di Francesca Maffioli
Creata nel 1634, l’Académie Française ha deciso pochi giorni fa di riconoscere i nomi femminili di mestieri, funzioni, titoli e gradi. A colloquio con Anne Emmanuelle Berger che dirige il «Legs» di Paris VIII.
A
partire dalla Rivoluzione francese, in molti si sono opposti al dominio
grammaticale del genere maschile, che si è imposto in un passato piuttosto
recente, ossia dalla fine del XIX secolo e dall’avvento dell’obbligo
scolastico. Nella Requete des dames à l’Assemblée nationale si
chiedeva che il genere maschile fosse considerato non diversamente da «tutti i
sessi e tutti gli esseri che devono essere e sono egualmente nobili». È notizia di qualche giorno fa il parere favorevole
dell’Académie française verso un’apertura alla femminilizzazione dei nomi
di mestieri, funzioni, titoli e gradi. Il rapporto, la cui cautela e diplomazia
non hanno niente di rivoluzionario, aprirà tuttavia una breccia istituzionale.
Tornata alla ribalta negli ultimi anni, già in passato la questione è stata
oggetto di interesse da parte delle istituzioni francesi: nel 1986, sulla scia
della «Journée Internationale de la Femme», il primo ministro Laurent Fabius
aveva indirizzato al suo governo una circolare che prescriveva la
femminilizzazione di nomi, posizioni, gradi o titoli commerciali in tutti i
documenti ufficiali. Nel 1999 venne pubblicata una guida scritta dall’Istitut
National de la Langue Française, con prefazione del primo ministro Lionel Jospin,
il quale faceva riferimento all’evoluzione inevitabile della lingua e alla
legittimità della «parità linguistica».
Ne parliamo con Anne Emmanuelle Berger, docente di letteratura francese e di
studi di genere e direttrice del «Legs» di Paris VIII.
Creata nel 1634, l’Académie Française il 28 febbraio ha
deciso di riconoscere i nomi femminili di mestieri, funzioni, titoli e gradi,
rinnovando una pratica comune nel Medioevo. Da che momento della storia
francese questa prassi era caduta in disuso?
È necessario, intanto, situare storicamente la nascita della Académie e
accennare al suo contesto. Ufficializzata dal cardinale Richelieu su
commissione di Luigi XIII, essa nacque come «accademia reale», il cui scopo era
normalizzare e perfezionare la lingua francese; ma ebbe un ruolo anche nella
centralizzazione del potere monarchico. L’obiettivo era sostituire
progressivamente il francese al latino anche come lingua scritta, farne la
lingua dell’amministrazione e del potere. L’Académie divenne istituzione «guardiana»,
incaricata di fissare precise regole linguistiche: fu in questo contesto che
venne pubblicata la prima edizione del Dictionnaire de l’Académie Française del
1694. Nel francese vernacolare parlato nel Medioevo, la presenza del femminile
nella lingua parlata non aveva ancora subito un processo di normalizzazione.
Eliane Viennot, storica della lingua, ha spiegato efficacemente l’iter
diacronico di questo slittamento verso il genere maschile, considerato alla
stregua del neutro latino. Secondo lei non è questione di «femminilizzare» la
lingua bensì di «demascolinizzarla». Storicamente, il processo di emendamento
delle particolarità regionali è simile a quello che ha portato alla fissazione
della lingua sul genere maschile, naturalmente con differenze sostanziali
nell’ordine del simbolico.
Nel rapporto redatto dalla commissione di studio
dell’Académie Française emerge una dichiarazione sulla «resistenza» della
lingua francese a femminilizzare i nomi delle professioni che è proporzionale
alla gerarchia. Lei cosa ne pensa?
La lingua in sé non resiste, anzi, subisce nel tempo quella che potremmo
definire un’«evoluzione naturale», che nella linguistica storica vuol dire
«culturale». Sono le istituzioni, nei secoli, a opporsi. L’Académie, poi, come
altre istituzioni dedite alla conservazione del patrimonio artistico, deve
svolgere un’opera di tutela. Il francese intende il termine «guardiani»
applicato a vari campi: la sovranità monarchica, i prigionieri, ma anche i
bambini; in questo senso la dimensione sovranista si fonde con quella
paternalista, «infantilizzante», ed entrambe con quella feticista della
conservazione di qualcosa che si sta inevitabilmente perdendo. Il ruolo
dell’Académie Française era legittimare la lingua e la portata dei verdetti era
alla stregua delle bolle papali.
Tutto ciò per dire che l’Académie Française nasce come istituzione atta a
promuovere e a conservare il potere. Non per nulla, gli accademici indossano
costumi d’ordinanza e portano una spada, a rappresentare il carattere rituale e
difensivo del loro ruolo. È ovvio che la resistenza nei confronti dei nomi di
quelle professioni che spiccano nella scala sociale sia stata di natura
politica e simbolica: il fatto che il femminile potesse connotare ruoli di
rilievo sociopolitico era visto come potenzialmente pericoloso. D’altronde, la
presenza femminile in seno all’Académie Française è davvero recentissima: la
prima donna a farne parte fu Marguerite Yourcenar, negli anni Ottanta del
secolo scorso.
Si direbbe che i nomi delle professioni su cui alcuni
accademici hanno a lungo resistito sono proprio quelli che li riguardano più da
vicino: scrittore e autore. Non crede che questa «diffidenza» abbia nascosto –
in modo maldestro – una sfiducia nei legami che uniscono la scrittura delle
donne e l’«autorialità»?
In effetti a fare parte dell’Académie sono membri, chiamati «les immortels» che
hanno il merito di rappresentare la lingua francese. Ne fanno parte poeti,
romanzieri, filosofi, critici letterari. Già dagli anni Settanta, in Québec e
successivamente anche nella comunità francofona belga e in quella svizzera, il
termine «écrivaine» – scrittrice – era persino incentivato; in Francia, invece,
l’autorialità delle donne è stata storicamente considerata pericolosa, alla
luce della corrispondenza tra la scrittura e il loro pensiero. L’appellativo
«femme-auteure», per esempio, fu avvertito come «mostruoso», una chimera del
pensiero. Lei chiama «diffidenza» quella che io chiamerei volontà di sminuire
la scrittura femminile e di conseguenza la parola delle donne. La collusione
tra il potere e chi controlla le evoluzioni della lingua mostra che la volontà
dichiarata di «universalizzare» corrisponde in realtà a una specifica scelta
simbolica di «fallicizzazione». Come già esplicitarono le donne della comunità filosofica
Diotima quarant’anni fa, non conviene sminuire la valenza della «politica del
simbolico», che passa evidentemente attraverso la lingua.
Negli ultimi anni, il rifiuto di femminilizzare i nomi delle professioni, ma non solo, è stato motivato dal fatto che queste parole suonavano male o «dissonanti», così come la tendenza francese a acquisire termini da altre lingue. Crede che questi due fenomeni abbiano qualche parentela?
In effetti, l’argomento a discapito della femminilizzazione dei nomi è stato di frequente una certa sgradevolezza nella sonorità. Ma è anche vero che le parole utilizzate nello scambio quotidiano, sia orale sia scritto, sono parole d’uso, e l’utilizzo della categoria estetica non ha alcun senso. Se le parole non ci sembrano familiari, le consideriamo sgradevoli all’orecchio. È indubbiamente una resistenza soggettiva, mascherata da giudizi pretestuosi. Prendiamo l’esempio noto di «écrivaine»: secondo molti, suonerebbe troppo vicino all’aggettivo «vaine», vanità… Ma questo vale anche per il maschile: «écrivain» – «vain». I fenomeni di resistenza, di cui fa parte certamente anche quello contro l’anglicizzazione della lingua, vogliono funzionare come argini contro forme di contaminazione, ma quello nei confronti della femminilizzazione è stato certamente più virulento.
(il manifesto, 13 marzo 2019)