di Alberto Leiss
Sul web, e sui giornali, cresce il dibattito sul senso da attribuire alla parità perfetta tra i sessi introdotta dal nuovo governo: otto donne e otto uomini. Renzi, che pure ha raccolto un notevolissimo consenso, non piace – con altrettanta passione – a molti e molte. Hanno poi deluso e scandalizzato i suoi modi spicci nel detronizzare Enrico Letta. Da qui, mi pare, molte opinioni che svalutano anche la presenza femminile nel suo esecutivo, presentata invece come uno dei maggiori pregi: ma perché ci sono state messe? Che cosa sanno fare? Sono solo un ornamento rosa?
Sul manifesto Cristina Biasini, Cecilia D’Elia e Giorgia Serughetti sono andate anche più in là: il rispetto del 50/50 non basta più di fronte alla “distruttiva e fratricida lotta per il potere” messa in atto dai maschi della politica, che aggravano la già “verticale crisi della rappresentanza”. Servono parole femminili diverse, dicono (già, ma quali?).
D’altra parte Fiorenza Sarzanini, sul Corriere della Sera, si è chiesta il perché del sollevarsi di tanti “giudizi sprezzanti” sulle scarse o poco note competenze delle ministre: come mai altrettanto rigore meritocratico non viene riservato ai ministri maschi?
Anche a me colpisce il tono spesso volgare e misogino con cui ci si esercita contro le neoministre (cito per tutti un intervento di Piergiorigio Odifreddi nel suo blog su Repubblica). Il punto è che sono in gioco aspetti simbolicamente rilevanti. Tanti anni fa – era il ’68, mi pare – uno dei primi gruppi femministi italiani (Demau) produsse un testo sul “maschile come valore dominante” che questo valore, allora pressoché indiscusso, decostruiva radicalmente. Direi che la realtà oggi è quasi capovolta. Renzi scommette su un senso comune per il quale è il femminile a avere maggiore valore. Questo è il frutto delle battaglie femminili e femministe lungo mezzo secolo, e anche – direi – della pessima prova offerta sin qui dai maschi al potere (comprendendo nella definizione di potere anche quello che pretendiamo di esercitare in famiglia, e in molti altri luoghi).
Naturalmente l’idea che le donne siano migliori, quasi per natura, o perché storicamente meno coinvolte nell’esercizio del potere, produce aspettative maggiori, che possono essere rapidamente deluse e capovolte.
Che cosa cambia per me se il parlamento e il governo sono molto più femminili? In fondo è una domanda legittima di fronte all’opinione giustamente gridata che era uno scandalo l’assenza o la ridottissima presenza delle donne.
Qui emerge però – a mio parere – l’equivoco della “democrazia paritaria”. Si dice che sia una rivendicazione femminista, ma non tutti i femminismi sono d’accordo. Io concordo con la tesi femminista secondo la quale ciò che conta non è la quantità, la parità numerica nel rapporto tra donne e uomini, ma la qualità delle relazioni tra donne, e – sottolineo io – la qualità delle relazioni tra donne e uomini (e tra gli stessi uomini, ovviamente).
E’ da questa qualità relazionale, consapevole della differenza, che può nascere una nuova forma di politica, di autorità nel senso di autorevolezza.
La discussione è – o dovrebbe essere – aperta. Una filosofa femminista – Annarosa Buttarelli – sostiene (nel suo libro Sovrane) che dal pensiero e dalla pratica dell’autorità femminile possa venire una capacità di governo che supera la delega propria della democrazia rappresentativa, che evita la violenza del potere e sviluppa una politica basata sulla qualità delle relazioni. Personalmente ho qualche dubbio sulla possibilità di buttar via senza spiacevoli inconvenienti quel poco che resta della democrazia rappresentativa. Ma la sua crisi è così acuta e evidente che certamente bisogna cercare nuove strade. Sicuramente non basterà la regola della parità.
(il manifesto, 25 febbraio 2014)