di Grazia Livi
Giornalista. Ancora oggi, se pronunzio questa parola e la riferisco a me, provo un senso di malessere, quasi dicessi qualcosa di bizzarro e di incongruo, come “acrobata” o “venditrice di accendini”. Eppure, per vari anni, fra il ’57 e il ’70, quando l’area dell’informazione non era ancora stata invasa dalla TV, sono stata giornalista per un grande settimanale a rotocalco. Avevo un contratto di collaborazione con esclusiva di firma; ero una specie di inviata. Inchieste, interviste. Il mio territorio era genericamente culturale. D’un tratto, io ragazza fiorentina borghese, educata studiosamente e moralisticamente, firmavo disinvolta articoli col mio nome e cognome. Che fossi impaurita non si vedeva: il nome appariva in lettere grandi, in neretto. Firmavo e viaggiavo. Incontravo artisti. Portavo a termine incarichi, in Italia e all’estero. C’era di che inebriarsi un poco. Cosa facevano, nello stesso periodo, le ragazze del mio ambiente? Finito il liceo e l’università, sposavano un professionista, mettevano su una famiglia regolare. Io, invece, spinta dall’energia, dalla curiosità, dal bisogno di conoscere, da un’informe ansia di attuazione, mi ero allontanata da quelle regole. In verità, come scrissi molti anni dopo, cercavo di sottrarre “la mia identità all’informe destino femmineo”. Sì, questo era il punto. Da sola, senza essere cosciente di nulla, priva di una ideologia che mi sostenesse, andavo verso la mia emancipazione, così, per l’impulso ad allargarmi, per l’impossibilità di credere in quei modelli femminili, statici e inespressi, che mi toglievano la voglia di vivere. Il giornalismo fu, nei primi tempi, più delizia che croce. Intanto avevo un committente che mi convocava, e percepivo uno stipendio. Entravo nella stanza del direttore con una mascherina vivace e tiravo fuori un foglietto con una lista di proposte, c’erano a volte degli assensi subitanei. In segreteria veniva prenotato per me l’albergo e il treno. Sperimentavo così un rapporto di dare e avere che a me pareva fondato sull’equità e sull’oggettività e che mi lusingava perché era lo stesso che legava gli uomini fra di loro, sul terreno della professione. In secondo luogo imparavo un mestiere, sfruttando un dono per lo scrivere che giaceva nella mia oscurità e obbedendo a una mia acerba esigenza: che le parole mettessero ordine, conferissero un significato, una lucidità, una ragione.
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In verità passavo il tempo a scartare, a scartare sbiadendo a poco a poco quello che sentivo dentro di me e appiattendo quello che avevo capito. A volte certi colloqui erano stati così ricchi che ne ero uscita turbatissima (penso a certi incontri con Giacometti, con Menuhin, con Luchino Visconti). Avevo una forte coscienza di quella ricchezza e nello stesso tempo della sua intraducibilità. Quando mi mettevo a lavorare ero già quasi muta. Dovevo comprimere, comprimere. Dovevo spianare tutto col rullo compressore del senso comune. Dovevo semplificare. Infine, ecco il prodotto. Il fattorino entrava di corsa lasciando nell’atrio la motoretta col motore acceso. Ficcava nella cartella l’oggetto. Subito dopo io andavo a dormire esausta. Il fatto era che fra ciò che avevo capito e ciò che avevo espresso restava un divario che mi svuotava. Misi a fuoco più tardi la ragione di questo svuotamento. Era semplicemente perché io non mi esprimevo affatto. La firma, di cui ero andata orgogliosa, rivelava un’identità provvisoria. Giornalista. Un’identità di superficie. Mancava ogni consistenza. Quella firma non ero io. In realtà, col passare del tempo, sentivo confusamente che dovevo ancorarmi. Ma a cosa? A una famiglia? A una fede? A un’ideologia? A una diversa professione? Ero scontenta ma continuai a scrivere articoli sottratti ogni volta al mio vero sentire. Non a caso si chiamavano “servizi”, e come tali dipendevano da quell’esercito di fantasmi fedeli che ogni anno, abbonandosi, rinnovava al settimanale la propria fiducia. Giocavo un poco col lessico, questo era tutto. Aspettavo.
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No, non fu una liberazione. Poiché dovevo rispondere di me davanti a me, fu solo una necessità. Fu un sollievo, a volte. Se ripenso a quegli anni – sette, otto – prima che cominciassi a pubblicare saggi e racconti, vedo che l’abbandono di un mestiere che non sentivo mio, era stato inevitabile. Quel mestiere, mi cito di nuovo, «più che nutrimento mi aveva dato cibo». Ora non avevo neppure bisogno di cibo. Mio marito provvedeva in gran parte a me, e questo fu un altro prezzo che dovetti pagare e che mi costò. Attrezzai in modo nuovo la mia scrivania. Non mi era stato forse detto che nella mia scrittura s’intravedeva qualcosa di diverso? Era l’altra identità che s’affacciava al reticolato delle parole consumate, piegate a mille usi, e si guardava intorno. Era lei che aveva bisogno di essere alimentata. Come? Lo capii gradualmente.
Prima di tutto preparandole un’area di raccoglimento e di piena gratuità. Nessun committente doveva esistere.
L’unico committente era interno e siccome era molto debole, bastava il minimo pretesto perché si confondesse: una visita, un mal di denti, un litigio, un capriccio, una cattiva lettura, un dovere. Dovetti irrobustire la sua voce e cercai di ridurre certe interferenze, anche se mi aumentava il senso di colpa. Dovetti inventare il silenzio e farne, in certe ore, la mia condizioni di vita. Nel silenzio mi imposi un lavoro assiduo, come un falegname che pialla il legno. Volevo ridestare da quel giacimento di cui ho detto prima – oscuro, grumoso – il maggior numero di parole possibili.
(…)
A poco a poco la mia identità prese a riconoscersi – e a sfaccettarsi – attraverso le parole scritte e le parole presero a radicarsi nell’identità. Il linguaggio – uno scavo nella coscienza – si approfondì e mi promise di diventare il mio fedele specchio. Quante severe implicazioni, in questo miraggio! Quanta disciplina. Ma era finalmente un lavoro rivolto all’interno, è sempre questo che intendo quando dico “scrittrice”. E quando dico “giornalista” intendo l’opposto: una che si volge impulsivamente ai fatti, e li insegue, e crede di afferrarli al volo, fin quando si trova lontanissima da sé, dispersa e consumata da una vana corsa. Allora il principale problema – lo fu per me – sarà di “rientrare a casa”. La casa del linguaggio è approdo e permanenza. Per usare le parole di Gianna Manzini (le scrisse nel ’45, a proposito di Virginia Woolf) il problema sarà imparare a raccogliersi l’anima e a tenerla in fronte come la lampada dei minatori. Fu uno stato di necessità per lei. Dal quale scaturì un modo di essere scrittrice che volle definire così: una specie di monacazione non palese. Trascrivere oggi questa definizione fa un certo effetto. Nulla potrebbe apparire più inattuale e incongruo, considerato lo spirito dell’epoca. Ma la Manzini aggiunse che da quel modo di essere, le derivava “una scabrosa libertà”.
(“Lapis”, n.22, giugno 1994)