di Beppe Pavan (CdB Viottoli – Pinerolo)
Sono certo che tra chi naviga su questo sito qualcuno e qualcuna avrà già letto il recentissimo libro di Mira Furlani, della Comunità di Base dell’Isolotto di Firenze, intitolato “Le donne e il prete”. Non c’è dubbio che si tratti di un grande gesto di coraggio. Raccontare nel dettaglio la sua relazione con un prete carismatico come Enzo Mazzi, mettendone in luce aspetti nascosti della personalità e dei modi di fare, significa per lei esporsi al rischio di critiche feroci.
Ma chi non era con lei in quelle stanze in quei momenti non può che prendere atto del suo racconto; a cominciare da me, che per Enzo avevo solo tanta venerazione e stima, al punto da confidargli, ogni volta che ne avevo l’occasione, la mia sofferenza per i disagi e le difficoltà che andavano accumulandosi nella relazione con il prete della nostra comunità. Lui mi ascoltava e sembrava capire… ma non credo che tra loro abbiano mai parlato di tutto questo. Sarebbe stata una buona pratica di autocoscienza, che noi “uomini in cammino” sappiamo bene quanto sia importante e decisiva per la nostra conversione, per il nostro cambiamento di vita. È forse più facile, meno coinvolgente, elaborare una teoria per giustificare ex post, ad esempio, una scelta di abbandono.
Il libro di Mira mi ha messo di fronte a un dato di realtà a cui cercavo inutilmente di sfuggire con il silenzio o con la frustrante ricerca di discorsi disincarnati, per non essere accusato di giudicare le persone: non è possibile parlare di patriarcato in termini astratti. Il discorso sul patriarcato richiama immediatamente sulla scena le forme della sua incarnazione: persone, episodi, storie, dottrine… che lo rappresentano nel nostro pensiero e nella nostra quotidianità relazionale.
Affermare – come siamo ormai quasi tutti e tutte consapevoli nelle CdB – che la Chiesa cattolica, maschilista e misogina, omofoba e sessuofoba, è colonna portante della cultura patriarcale significa, a mio avviso, identificare questa colonna con l’insieme di tutti i componenti di quell’ordine gerarchico e maschilista che sono i preti in tutte le sfumature della piramide, dalla base al vertice. Dobbiamo aver pazienza, ma non è possibile liberarci dal peso della cultura patriarcale se non la riconosciamo e non la nominiamo: non è un’entità astratta e metafisica, ma concreta e materiale come i nostri corpi, che sono capaci di pensiero, anche metafisico, di relazioni d’amore, di condivisione… ma anche di potere, di presunzione di superiorità, fino al dominio su corpi e coscienze altrui.
Non è certamente facile liberarci dalla sottomissione a questa cultura, da duemila anni predicataci come “parola di Dio”; ancora una volta sono donne coloro che ci aprono gli occhi e ci aiutano, con il coraggio della loro consapevolezza e delle loro parole. Che sono pratiche d’amore: per se stesse, innanzitutto, per la loro libertà; ma anche per le altre donne, alla cui vita donano luce; e di conseguenza anche per noi uomini, che con i preti condividiamo l’appartenenza al genere che si è assunto la responsabilità storica – da una decina di millenni – di imporsi come dio unico e assoluto, signore e padrone del creato e di chi lo abita.
Quanto sia radicata, questa cultura, anche nel piccolo mondo delle nostre CdB lo documenta, a mio avviso, la convinzione ferrea di voler restare in “questa Chiesa”, che vogliamo cambiare facendola “altra”, non facendone un’altra, perché la amiamo, ecc. ecc.… Eppure sappiamo – ne siamo convinti/e – che il popolo di Dio è l’umanità, con tutte le forme religiose che si è data e che continua a costruire. Io credo che il “regno di Dio” sia la convivialità di tutte le differenze, che danno forma e anima all’umanità e all’intero creato, e che il nostro cammino sia di conversione all’esercizio di una soggettività dal cui senso del limite possiamo imparare a convivere senza esercitare alcuna forma di violenza e di sopraffazione. Nel regno di Dio c’è spazio per figli e figlie, cioè per fratelli e sorelle: ma è la Madre che ci rende consapevoli di questa relazione reciproca fra di noi, non l’ordine gerarchico dei padri.
Gesto d’amore è ogni invito a prenderne coscienza e a intraprendere cammini di libertà a partire ciascuno e ciascuna da sé. È un gesto d’amore per i preti ogni racconto, ogni riflessione che si dona come invito a cambiare in senso comunitario le loro modalità di stare nelle relazioni, scendendo da ogni più piccolo piedestallo su cui la formazione seminaristica li ha issati come pastori di un gregge.
Anche questo linguaggio “pastorale” sarebbe conveniente abbandonare, alla pari di quello sessista maschilista: sono entrambi linguaggi patriarcali, che perpetuano l’immaginario della superiorità, su cui si fonda la legittimazione di relazioni di potere che rendono vuote parole i discorsi sulla comune figliolanza nei confronti di Dio Padre.
Le comunità di base sono un luogo pressoché unico dove vivere questa ricerca in piena libertà. Ma questa libertà non sarà davvero piena finché non le daremo sostanza, abbandonando quella postura che impedisce di aprirci al confronto fra uomini e donne, nella reciproca differenza. Il racconto di Mira è un piccolo grande passo avanti su questa strada: da parte mia lo accolgo con sincera gratitudine.
(www.cdbitalia.it, 29 novembre 2016)
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MIRA FURLANI, Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei, Gabrielli editori, Verona 2016, € 12,00