di Alessandra Pigliaru
Saggi. La ricerca del punto di incontro tra teoria e prassi. Una nuova edizione del «Il diario di fabbrica» della filosofa francese e un saggio di Eugenio Borgna a lei dedicato
«Eppure resisto. E non rimpiango mai di essermi lanciata in questa esperienza. Anzi, ogni volta che ci penso, me ne rallegro infinitamente». Quando nel 1951, otto anni dopo la scomparsa di Simone Weil, venne pubblicato La condition ouvrière apparvero per la prima volta una serie di scritti, lettere e frammenti di diario sul passaggio cruciale della filosofa francese in fabbrica in cui vengono comprese le confidenze epistolari all’amica Albertine Thévenon sull’esperienza priva di pentimento che, tra il settembre 1934 e l’agosto 1935, affrontò presso l’azienda elettrica Alsthom di Parigi.
Abbandonato l’insegnamento, decise infatti di sperimentare su di sé il lavoro di operaia, continuare a occuparsene in maniera distante e disincarnata l’avrebbe privata di un dato che per lei appariva sostanziale: entrare all’interno della questione operaia attraverso il proprio corpo, le proprie mani, il proprio portato teorico per rendere credibile fino in fondo – trovando un rinnovato sguardo – la dottrina filosofico-politica intorno all’argomento.
n’esperienza, quella della fabbrica, che come ha avuto modo di scrivere è stata «separata tuttavia da un abisso; è la realtà, non più l’immaginazione», in una mutazione radicale non di singoli convincimenti ma dell’intera prospettiva sulle cose, insieme alla consapevolezza dello scacco da parte di una certa politica come una «lugubre buffonata»; con patimento perché, come annota, la leggerezza del cuore le sarebbe comunque rimasta impossibile.
Un’immersione nell’ingiustizia
La militanza rivoluzionaria di Simone Weil non può essere dettagliata senza il suo controverso rapporto con il partito comunista francese e la sua attenzione al sindacalismo, tutti elementi che non potevano consentirle la verifica in prima persona della questione sociale, bisognava prendere con forza fra le mani quell’ingiustizia. Un’immersione per capire a fondo, un’adesione profondamente marxiana tra teoria e prassi. E tuttavia qualcosa di più incandescente ad agitarla, un desiderio di spogliarsi da ogni rigidità concettuale e al contempo di corrodere un’«infelicità essenziale», saggiare e trasformare sventura e resistenza dentro il meccanismo produttivo. Farlo nella consapevolezza di essere un soggetto sessuato ha significato consegnare un’osservazione non neutra e spietatamente collocata, nella rappresentazione plastica, letteraria e politica di sé e delle compagne di lavoro.
Segnato ancora dalla violenta crisi del 1929, il lavoro in fabbrica si caratterizzava in quegli anni di uno sfruttamento e un grado di oppressione considerevoli. Punto primario della vicenda biografica e politica di Weil, La condizione operaia arriva in Italia già nel 1952 grazie alla traduzione di Franco Fortini, quindi a stretto giro dalla sua prima pubblicazione francese. La cronaca diaristica del lavoro di fabbrica che Weil aveva appuntato in un quaderno apposito, non è stata mai espunta dal contesto di lettere e piccoli saggi, ecco perché la recente edizione del solo Diario di fabbrica (Marietti, pp. 159, euro 16) a cura di Maria Concetta Sala e con la prefazione di Giancarlo Gaeta, risulta ancora più interessante.
L’ostilità delle macchine
Basata sulla versione critica delle Oeuvres complètes, il diario è nell’intenzione di Sala e Gaeta la possibilità di assistere a una narrazione politicamente necessaria. Che la lettura non sia semplice risulta da una parte squisitamente descrittiva che segue una scrittura di frammenti sincopata, dettata dalla precisione di riferire oggetti, situazioni e conti, che si affianca a commenti più sciolti di Weil segnati in un secondo momento nelle pagine rimaste vuote del quaderno. «Bisogna essere più coscienziosi quando ci si deve guadagnare da vivere». Sull’espressione, ascoltata per la prima volta da un’operaia, l’attenzione di Simone Weil ritorna più volte, riflettendo anche sulle ineguaglianze e il vacillare della sorellanza rispetto le strenue condizioni di lavoro. Nel diario, il funzionamento delle macchine in alcuni casi anche corredato da disegni, il salario a cottimo che non corrisponde mai alle effettive ore di lavoro, maniglie, connettori, placche e ancora il numero di scarti e pezzi sbagliati, sono l’inventario abitato da corpi di donne e uomini, l’orlo attraverso cui la giovane Weil tenta di non sparire e trovare un bandolo di sé, l’applicazione di operaie e operai di cui osservare le relazioni, gli umori, il modo in cui si confrontano con gli attrezzi. In questo breve torno di tempo non manca la registrazione degli stati d’animo, fatica, inerzia, profonda stanchezza da sentirsene spezzate, sollievo della libertà domenicale seppure imposta da una necessità ineluttabile. Il marchio inconfondibile dell’esperienza in fabbrica appartiene a ciò che per Giancarlo Gaeta è «la messa in atto radicale di un orientamento di vita che agiva in lei dall’adolescenza, corrispondente a un bisogno primario, quello dell’uscita definitiva dal mondo dell’immaginario».
Una radicalità che passa per la materialità ingombrante eppure da assumere e guardare in faccia, ai bordi della schiavitù e che dovrebbe interrogare anche il presente del lavoro, caratterizzato da sacche di espropriazione violenta che per molti aspetti fa della lettura di Weil un riferimento inaggirabile ancorché drammatico.
Le parole di Weil, impastate di carne e sangue ma anche di resistenza alla sventura, sono state motivo di brillanti riflessioni, sia da parte del femminismo in particolare quello della differenza sessuale, sia da parte di chi – come per esempio Eugenio Borgna – da sempre ha eletto la «passione dell’interiorità» a terreno fertile di confronto con testi letterari e filosofici.
Sono questi ultimi il vero nutrimento della relazione con l’altro, dell’incontro, abbacinanti intuizioni – come ricordava già Karl Jaspers – che molto più dei riferimenti scientifici raccontano un’ulteriorità anche per la psichiatria; se è vero infatti che «non c’è conoscenza se non nel solco del dolore» – espressione cruciale che Borgna riporta già nel suo Le intermittenze del cuore (2003) – accade che quegli enigmi abissali e oscuri al fondo degli eventi psichici possano essere conosciuti e interpretati grazie a scritture di senso.
Scritture colme di quel toccare la realtà attraverso se stessi, una conoscenza che, vien da sé, oltre a riconoscersi nel solco fenomenologico-esistenziale in cui eminentemente sta la riflessione di Borgna, sgorga dalle ragioni pascaliane del cuore – in questo facendo sponda con Ludwig Binswanger e Kurt Schneider, come capita anche in Figure dell’ansia (2005).
Una lucida testimonianza
Sarebbe difficile tuttavia dare conto del debito intenso di Borgna con un’interlocutrice prediletta e variamente disseminata nei suoi testi, fino a riemergere luminosa nel volume di un anno fa, Il tempo e la vita, percorso puntellato dalla presenza letteraria e febbrile della filosofa francese insieme alle parole di Emily Dickinson, Teresa d’Avila, Rilke e altri. Dopo la riflessione sul tempo che attraversa la biografia di ognuna e ognuno, Borgna approda ora, non a caso, a un volume come L’indicibile tenerezza. In cammino con Simone Weil(Feltrinelli, pp. 214, euro 18), in cui chiaro è il segno di gratitudine dello psichiatra nei confronti di una pensatrice folgorante, commovente e lucida testimone del suo tempo. La parte centrale del libro è dedicata proprio alla condizione operaia, l’esperienza della fabbrica cioè attraverso il diario e le lettere ricopre il primo capitolo della seconda parte. Primo testo che Borgna ricorda di avere letto restandone rapito quando la sua vita si confrontava con l’oscurità dolorosa dell’esperienza terapeutica, lasciandogli «tracce luminose e strazianti nella memoria». Attraverso sentieri ermeneutici «temerari e vertiginosi», Borgna rilegge quindi il diario scorgendone l’attualità in quella «reificazione dell’umano» che trasforma i soggetti in cose.
La miseria della coercizione
Una stoffa deteriorata delle relazioni e dei contesti collettivi in cui si perdono libertà e senso di giustizia, in cui il lavoro assume una straziante condizione; ancora oggi, in alcuni luoghi del mondo – aggiunge Borgna – vicini a noi. Proprio la rilettura del diario di fabbrica può mettere in drastica evidenza lo scandalo della violenza, il paradosso corrosivo dei «deserti luoghi» – quelli carichi di corpi che mentre Weil ha incontrato in fabbrica, Etty Hillesum ha incrociato a Westerbork e ad Auschwitz o Teresa di Calcutta – altra presenza nel libro di Borgna – in India. Sono i deserti luoghi consegnatici da Celan e da Cvetaeva, e gli interstizi manicomiali della colpa e della miseria della coercizione. Perché allora dovrebbero essere deserti questi luoghi, secondo Borgna? Probabilmente perché esiste un rintocco del tempo, quello dello spaesamento, in cui a ritornarci con il ricordo si avverte un potente silenzio, per niente disabitato. Sono allora mormoranti, di compassione e solidarietà – se si vuole – e altrettanto feroci perché radicalmente umani. Luoghi in cui, come ebbe a spiegare Simone Weil alla sua amica Albertine, «ci si urta duramente con la vita vera».
(Il Manifesto, 1 mar 2016)