di Antonella Mariani
La Libreria delle donne si trova in una stradina a ridosso di piazza Cinque Giornate, zona semicentrale di Milano. Un locale con vetrine ospita migliaia di volumi, tutti rigorosamente a firma femminile, e a fianco uno stanzone accogliente ospita incontri e dibattiti. Un tavolino è ingombro di titoli dedicati alla più recente battaglia culturale del movimento femminista milanese (o perlomeno di quello “storico”), quella contro l’utero in affitto in nome della dignità della donna e della madre. È qui che Luisa Muraro, da decenni tra le più autorevoli e ascoltate voci del femminismo italiano, rievoca con “Avvenire”, 40 anni dopo l’entrata in vigore della legge 194, il 22 maggio 1978, il clima degli anni Settanta, quando si moltiplicavano i gruppi di autocoscienza femminile e uno dei temi più dibattuti era per l’appunto l’aborto.
Professoressa Muraro, quali erano gli argomenti del neonato femminismo sull’aborto e sulla imminente legge 194?
All’inizio degli anni Settanta nacquero gruppetti di donne che si trovarono subito a fronteggiare una questione antica, l’aborto. La conoscevamo bene: alcune di noi avevano abortito, tutte avevano amiche che l’avevano fatto. A Milano era facilissimo abortire. Per un periodo vissi in Trentino, e lì le donne andavano in Jugoslavia. C’erano già gli anticoncezionali, ma erano medicalmente pesanti e non di uso comune. L’aborto clandestino era il mezzo principale di controllo delle nascite, era praticato in massa. Nei nostri gruppi di autocoscienza si parlava di tutto questo.
Intanto ferveva la campagna politica dei radicali e delle donne dell’Udi, socialiste e comuniste. Qual era la vostra posizione?
La campagna dei radicali parlava di diritto di aborto o di aborto libero. L’atteggiamento nei gruppi femministi era complesso e diversificato. Noi registravamo che per alcune poter abortire era stata una liberazione, per altre era fonte di sensi di colpa gravi. Alcune erano pentite di averlo fatto, altre ancora erano indifferenti. Ecco, nelle nostre discussioni sull’imminente legge 194 non c’era l’ombra del trionfalismo e della rivendicazione. Si esigeva che gli uomini smettessero di mettere incinte le donne e poi proibire l’aborto.
La campagna radicale però ottenne l’adesione di molte femministe.
Sì, ma lo stile femminista è stato sempre quello della discussione. La prima questione su cui non andavamo d’accordo era proprio il metodo: allora ogni giorno i radicali organizzavano una manifestazione. Noi stampammo un volantino in cui scrivemmo che sull’aborto facevamo un lavoro diverso, il lavoro dell’autocoscienza. Nelle discussioni alla Libreria delle donne, che nacque nel 1975, c’erano posizioni contrapposte a quelle che stavano emergendo in Parlamento. L’estremismo di sinistra contestava i limiti di tempo che si andavano delineando nella proposta di legge: ricordo che noi protestammo che quello non sarebbe stato aborto, ma una nascita. Un’altra posizione femminista molto condivisa tra Milano e Roma sosteneva che la salute della donna richiedeva l’assistenza medica e se la donna decideva di abortire lo Stato doveva assisterla. E per quanto riguardava la decisione, noi suggerivamo l’autorità delle altre donne, perché l’aborto non fosse visto come un’iniziativa puramente reattiva a certi comportamenti sessuali. Quello che il femminismo combatteva più di tutto era l’irresponsabilità sessuale degli uomini.
Quali erano gli altri punti di frizioni del femminismo con la campagna radicale per la legge 194?
Noi partivamo dal principio fondamentale di libertà femminile: una donna non può essere obbligata a diventare madre, la maternità inizia con un sì. Ma tendevamo a sottolineare che l’aborto non è un diritto. Un diritto ha sempre un contenuto positivo. L’aborto è un rifiuto, un ripiego, una necessità. La donna che non vuole diventare madre subisce un intervento violento sul suo corpo per estirpare questo inizio di vita. Pensavamo, e pensiamo tuttora, che se si fa dell’aborto un diritto, si autorizza l’irresponsabilità degli uomini.
40 anni dopo, invece, parte dell’opinione pubblica pensa che l’aborto sia un diritto assoluto.
Certo. Perché ideologicamente quella posizione ha vinto a livello internazionale. Le agenzie internazionali dell’Onu l’hanno sempre presentato come un diritto.
Nei gruppi di autocoscienza femminista degli anni Settanta non affiorava il pensiero del figlio, o perlomeno del concepito?
Non era questo l’oggetto dei confronti tra noi. Pensavamo che finché una donna non ha detto sì, non esiste l’altro. È l’accettazione della gravidanza che fa affiorare l’altro, la creatura. Ma, vede, le posizioni erano diversificate: il gruppo femminista di Firenze nel 1975 redasse un documento: non vogliamo più abortire – scrisse –, sottolineando “la possibilità di riacquisire positivamente l’esperienza della maternità come una possibilità alternativa ai ritmi attuali di pratica dell’aborto” e proponendo al movimento femminista di elaborare un progetto politico per “eliminare passo passo lo stato presente di alienazione della sessualità e della maternità”.
Del resto Carla Lonzi, altra figura fondamentale del femminismo italiano e fondatrice del gruppo Rivolta femminile, nel 1970 scrisse un Manifesto in cui, tra le altre cose, si rifiutava l’istituzione del matrimonio e si difendeva la libertà d’aborto. Ma si diceva anche che “La trasmissione della vita, il rispetto della vita, il senso della vita sono esperienza intensa della donna e valori che lei rivendica”. A questo proposito, professoressa Muraro, non le sembra che la parte della legge 194 sulla tutela della maternità sia stata largamente disattesa?
La legge 194 è un compromesso onorevole. Democristiani e comunisti sono riusciti a trovare soluzioni che eliminavano il problema dell’aborto clandestino. C’era anche la giusta intenzione di impedire che l’aborto diventasse un metodo anticoncezionale. Ma, è vero, la parte sulla tutela della maternità non è stata attuata. Un’ipotesi politica è che quella parte sia stata inserita per convincere la Democrazia cristiana. Può darsi che anche i comunisti avvertissero l’esigenza di dare un’assistenza alle donne per poter diventare madri. Ma in seguito non è stata sentita come materia di intromissione dello Stato.
(Avvenire, 10 maggio 2018)
NdR. Il titolo originario (“Abortire non è un diritto”) dato da Avvenire per l’edizione cartacea non è fedele all’intervista, nella lettera e nello spirito, perciò l’abbiamo cambiato.