di Monica Ricci Sargentini
«La violenza sulle donne è in aumento, anche il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, ha detto che siamo ai livelli di una pandemia». Reem Alsalem, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla violenza contro le donne e le ragazze, parla con il Corriere della Sera alla vigilia dell’incontro “Violenza contro le donne e prostituzione: quale relazione?”, organizzato il 23 novembre a Milano dalla Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate e Resistenza Femminista, in collaborazione con Anteo e lo storico quotidiano milanese. Lo fa tenendo il punto su argomenti scottanti come la pornografia che considera «una forma di prostituzione cinematografica» e gli sport femminili che, afferma con convinzione, «devono essere riservati solo alle donne». Alsalem individua nel patriarcato «una delle maggiori cause della violenza contro le donne, degli abusi e del desiderio di dominare». Un sistema, dice, «che danneggia anche gli uomini, perché si aspetta che aderiscano ai modelli di mascolinità aggressivi, dominanti e violenti che vengono loro proposti». E spera di portare l’attuale governo dell’Afghanistan davanti alla Corte Internazionale di Giustizia: «Incriminare i talebani per aver violato i propri obblighi nei confronti delle proprie donne ai sensi del diritto internazionale avrebbe un forte potere simbolico».
La violenza contro le donne è in costante aumento in tutto il mondo, secondo lei cosa possiamo fare per fermarla?
«I dati che abbiamo dipingono un quadro molto allarmante. Oltre alle forme tradizionali di violenza, ne esistono di nuove che si generano grazie alla tecnologia digitale, penso ai deepfake [montaggi di immagini realizzati con l’intelligenza artificiale, Ndr] e alla crescente commercializzazione e mercificazione delle donne, delle loro capacità riproduttive e sessuali, come è il caso della prostituzione e della maternità surrogata. Per combattere la violenza sappiamo quello che dobbiamo fare, gli Stati hanno leggi chiare in proposito così come il diritto internazionale. Quello che serve è l’impegno politico. Le autorità devono dare priorità a questo problema e dire: “Faremo in modo che metà della nostra società sia al sicuro, sia trattata con pari dignità”».
E perché non c’è quest’impegno?
«Per attuare le leggi servono risorse e il mio timore è che in un periodo di austerità, anche in Europa, dove i servizi e l’attenzione per i più vulnerabili e per coloro che sono più a rischio vengono tagliati o declassati, temo che non vengano stanziati fondi e risorse sufficienti allo scopo. È davvero importante continuare a finanziare e sostenere le organizzazioni di difensori dei diritti umani e coinvolgerli in modo davvero significativo. Un’altra cosa che mi preoccupa è che parliamo molto della necessità di far partecipare le donne a tutti i processi che le riguardano, ma quando le donne dicono qualcosa che non piace ai governi o che non corrisponde alle loro priorità, le loro voci vengono messe da parte e questo accade ovunque nel mondo. Anche in Occidente le organizzazioni femminili vengono messe da parte, le voci delle donne vengono eclissate, le donne vengono vilipese e questo ovviamente va contro i principi dei diritti umani. Poi ci sono le guerre. Sappiamo che la violenza sessuale contro donne e ragazze nei conflitti è stata usata come strumento di guerra, ed è un problema preoccupante e allarmante, ma direi che, con l’accresciuta eradicazione della credibilità dell’ordine basato sul diritto internazionale e del rispetto del diritto internazionale e del diritto umanitario e delle leggi sui conflitti armati, stiamo assistendo anche a un’erosione della protezione di donne e ragazze contro tale violenza nei conflitti».
In un rapporto lei ha definito la prostituzione un sistema di violenza contro le donne e le ragazze. Qual è il modello migliore per porvi fine?
«È molto importante pensare all’immenso danno che viene inflitto alle donne nella prostituzione, inclusa la sofferenza psicologica, un trauma che può anche causare la dissociazione delle vittime e persino lo sviluppo di una relazione di dipendenza e attaccamento agli aggressori. Il modo miglior per affrontare questo sistema di violenza è il modello nordico o abolizionista, che si propone di sradicare la prostituzione ponendo alcuni punti fermi. Prima di tutto le donne nella prostituzione vanno considerate vittime e sopravvissute alla violenza. Quindi se le forze dell’ordine si imbattono in una donna nella prostituzione, lei non dovrebbe essere punita, criminalizzata, giudicata, vilipesa. In secondo luogo va affrontata la questione della domanda, che è al centro di questo sistema di sfruttamento. L’unico attore che ha davvero la possibilità di scegliere è l’acquirente: ogni volta che esce per acquistare un atto sessuale prende una decisione consapevole e ha la libertà di dire di no. E quindi dobbiamo iniziare a rendere più difficile e più inaccettabile, sia socialmente che legalmente, per uomini e ragazzi comprare corpi di donne. La domanda va criminalizzata, comminando multe considerevoli o condanne penali. E questo è cruciale perché finché non diventerà più difficile e punibile per gli uomini acquistare atti sessuali, non saremo mai in grado di affrontare davvero questo problema. La terza cosa è offrire strategie di uscita. Le donne nella prostituzione devono avere accesso a un supporto immediato alle cure per affrontare le conseguenze della prostituzione sui loro corpi e sulle loro menti, a un alloggio, a percorsi di formazione per ricominciare la loro vita in una situazione di sicurezza, dignità e protezione».
Lei ha chiesto che un test obbligatorio sul sesso venga introdotto negli eventi sportivi. Alle ultime Olimpiadi, però, ci si basava solo sul sesso presente sul passaporto. Come pensa di raggiungere questo obiettivo? Qual è la sua posizione sul caso di Imane Khelif?
«Sono stata chiara su questo. Il responsabile di ciò che è successo alle Olimpiadi di Parigi è il Comitato Olimpico. Il Cio deve proteggere gli sport femminili limitandone l’accesso alle donne. Non ci si può basare sul passaporto perché si sa che un certo numero di Paesi metteranno l’identità di genere della persona che può non corrispondere con il sesso biologico. Spero che il Cio abbia imparato la lezione da quello che è successo a Parigi e dal fatto che le giocatrici sono state messe in pericolo ed esposte ad attacchi. I test sul sesso erano stati scoraggiati negli anni ’80 perché erano invasivi e usati solo su certi gruppi di persone ma oggi sono economici ed efficienti oltre ad essere assolutamente necessari per determinare il sesso biologico di un partecipante. È quello che chiedono le atlete e noi dobbiamo ascoltarle».
In uno dei suoi ultimi rapporti al Consiglio per i diritti umani ha sottolineato il tremendo danno che la pornografia crea alle società e i chiari legami che ha con l’aumento e il mantenimento della violenza contro le donne. Come è possibile che la Commissione Europea abbia inviato un relatore al Pornfilmfestival di Berlino? E cosa si può fare per combattere l’industria del porno?
«Nel mio rapporto sulla prostituzione e la violenza contro le donne e le ragazze parlo della pornografia come prostituzione cinematografica. È un fenomeno che produce danni duraturi sulla parità di genere e anche sulla salute mentale e fisica di tutti, compresi adolescenti, ragazzi e ragazze, bambini e bambine. La mia raccomandazione finale è che la pornografia sia messa fuori legge. Nel frattempo dovremmo limitarne la visione ai maggiorenni e rafforzare i metodi di verifica dell’età. Ci vogliono norme serve per chi possiede, promuove o dà spazio a materiale che promuove la violenza. Quanto alla Commissione Europea, penso che sia giunto il momento che gli Stati smettano di trattare i produttori di pornografia e coloro che ospitano pornografia sui loro siti web come imprese senza responsabilità. Devono esserci delle conseguenze. Devono essere chiusi i siti se non rispettano le norme e i regolamenti. Mi preoccupa che la Commissione Europea abbia inviato un relatore al festival del porno perché dà l’impressione che tolleri gli aspetti dannosi e negativi di quell’industria».
In Iraq, Iran e Afghanistan, per citare alcuni Paesi, le donne sono sempre più messe in un angolo, i loro diritti cancellati. Sembra che la reazione delle Nazioni Unite non sia così netta soprattutto nel caso dei talebani a Kabul. Perché?
«Il problema della violenza contro le donne e le ragazze o la regressione nei diritti delle donne non è limitato a certi paesi o a una certa regione perché questa è una pandemia a livello globale. Certo ci sono Paesi che hanno fatto enormi progressi ma tutti devono affrontare questo problema. Se guardiamo all’Iran e all’Iraq, le donne e le ragazze godono ancora di diritti in una serie di aree importanti. Allo stesso tempo in Iraq c’è una bozza di legge per legalizzare il matrimonio delle bambine ma sta incontrando una feroce opposizione da parte di molte parti della società, di donne e di organizzazioni della società civili. Faccio notare che il matrimonio infantile esiste in una serie di Paesi tra cui 37 Stati americani. Quindi è qualcosa su cui dobbiamo lavorare. In una sorta di categoria a sé stante è l’Afghanistan, dove abbiamo assistito alla cancellazione più grave dei diritti delle donne nella vita pubblica e privata. Ma ancora una volta questa regressione non riflette le opinioni o le posizioni della società afghana ma di un gruppo armato che è salito al potere e ne sta abusando».
Non pensa che qualsiasi negoziato con i talebani, a qualunque tavolo, debba essere escluso finché loro non ammettono le donne nelle loro delegazioni? Come si può avere un dialogo o riconoscere l’autorità di queste persone?
«Ovvio che debbano esserci delle conseguenze per il modo in cui i talebani trattano le donne e le ragazze. Dobbiamo esplorare tutte le strade per ritenerli responsabili di ciò. E per questo sostengo l’iniziativa di quei Paesi che vogliono portare i talebani davanti alla Corte internazionale di giustizia. Perché l’Afghanistan è firmatario, ad esempio, della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne. Incriminare i talebani per aver violato i propri obblighi nei confronti delle proprie donne ai sensi del diritto internazionale avrebbe un forte potere simbolico. Ho anche, tra l’altro, sostenuto il fatto che dobbiamo rendere più difficile per l’Afghanistan normalizzare questo tipo di esclusione, repressione e discriminazione in campo culturale. Per esempio non far partecipare alle competizioni internazionali le squadre sportive maschili dell’Afghanistan, in qualsiasi disciplina, finché alle donne non sarà permesso di partecipare agli sport. Il discorso è diverso in campo umanitario perché la popolazione ha bisogno di assistenza. Ed è sottinteso che per promuovere i diritti umani e l’accesso all’assistenza umanitaria bisogna interfacciarsi con i poteri che hanno il controllo. E questo non significa dar loro un riconoscimento. Questo è quello che ha fatto l’Onu e che ho fatto anch’io, che sono andata in Afghanistan sei mesi dopo la presa del potere dei talebani. Ho anche chiesto all’OIC, l’Organizzazione della Conferenza Islamica, di essere più severa e più esplicita nel comunicare ai talebani che non possono nascondersi dietro l’Islam o la loro interpretazione dell’Islam. L’Islam non tollera, non supporta questo trattamento esclusivo, discriminatorio e invisibilizzante delle donne. Non dobbiamo far sì che il trattamento delle afgane venga normalizzato altrove, come stanno per esempio provando a fare gli Houthi in Yemen».
Contro le madri viene spesso usata nei tribunali la sindrome di alienazione parentale, che non ha basi scientifiche. Quali armi abbiamo contro questo fenomeno?
«Nel mio rapporto sulla custodia dei figli e la violenza contro le donne e le ragazze, che ho presentato al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite lo scorso anno, ho formulato una raccomandazione molto forte: dobbiamo mettere al bando l’uso di questo concetto, l’alienazione parentale. Innanzitutto non è un concetto scientifico, è uno pseudo-concetto. In secondo luogo viene utilizzata nei procedimenti giudiziari come un’arma contro le donne dagli autori di violenza che, odio dirlo, sono soprattutto uomini, per distrarre l’attenzione dai loro misfatti. La usano come forma di punizione. Dobbiamo togliere dalla scena questo concetto e prestare attenzione alle storie di violenza precedenti nella famiglia».
In Italia è stata appena introdotta una legge contro la maternità surrogata che punisce le coppie che vanno all’estero per accedere alla pratica. Qual è il suo punto di vista?
«Penso in generale che la pratica rappresenti la mercificazione della donna da un punto di vista riproduttivo e sessuale. Non posso però dare una posizione precisa sulle leggi in proposito perché non rientra nel mio mandato. Tuttavia ho inviato una lettera al governo della Grecia sulla mancanza di garanzie per prevenire lo sfruttamento delle donne, ma anche perché garantisca il miglior interesse del bambino nella sua legge sulla maternità surrogata. Ho intenzione, in futuro, di concentrarmi su questo. Nel frattempo accolgo con favore gli sforzi degli Stati che si battono contro lo sfruttamento».
Le faccio una domanda provocatoria: visto che sono gli uomini i maggiori responsabili dei comportamenti antisociali e violenti, oltreché delle guerre, non sarebbe ora che facessero un passo indietro e cedessero il passo alle donne? Come sarebbe un mondo in cui il potere è in mano alle donne?
«Penso che la causa della violenza contro le donne, degli abusi e del desiderio di dominare sia il patriarcato. E penso anche che il patriarcato danneggi anche gli uomini, perché si aspetta che aderiscano ai modelli di mascolinità aggressivi, dominanti e violenti che vengono loro proposti. Quindi, in realtà, credo che anche gli uomini e i ragazzi siano vittime ma in un modo diverso, perché se non aderiscano a questi modelli soffrono anche loro. E penso, ad esempio, che la pornografia danneggi anche chi la usa. Provoca disfunzioni sessuali, distrugge le famiglie. Ma, naturalmente, sono le donne e le ragazze a soffrire di più perché sono oggetto di questa dominazione. Ed è sicuramente vero che se coinvolgiamo le donne e le ragazze nella costruzione della pace, nella risoluzione dei conflitti, le possibilità di successo saranno maggiori. I dati dimostrano anche che si ridurrebbe la probabilità di una guerra».
(Corriere della sera, 26 novembre 2024, con il titolo Violenza sulle donne a livello pandemico, per fermarla servono soldi e volontà politica)