola. E ne ho bisogno anch’io. Ecco perché continuo a scendere in piazza. Lo faccio soprattutto per i giovani. Pensavamo che almeno loro non avrebbero vissuto l’orrore di una guerra e invece ora c’è anche la minaccia nucleare. Anche se quando è iniziato tutto, neppure ci credevo.
A che cosa?
Non riuscivo a credere che in tanti potessero sostenere questa operazione. Sono scesa in piazza per capire se fosse vero e ho incrociato tanti giovani in Prospettiva Nevskij. L’unica cosa che potevano fare era gridare: “No alla guerra”. Ora non si può fare più neppure quello. Io ero lì con un mio vecchio poster: una mummia, due corvi con il becco insanguinato e un verso di Marina Cvetaeva. Era un poster del 2014. Era già tutto previsto.
Si aspettava già allora che si potesse arrivare a questo punto?
No, ma ricordo che già nel 2014 c’erano gli ideologi del Russkij Mir, del Mondo Russo, e quelli che si vantavano di avere ucciso nel Donbass. E la colpa principale è la loro. Sono l’intelligencija e usano la loro influenza per instillare odio. Ai nostri dicono che vanno in Ucraina a combattere il nazismo, invece sono loro a compiere azioni fasciste.
Questi ragazzi diventano assassini.
Uccidere ti cambia, ti resta dentro. La Russia ha già subito tante prove, ma stavolta è diverso. Ci si uccide tra fratelli. E tutto questo fa paura. Tanti russi credono che sia tutto inutile, che contro questa follia non si possa lottare e perciò vanno via.
Lei invece scende in piazza da vent’anni…
La prima volta fu dopo l’assedio del teatro Dubrovka. È stato solo l’inizio. Poi c’è stata la tragedia di Beslan, l’uccisione di Anna Politkovskaja….
Che cosa spera per il futuro della Russia?
Oggi ho paura. A volte quasi invidio chi è morto di Covid. Ma spero che chi è andato via ritorni con un esercito buono che ci venga a liberare e cambi tutto velocemente…
Non crede che il cambiamento possa arrivare da dentro?
Tutti quelli che potevano fare qualcosa sono andati via. Se le tragedie di Dubrovka e Beslan fossero successe altrove, sarebbe già cambiato il governo. Qui invece al potere sono sempre gli stessi. E il loro mestiere è uccidere.
(*) Un tipo di abitazione, tipica dei primi quarant’anni di vita dell’Unione Sovietica e tuttora esistente nei Paesi ex-sovietici, in cui più nuclei familiari condividono i servizi, la cucina e il corridoio, occupando in forma privata uno o due locali. NdR
(la Repubblica, 19 giugno 2022)