di Gad Lerner
Piangono lacrime di coccodrillo le donne del Pd tagliate fuori dal governo Draghi. Mi scuso della brutalità, ma alla loro coordinatrice Cecilia D’Elia, a Barbara Pollastrini, a Debora Serracchiani, a Marianna Madia, a Roberta Pinotti e alle altre che ora denunciano la “ferita” inferta loro da un gruppo dirigente compattamente maschile, viene da rispondere: dove eravate nel 2007 quando Rosy Bindi si candidò alla segreteria del partito in alternativa a Veltroni? O nel 2016 quando Francesca Balzani sfidò Beppe Sala alle primarie per candidarsi sindaca di Milano?
Cito tali esempi, fra innumerevoli altri, perché li ho vissuti personalmente. Impegnandomi al fianco di queste donne non solo per le loro qualità politiche e personali, ma nella convinzione che il loro affermarsi “numeri uno” avrebbe rappresentato un’innovazione di cui la sinistra italiana aveva bisogno. Invece è regolarmente scattato tra voi il richiamo di partito (o di corrente), tipico in special modo di quelle che provenivano dal Pci, per cui suonava imperativa l’indicazione proveniente dall’alto dell’uomo della Ditta. Quante volte vi ho sentite ripetere che era troppo presto, che la solidarietà femminile non doveva prevalere sulla scelta politica, che al momento era meglio accontentarsi di uno spazio di rappresentanza?
Ben prima della designazione dei tre ministri Pd nominati da Draghi, l’organigramma del vostro partito aveva preso una conformazione integralmente maschile. Nel 2019, quando Zingaretti venne eletto segretario, in un’intervista pubblicata nel suo libro “Piazza Grande”, gli feci notare che nelle posizioni apicali aveva accanto solo uomini: il presidente, i capigruppo nel Parlamento italiano, il capogruppo al Parlamento europeo. Questa fu la risposta di Zingaretti: «Il Pd deve assumere nel prossimo futuro un modello che i Verdi tedeschi praticano da tempo nei loro forum: per ciascun organismo, la doppia direzione uomo-donna. L’ho messo nel mio programma e lo faremo». Non è andata così. C’è voluto un anno perché la sindaca di Marzabotto, Valentina Cuppi, venisse nominata presidente del partito (senza peraltro esercitarvi un effettivo ruolo di direzione). E solo nel giugno 2020 è stata ricostituita, dopo anni di assenza, una Conferenza delle donne democratiche. Contraddistinta, va pur detto, da sostanziale irrilevanza.
La spiacevole verità è che le donne del partito hanno assunto in pieno la stessa vocazione governista tipica dei maschi. Secondo cui la politica altro non sarebbe che comando, e dunque il culmine della carriera è fare il ministro. Si tratta di un limite culturale, diciamo pure di un morbo, che sgretola l’idea stessa di una formazione progressista fondata sulla militanza di popolo e sul perseguimento di modelli sociali alternativi. Non sarà qualche sottosegretaria a sanare questa che è una vera e propria mutilazione.
(Il Fatto Quotidiano, 17 febbraio 2017)