di Tiziana Plebani
Si cominciano a scaldare i motori per dare il via alle celebrazioni dedicate ai 1600 anni di vita di Venezia e questa è una buona occasione per conoscere meglio la storia cittadina, a partire proprio dall’inizio. Il racconto delle origini, come per altre città, è denso infatti di intrecci narrativi a tinte forti, giusto per dare subito l’idea di un destino singolare e indipendente che si dipanava dal nulla. In questo groviglio di storie, un mito femminile di fondazione, pur ricordato da tutte le cronache antiche, è rimasto in ombra e merita invece attenzione. Ma andiamo per ordine.
Come è noto, Venezia non nacque il 25 marzo del 421, data che si è invece consolidata nel tempo, specie dopo il XIII secolo. Ma non si tratta di menzogne, falsità o, come diremmo oggi, fake news. Nella mentalità medievale la costruzione storica si riforniva di leggende, di racconti trasmessi per via orale e di documenti di dubbia provenienza: il confine tra storia e cronaca, tra istorie e lezende, del resto non venne mai tracciato rigorosamente e d’altronde il tema della veridicità del racconto non sembra aver costituito una preoccupazione ingombrante, tantomeno un ostacolo alla creazione di mitografie.
L’esigenza di ancorarsi e sviluppare miti fondativi, individuando un momento che interveniva provocando una cesura nel flusso della storia, divenne cruciale per le città d’alto Medioevo che avevano necessità di legittimare il loro nuovo corso. Bisognava ricollegare la storia locale, la propria vicenda, alla grande storia, per soddisfare quindi un racconto universale e uno particolare, creando una trama e un ordito. Le cronache cittadine, che si svilupparono dal XI-XII secolo soddisfano queste esigenze, risalendo sovente nel racconto sino ad abbracciare epoche remotissime, secondo scansioni temporali dettate dalla storia ecclesiastica, più spesso la nascita o la passione di Cristo, oppure il diluvio universale, o ancora leggende romane o troiane. E quanto più l’origine della narrazione aspirava a retrocedere nel tempo e a dilatare l’orizzonte geografico, tanto più il ricorso a fonti indirette e a tradizioni popolari, di cui si era anche smarrita la genesi, diveniva necessario.
Alle origini di molta narrazione storica cittadina si riscontra un mito fondativo romano oppure uno di matrice troiana, entrambe centrali per l’identità culturale urbana. I cronisti e gli storici veneziani, in accordo con le vicende politiche della città, esclusero il ricorso alla storia romana e privilegiarono la radice troiana che aveva alimentato la letteratura romanzesca che circolava in Europa.
Premierement furent il Troians, (In principio ci furono i Troiani.) Inizia così la storia di Venezia narrata dal Martin da Canal nella seconda metà del XIII secolo e non a caso scritta in francese, lingua con cui i romanzi circolavano appassionando i lettori. Ma perché mai tirare in ballo Troia e i suoi fuggitivi? Si trattava di rivendicare un’origine ben più antica di Roma con la pretesa di attingere a un’eredità che non cessava di nutrire l’immaginario medievale attraverso leggende, romanzi, epica. Un archetipo storico, un distillato ancora più puro e integro dell’antica civiltà.
Ecco dunque le cronache veneziane mettere in scena Enea, ma talvolta anche Antenore, nell’intenzione di strappare a Padova il suo motivo di orgoglio cittadino, inserendo altri troiani che giunti in Italia avrebbero quindi fondato molte città dall’Adda alla Pannonia, dando origine alla “prima Venezia” con capitale Aquileia, ma sarebbero giunti anche in laguna ad animarne le isole.
Ma non era sufficiente. C’era bisogno di un altro mito fondativo per popolare maggiormente queste terre miste ad acqua. Volutamente si fece orecchie da mercante alla trattazione redatta da Giovanni Diacono nell’XI secolo, che ricostruiva i percorsi migratori delle genti che, dalla terraferma veneta e non solo, si erano recate nelle isole lagunari per sottrarsi al dominio longobardo. Ci voleva un altro passaggio topico, un prima e dopo, un’altra cesura nel tempo a effetto: storici e cronisti si trovarono d’accordo nel far giocare ad Attila questo ruolo. Con Attila, figlio di cane, crudele ed empio, attorno al quale già dal VIII secolo erano sorte composizioni romanzesche e leggendarie ampiamente diffuse, e dal contrasto a lui opposto, in un quadro fosco di distruzioni, città arse, civiltà in pericolo, doveva sorgere il meglio: la cristianissima e libera Venezia.
Le cronache veneziane pertanto, abbandonati i troiani, intinsero le penne nell’inchiostro della leggenda attiliana, e presero a narrare le imprese del campione assoluto della lotta contro l’empio Attila, il re di Padova, Gilius. Costui, uomo giusto, pio e amato dal suo popolo, come si conviene a un vero eroe, affrontava più volte il crudele unno. Le varianti più estese si dilungavano su un episodio che sarebbe piaciuto al regista svedese Ingmar Bergman. Narravano infatti che il re Gilius si trovava a sfidare a una partita di scacchi Attila, che si presentava sotto le mentite spoglie di un pellegrino; una scena che, pur nelle diversità, non può non ricordare il film Il settimo sigillo, con Attila nella figura della Morte. Che Bergman abbia attinto spunti dalle cronache veneziane per la sua ambientazione risalente al XIII secolo? Ne dubitiamo.
Ma a noi interessa il seguito della storia e arrivare al nocciolo del mito femminile di fondazione. Mentre Gilius svelava l’identità del suo avversario, complice una profezia, e si apprestava ad affrontarlo in duello, chiamava la moglie, la regina Adriana, buona e cristianissima pure lei, e le ingiungeva di raccogliere i figli, le ancelle e i tesori e di andare verso il mare per mettersi al riparo. La regina che aveva ascoltato i racconti della distruzione della splendida Aquileia, come narrano le cronache, aveva grande paura; «honde la se fe chomdur con i navili verso il mar. Et la prima Ixola che la trovala, là stete». Il gruppo di donne, bambini, con a capo Adriana, avvistò, tra velme e terre emerse, ciò che viene definita «una mota de tera molto dura», ovvero un lembo di terra più consolidata, più salda, da cui derivò l’etimo della zona, Dorsoduro. Le cronache a questo punto non abbandonano la regina ma specificano che si fece edificatrice non solo di capanne di paglia e di legno ma di segni simbolici e spirituali in quella terra: «Et là quela dona la prima cosa che là fexela, la fé edifichar una chapeleta de legnio chon ase [assi], al nome del santo Anzolo Rafiel». Ecco dunque una donna, una regina, non solo fondare la vita in un’isola veneziana ma anche costruirvi la chiesa dell’Angelo Raffaele. La cronaca di Enrico Dandolo si sofferma a cercare di descrivere l’impegno assunto dalla regina, e dai primi abitanti di “quelle mote” che il mito voleva del tutto disabitate: «Et è da creder che cum grande fadiga alevono i luogi et stancie tra queli paludi, ma la fuga et la crudeltà di queli infideli Ungari li faxeva ogni fadiga quasi dilecto, alevando et acressando».
La regina, narrano cronache posteriore, aveva una figlia che poi divenne badessa del convento di San Zaccaria, ma questa è un’altra storia… sempre al femminile.
(Venezia nasce da una donna, Il Gazzettino, 18 febbraio 2021)