di Laura Colombo
Sta per suonare la campanella del primo giorno di scuola della prima elementare. Li vedete? Bambine e bambini riempiono il cortile di urla e risate. In un ambiente nuovo, ritrovano qualcuno che conoscono e, dopo un attimo di sospensione ed esitazione, rotolano in un’allegria nuova, si stringono e si allontanano per farsi coraggio e rendere vero, ancora per un po’, che l’amica del cuore sarà di certo la compagna di banco.
Dietro ci sono i genitori, probabilmente intimoriti dal primo impatto con una pesante “istituzione”, sicuramente attraversati dai ricordi di quella curiosità e quella paura che leggono negli occhi dei figli. E se i genitori sono due mamme? Probabilmente sono partite molto tempo fa a informarsi sulle scuole “giuste”, quelle con dirigenti e maestre aperte al reale che cambia e non troppo intimorite dalle difficoltà che i cambiamenti pongono a ciascuno. Forse si guardano intorno con più circospezione, domandandosi se le maestre “lo sanno”, studiando gli occhi e le movenze delle altre mamme e papà, alla ricerca di un segno di apertura: questo spazio comune è praticabile per tutte e tutti, magari con un filo di felicità.
Poi la burocrazia sommerge tutto: assicurazione, anticipo dei soldi per le attività extrascolastiche (perché nomi così brutti? Perché non ci sono più le “gite”?), deleghe per il ritiro dei bambini da parte di tate, nonni, zie, amici. Eccolo il panico arrivare. E se oggi lei non può ritirare il figlio perché non c’è ancora la delega? Lei “non è nessuno” dal punto di vista della legge, di fatto è la mamma per il bambino. Questa è la vertigine che ti prende quando irrompe nella tua vita il controllo dell’istituzione, quel potere fatto di regole già scritte che sanciscono in astratto cosa deve essere, tutto il resto essendo fuori norma e quindi un problema. Ricordo ancora la prima volta che ho preso un aereo con mia figlia, che aveva poco più di un anno. Da sconsiderata, non avevo portato alcun documento della piccola. La ragazza del check-in non voleva farci passare, non potendo provare che la bambina fosse mia figlia, nonostante l’evidenza di una creatura aggrappata a me con fiducia, mentre misurava con gli occhi lo spazio enorme che la circondava. Abbiamo parlato e ha prevalso il buon senso. Ecco, buona parte del necessario per trovare mediazioni creative è già lì, a portata di mano: una relazione fiduciosa con le maestre, il porsi quotidiano nella propria realtà di famiglia, l’attenzione per il bambino e le sue relazioni amicali. Ma davvero conosciamo queste possibilità?
L’ansia che prende di fronte ai muri della burocrazia può venire quando ci si sente sole/i contro tutti e prive/i di forza in una realtà che si percepisce ostile. Tuttavia un’alternativa esiste, ed è quella che ho suggerito a un’amica in questa situazione: fai leva su quello che c’è, non su quello che manca; punta sulla relazione con le maestre e sulla fiducia nelle capacità inventive tue e altrui. È la politica delle relazioni, che scommette sulla presa di coscienza a partire dalle domande più semplici: chi è l’altra, l’altro? Che cosa posso fare io per condividere con maestre e genitori un’idea grande di scuola? Posso esserci in prima persona, farmi carico del desiderio di avere una scuola all’altezza del mondo che cambia e dire pubblicamente la verità, sdrammatizzare le paure, puntando su relazioni che restituiscano senso e valore alla comune esperienza.
Resta la contraddizione aperta di essere “inesistente” rispetto a quanto stabilito dalla legge, che è il punto controverso ogni volta che abbiamo a che fare con la materia dell’esistenza e della libertà umana, per lo più femminile: amore, vita, morte, maternità, sessualità, desiderio, libere relazioni. Clara Jourdan, in un pezzo scritto per il sito della Libreria (Due donne (o due uomini) e le loro creature, libreriadelledonne.it, 4/6/2015), afferma che se nei legami omosessuali «nascono o entrano creature piccole, il rapporto delle persone adulte con queste creature viene inevitabilmente iscritto nelle forme giuridiche previste dall’ordinamento. Così, mentre in una coppia donna-uomo non sposata entrambi sono genitori dei loro figli a tutti gli effetti, ormai, in una coppia dello stesso sesso no, e si crea una situazione magari ben saldata dall’affetto ma certamente difficile da vivere, sottoposta a continue prove, perché il rapporto tra genitori e figli minori è sempre più pervasivamente controllato dalle istituzioni». Sono d’accordo con lei e auspico che il disegno di legge sulle unioni civili e l’adozione, in questi giorni al Senato, vada in porto. È importante che la realtà sia vista e vengano registrate le trasformazioni avvenute nella ricerca libera della maternità o paternità, pur sapendo che non dipende da una legge la qualità dei legami sociali.
Suor Eugenia Bonetti, in una recente intervista a proposito del suo lavoro con le prostitute ridotte in schiavitù, ha sciolto con semplicità la contraddizione necessità/inessenzialità dei diritti raccontando di aver ottenuto una legge che «ha aperto una grande porta. Una volta riconosciuta la tratta abbiamo potuto aprire case di accoglienza per le donne che tentavano di liberarsi dalla schiavitù.» (Le suore, per esempio…, da Donne Chiesa Mondo, 1/10/2015). Da anni lavorava con le vittime della tratta con altre suore, e il suo impegno è nato dall’incontro con una donna nigeriana che l’ha coinvolta così tanto da cambiarle la vita. Suor Eugenia non ha aspettato la legge, ma ha lottato perché questa potesse aiutarla a farsi ascoltare dove c’era più sordità. Le leggi e le politiche istituzionali, quando ci sono e funzionano, possono aiutare a risolvere problemi concreti e offrono risorse per un lavoro tutto da fare. I veri cambiamenti restano certamente nelle mani di donne e uomini in carne e ossa, chiamati a dare senso all’esistenza quotidiana a partire dalla libera e mutevole espressione di sé.
(Via Dogana 3, 18 ottobre 2015)