di Alessandra De Perini
Tra la fine degli anni ’80 e la prima metà dei ’90, con alcune giovani donne incontrate ad un convegno nazionale intitolato “Da desiderio a desiderio” (Impruneta, 1987), ci siamo chieste quanto il nostro piacere fosse veramente autonomo dal simbolismo vigente, come l’intensità delle relazioni che vivevamo nell’intimità con altre donne potesse diventare forza politica spendibile nella vita di tutti i giorni. Da lì è nato un percorso di ricerca e trasformazione in cui, scambiandoci parole che nascevano dall’esperienza diretta di ognuna, abbiamo interrogato una forma della sessualità femminile storicamente esclusa dall’ordine simbolico dominante e cercato di mettere in parole il piacere e il sapere dei nostri rapporti. Il percorso si concluse nel 1997 con un librino intitolato Il desiderio senza nome pubblicato in trecento copie e scritto per salvare il senso di una storia comune fondata sul piacere della carezza, gesto elementare che restituisce la garanzia primaria di esistere. La carezza, infatti, mostra di che stoffa è il piacere femminile, ne svela l’origine materna, ricollegando ogni donna all’amore della madre, nel momento in cui lei, toccata dall’interno per la prima volta, percepisce la sua creatura e si mette in cammino.
Nella carezza la mente scivola su qualcosa di vivo, tocca la verità di un godimento sottile, conduce il pensiero fuori dal monologo di universi paralleli e si fa dialogo. Anche i baci sono carezze. Ognuna entra lentamente nell’accarezzare, vincendo la tentazione di sparire, mentre il suo corpo acquista peso, consistenza. Opera di alchimia, le carezze sono testimoni di una trasformazione: il corpo si scioglie goccia a goccia, gli elementi si separano, poi si riuniscono; le mani raccolgono nel loro andirivieni colori, suoni, segni, immagini delle forze nascoste che ci avvolgono e ci costituiscono nel profondo. Attraverso un lavorio continuo di lettura, la carezza fa scorrere ininterrottamente acqua dalle dita, riordina la nostra vita, lettera per lettera, combina tra loro le sillabe di una lingua sconosciuta.
Ci sono due “regole” da rispettare nella pratica della carezza: non difendersi dal piacere e non avere fretta, nessuna ansia produttiva né paura di protendersi nel vuoto. Le carezze obbediscono alla promessa di non diventare gesto automatico, teso al possesso, pena la perdita del piacere insieme alla perdita di senso e di intelligenza.
L’effetto della carezza è quello dell’onda infranta dall’onda, della pioggerellina che tintinna sulle foglie, dei granelli di sabbia e di sale lasciati scivolare sulla pelle. Un pulviscolo dorato si forma intorno ai nostri corpi, restituendoli alla rotazione dell’universo che fin dall’inizio è in stretto rapporto con la rotazione dei sensi che procedono senza stacchi bruschi l’uno dall’altro, in un gioco di rimandi.
Per conoscere la capacità trasformativa delle carezze bisogna averne sperimentato in cerchi concentrici lo splendore, aver reso le mani obbedienti a un principio di natura vegetale. Ci vuole, infatti, la forza, la tenacia e la delicatezza di una pianta che si rivolge al sole per guarire dall’estraneità, dalla disabitudine al piacere, dalla mancanza di un ritmo.
Le carezze conoscono l’arte antichissima del ricamo: sulla stoffa di cui è fatto il piacere femminile, con precisione amorevole, innumerevoli fili si intrecciano e si disfano in un disegno sempre nuovo.
Passo dopo passo, le carezze ci conducono verso la perdita momentanea dei nostri contorni: esperienza di esaltazione, di uscita da sé. A volte possono dare tormento, allora c’è bisogno di riposarsi per tornare a desiderarne ancora e ancora, sempre di più.
Stupore rinnovato delle carezze, canto a più voci che ci porta a una tradizione ininterrotta di tattilità femminile. Mani a coppa non a forma di taglio. Non percussione, ma sfregamento, sfioramento, fruscio, scivolamento, lenta discesa fino a incontrare le onde sonore dei pensieri che si confondono con quelle olfattive e visive. Nella carezza la comunicazione avviene per echi, assonanze, analogie.
La carezza obbedisce al principio di individuazione per cui non c’è la donna, una donna, le donne, ma questa donna, lei, proprio lei e non un’altra. Il principio di espansione rende la carezza trasmissibile nel tempo e nello spazio. Sui volti e nelle parole di alcune donne ne riconosciamo i segni. Questa è la visibilità elementare, la prima forma di somiglianza segreta tra donne, resa possibile dalle carezze: sensualità di sguardi, cura nei gesti come fossero rituali di una cerimonia antichissima che si rinnova; dita che non si inarcano per evitare il contatto, ma si raccolgono in piccole culle di silenzio, fluidità e sensualità nei movimenti, forza di affermazione nella voce.
La carezza fa da ponte, costituisce nel difficile equilibrio tra finito e infinito un piano d’appoggio su cui innalzare il mondo secondo l’amore femminile per tutto ciò che vive, luccica, respira, canta, lotta, si trasforma, disegna spazi imprevisti di relazione.
Per fare politica occorre avere un corpo che ha acquistato spessore, intelligenza del reale, passando per un piacere che, nonostante la storia del potere patriarcale, ha attraversato i secoli ed è giunto intatto fino a noi. Grazie alla consapevolezza di questo antichissimo piacere, in tante abbiamo provato la passione della differenza, inventato pratiche politiche e ci siamo misurate con la sfida enorme di cambiare il mondo.
(ViaDoganaTre – www.libreriadelledonne.it, 12 dicembre 2022)