di Laura Colombo
I temi controversi che in questi giorni, a torto o a ragione, sono passati sotto l’etichetta “diritti dei bambini” hanno bisogno di pensiero e ho sentito l’esigenza di trovare un punto fermo per orientarmi. Attraverso la prospettiva della differenza sessuale, è possibile squadernare verità altrimenti mistificate. La prima e principale riguarda l’asimmetria tra donne e uomini in materia di riproduzione, essendo la capacità procreativa propria del corpo femminile, che porta avanti il processo di gestazione per trasmettere la vita. È vero che negli ultimi decenni la tecnologia ha reso possibile la procreazione con mezzi artificiali, scindendola dalla natura, ma è anche vero che la riproduzione artificiale rimanda sempre alla procreazione naturale: anche con le tecnologie riproduttive, l’embrione ha origine dall’incontro di due gameti di provenienza materna e paterna (omologa o eterologa che sia) e si sviluppa all’interno del corpo di una donna che lo dà alla luce. Questa asimmetria tra i sessi nella procreazione è, a mio parere, un preciso punto di ancoraggio per pensare la maternità da molti punti di vista, anche quello giuridico. Scrive Silvia Niccolai: “Nascere da un corpo di donna fa di un essere umano un certo qualcuno: il figlio di lei. Mater semper certa è un principio anti-volontarista che ferma la capacità di ogni dispositivo – di legge o di contratto – di manipolare l’identità e la storia di un essere umano facendone il ‘costrutto’ di quel dispositivo, ed è in questo senso un auto-limite che presidia un rapporto il meno possibile squilibrato tra ‘legge’ e ‘realtà’, al cospetto dell’angosciante consapevolezza di ciò che può implicare l’abuso della prima nei confronti della seconda”[1].
Posta questa asimmetria, è evidente la differenza che passa tra una famiglia composta da due donne e quella composta da due uomini: nel primo caso, la procreazione può comportare uno sdoppiamento di maternità (la madre gestazionale può dare alla luce una creatura che origina dal gamete femminile della compagna e da quello maschile necessariamente eterologo) ma chi nasce mantiene il legame materno ed eventualmente potrà risalire al padre biologico. Nel caso di una coppia di uomini, se viene negata la possibilità di adottare una creatura già nata, il fare famiglia passa necessariamente per la surrogazione di maternità, che avviene inevitabilmente in un contesto di mercato anche quando è di carattere gratuito (non solo per via del rimborso spese alla gestante, ma anche e soprattutto per le agenzie di intermediazione, gli avvocati e tutto l’apparato a pagamento che rende possibile la surrogazione).
Per i bambini e le bambine già venuti al mondo, è a mio parere fondamentale che l’istituto dell’adozione in casi particolari sia il più snello possibile, in modo da riconoscere, anche da un punto di vista giuridico, una famiglia che di fatto già esiste, preservando tuttavia l’interesse primario e fondamentale del minore alla conoscenza delle proprie origini. Questo perché noi siamo anche corpo, il nostro corpo ha una sua storia che fa tutt’uno con la storia della nostra umanità: la storia del corpo conta, la biologia conta insieme e mescolata a tutte le relazioni che hanno fatto di noi l’essere umano che siamo.
Detto questo, mi chiedo quali significati essenziali veicolava la manifestazione del 18 marzo. In primo luogo, mi pare evidente che si manifestasse il sacrosanto bisogno di rendere socialmente accettato il “fare famiglia” da parte di coppie omogenitoriali. I discorsi sui diritti dei bambini sono in realtà discorsi sulla necessità che siano riconosciute e accettate famiglie differenti da quella tradizionale. C’era anche un non detto, un sottaciuto discorso antidiscriminatorio che, ahimè, presuppone la parità tra uomini e donne e la loro equivalenza nella dimensione del fare: l’accudimento, l’educazione, il crescere i bambini lo fanno sia i padri che le madri, si pone quindi la genitorialità sul piano sociale espungendo il di più femminile della gestazione e del parto, che noi sappiamo non essere un mero fare ma esperienze di una qualità differente[2]. Più precisamente, il di più femminile viene collocato in una dimensione irrilevante e sorprende che siano anche le donne a fare questa mossa.
La matassa ingarbugliata dei discorsi che circolano intorno alla maternità surrogata diventa per me ancora più intricata quando penso alle coppie eterosessuali che vi ricorrono, perché in quel caso è in questione un desiderio femminile che resta enigmatico e inespresso. Cerco una leva nel femminismo per orientarmi e, come è in parte emerso nel numero di Via Dogana 3 dedicato alla maternità (ottobre 2022), a giocare un ruolo determinante sarebbe l’innegabile guadagno femminile della procreazione per libera scelta. Pensando allo stigma sociale che gravava sulle donne con figli al di fuori del matrimonio di pochi decenni fa, ci rendiamo conto di quanta strada abbia fatto la libertà femminile. Se si aggiungono i progressi fatti dalla scienza nel campo della riproduzione assistita, comprendiamo il senso dei discorsi che legano la maternità a una libera scelta femminile. Tuttavia, questo legame presenta lati oscuri e multiformi: non sempre scegliere di essere madre significa effettivamente poter diventare madre. Il silenzio femminile e femminista è proprio nel punto ostico della messa in parola di un desiderio ostinato, quando la possibilità di scelta si interrompe. Mi chiedo come rendere possibile un discorso. Forse attraverso la creazione di uno spazio politico perché lei possa trovare le parole, condivise, scambiate con altre, per venire a capo del suo desiderio non realizzabile in maniera sensata.
[1] https://iris.unica.it/retrieve/e2f56ed8-2f10-3eaf-e053-3a05fe0a5d97/silvia%20genius.pdf
[2] Stefania Tarantino ha saputo descriverlo con nitidezza e verità in un recente post facebook
(libreriadelledonne.it, 31 marzo 2023)