di Alessandra Pigliaru
Pamela Mastropietro. Lo scenario del disamore assoluto nella rappresentazione mediatica delle notizie relative alla ragazza di 19 anni uccisa a Macerata
Quando il corpo di una ragazza di 19 anni diventa campo di guerra e di complicità maschili, è importante sottolinearne la miseria della rappresentazione che se ne vorrebbe fare. Così è capitato spesso ai corpi delle donne offese, maltrattate, molestate e infine nel peggiore dei casi uccise. Così è accaduto anche a Pamela Mastropietro che come unica colpa ha avuto quella di trovarsi in un deserto umano popolato da mostri. Che hanno un nome e un cognome e che, ricostruendone il tragitto, sappiamo ora anche un’intenzione. Succede che questa ragazza di 19 anni, barbaramente uccisa a Macerata e poi fatta a pezzi e gettata via in due valigie come fosse cose tra le cose, è stata ulteriore oggetto – suo malgrado – non solo prima della morte ma anche post-mortem di narrazioni che hanno dell’irreale. Tra queste spiccano per inutilità quella offerta da Luca Traini, in carcere ora per strage, che ha voluto parlare di vendetta. Come fosse sua proprietà, roba sua, Pamela Mastropietro, è stata utilizzata per nascondere e manipolare la vera ragione della sparatoria: una xenofobia che ha radici tutt’altro che rintracciabili nella vicenda dell’uccisione della ragazza. L’altra che spicca è poi quella relativa all’uomo che nelle ore precedenti l’assassinio avrebbe «trascorso del tempo» con Pamela «portandola a casa sua». A questo punto c’è da domandarsi come si tratta la notizia di un uomo di 45 anni che approfitta di una ragazza di 19, in evidente difficoltà e in uno stato di vulnerabilità estrema. Soprattutto se l’uomo in questione invece di aiutare Pamela Mastropietro, che poche ore dopo quell’incontro ha trovato la morte efferata e tristemente nota, invece di accompagnarla per esempio in qualche luogo a lei famigliare, decide di sfruttarla, portarla in un garage e su un materasso di fortuna consumare un rapporto sessuale con lei in cambio di 50 euro. Come si descrive cioè un uomo così che depreda un corpo già sofferente in una esistenza disorientata e tormentata? Secondo alcune rappresentazioni che ieri è capitato di leggere sulla stampa, questo uomo di 45 anni ha diritto a un ritratto molto generoso – ancorché inessenziale – con espliciti passaggi bucolici misti a un lirismo romantico inaccettabile. Il garage sudicio in cui ha portato una ragazza di 19 anni diventa il retro di una casa in campagna, la «barba da hipster» e «i sandali da francescano» si confondono con le «mimose in fiore» e a chi legge rimane la strana sensazione di un episodio surreale che alla crudezza dei fatti sostituisce l’immagine edulcorata di un malinconico personaggio pseudo-letterario ora pentito con il cuore gonfio di malumore. Questo è lo scenario del disamore assoluto toccato in sorte, che potrebbe essere facilmente schiarito – sulle parole di cura e attenzione che dovrebbero essere utilizzate riguardo la vicenda – da ciò che ha dichiarato la stessa madre di Pamela (costretta a dissociarsi dalle farneticazioni del nazifascista che ha sparato a 6 ragazzi e ragazze di origine africana) e che magari desiderava fare altro, per esempio piangere in santa pace la morte della propria figlia. Che aveva 19 anni. Che è stata fatta a pezzi. E che certo non merita di essere seppellita ancora e ancora.
(il manifesto, 8 febbraio 2018)