di Stella Zaltieri Pirola
Da adolescente fino ai 20 anni ho fatto la modella. I miei genitori trovavano fosse un’opportunità unica e io decisi di compiacerli. Avevo da redimermi per il mio precoce dichiarato lesbismo e sfilare significava l’occasione di mostrargli che dopotutto ero normale. La mia identità di ragazzina si costruì a partire dagli sguardi luridi degli uomini che stavano fissi a guardarmi, facendomi sentire una piccola preda impotente di fronte a un branco di lupi affamati. Il loro sguardo mi ha consumata dal di dentro fino ai muscoli e alla pelle. Sotto un regime di perfezione estetica le privazioni alimentari delle mie compagne di carpet erano quotidiane; un’insalata semplice era considerata un pasto completo. Ci volle poco tempo prima che arrivassero le proposte sessuali. Agenti, presentatori, giornalisti, uomini di ogni età si avvicinavano a noi raccontando delle possibilità che avevano da offrirci e quello che volevano in cambio era chiaro. Conobbi ragazze che accettarono, una volta o di più, per soldi o in cambio di raccomandazioni. Avevano 17, 18 anni come me, erano ambiziose e persuase che il compromesso era necessario. Tacevano la loro scelta, sembravano spavalde e sicure di sé, ma mi era perfettamente visibile sul loro volto il prezzo altissimo che pagavano. Un ricordo che mi sovviene alla mente è quello di una ragazza che si massaggiava bruscamente le cosce con una patata cospargendole poi di lacca per nascondere la cellulite, toccandosi con un distacco e una materialità tale che mi indusse a pensare a un calzolaio che lucida una scarpa, a un chirurgo che pulisce i suoi strumenti. Il loro corpo era il loro strumento e più le guardavo e più mi parevano delle donne perse, spezzate nella loro identità, ossessionate dal loro corpo, dal desiderio morboso di essere belle secondo il gusto degli uomini, per piacergli, per essere scelte da loro ancora e ancora. Libertà di autodeterminarsi, di essere imprenditrici di se stesse, la chiamano alcuni. Mentre altri fanno uso delle donne senza troppo preoccuparsene. Sbocciò in me un desiderio che in breve tempo si trasformò in un irrimediabile fuoco femminista e da un giorno all’altro, in conflitto con la mia famiglia, rifiutai di continuare a sfilare. La mia sola presenza in quell’ambiente mi faceva sentire una complice sporca di un sistema che mi odiava e mi riduceva a oggetto. Non c’è alcuna libertà nella scelta di vendersi, le donne che lo fanno si considerano di meno valore dei tacchi che portano e credono di non poter chiedere di meglio per se stesse; di questo io sono sicura. Non si può pensare che una donna possa ricevere del denaro in cambio di una prestazione sessuale credendo che questo non abbia riflesso sulla sua integrità, sulla sua anima. La riduzione di sé a cosa non è senza conseguenze, non è come vendere il proprio cervello al lavoro intellettuale o le proprie braccia alla fabbrica. Delle libertà di chi stiamo parlando? Delle donne di vendersi? No, degli uomini di comprarci. La solita storia dunque, che dopo l’emancipazione sessuale femminile ci viene meschinamente offerta come una nostra libertà, di una libera preda in un libero branco di lupi.
(www.libreriadelledonne.it, 20 aprile 2017)