di Annie Marino
Questi pensieri hanno cominciato a svilupparsi durante la presentazione del libro di Alessandra Bocchetti L’anno dell’ambiguo materno, il 24 settembre scorso. Sarebbe però inesatto affermare che siano nati lì, perché già esistevano. Non ho mai avuto il desiderio di essere madre, tutto quello che veniva detto sull’esperienza della maternità mi sembrava lontano da me e, di più, percepivo quella distanza come una salvaguardia.
Nel corso di dell’incontro ha però avuto luogo un cambio di prospettiva: non ero esclusa, non lo sono. A un certo momento si è parlato infatti di come alcune donne, dopo aver messo al mondo la creatura, sentano per la prima volta di poter accedere a espedienti come la violenza, per proteggerla o farne il bene. Questa consapevolezza è per loro sgradevole e, immagino io, in parte non si riconoscono, in parte credono di trovarsi nella necessità e di esserne sopraffatte. Se questo non è esattamente ciò che è stato detto, mi è però d’aiuto nel dire ciò che intendo io: temo una trasformazione così imprevedibile di me stessa.
L’analisi di Daniela Santoro all’incontro di Via Dogana Tre del 2 ottobre, peraltro, ha messo bene in evidenza come anche le donne che nella maternità sperimentano una trasformazione positiva di sé o nuove modalità di relazione, possano essere esposte a dispendiosi investimenti di energia o a vere e proprie conseguenze negative: come a non dimenticare mai che il compito assegnato è garantire la riproduzione, non il piacere.
Partendo ora da me, tenendo conto adesso solo di me, non riesco a parlare di maternità come di “aumento” o “diminuzione”, parole che sono state usate durante la discussione che si è svolta il 24 settembre. Riesco a dire solo trasformazione, prima di tutto perché la maternità realizza la possibilità che a ogni donna è data a partire dal proprio sesso e che, quindi, di per sé esiste sempre nel suo corpo, nella sua vita, nel suo desiderio. Il rapporto a due con la creatura viene dopo e di questo non posso dire niente perché, è vero, ne sono esclusa.
Si può trasformarsi al di fuori della maternità, certo, ma quale altra trasformazione è più potente? Quale è più spaventosa? Non ci dovrebbe essere una ragione altrettanto potente per una donna che trova già il proprio piacere altrove, per decidere di accoglierla?È a me stessa, per iniziare, che ho posto questa domanda e mi sono risposta istintivamente che un grande amore sarebbe una buona ragione, dicendolo per la prima volta a voce alta in un confronto con Silvia Baratella, con lo stesso tono con cui avrei detto “un’avventura straordinaria”. Mi è parsa una risposta insufficiente. Quando Silvia mi ha invitata a riflettere su quello che intendevo, sono arrivata solo a ribadire quanto sia importante, vitale, il mio piacere[1]. Credo quindi che sia necessario continuare a parlare di maternità e a inventare nuove pratiche per la maternità come scelta politica; mi sembra però che anche gli uomini alla luce del superamento di narrazioni come quelle dei padri a cui quasi bastava lavorare duramente o, almeno, lavorare, per essere considerati dei “buoni padri”, abbiano adesso qualcosa da dirsi, da dire.
Vorrei tornare su un’altra parola che è stata utilizzata nel corso della discussione del 24 settembre. La parola è “godimento” ed è ciò che sento quando vengo invitata temporaneamente nel rapporto tra alcune amiche e le loro bambine, occupandomi di queste ultime per lasciare alle madri qualche ora per sé. Questo godimento è riconducibile, nel mio caso, non alla condivisione di alcune cose che sono appannaggio esclusivo o privilegiato delle creature piccole e al loro effetto disintossicante, ma al tempo e allo spazio che si crea per le madri: alla libertà femminile possibile, ancora, fuori dall’isolamento, nella relazione; mentre, pur nell’improvvisazione, io mi accorgo di cavarmela piuttosto bene con le piccole, anzi, sono brava. Allora: cosa si può fare perché tutta questa libertà e questo sapere femminile non siano sprecati? Ci deve essere qualcosa di più, se si vuole, che si può fare.
(#VD3 – www.libreriadelledonne.it, 20 ottobre 2022)
[1] Dopo giorni, durante la riunione di Via Dogana Tre del 2 ottobre, ho definito un grande amore come: «il realizzarsi delle condizioni essenziali per la cura e l’accudimento senza che il proprio piacere venga meno».