di Lucia Annunziata
Non è la prima volta che una madre piegata sul corpo del figlio si erge contro la morte, il dolore, l’ingiustizia. Dalle Madri di Plaza de Mayo in Argentina, alle madri degli studenti massacrati dal cartello della droga in Messico, fino a, più vicino a noi, alle madri di Ilaria Alpi e di Stefano Cucchi.
Ma è forse la prima volta che il legame tra una madre e un figlio si inserisce nel luogo dove può cambiare se non la storia almeno la relazione fra due paesi.
A occhi asciutti durante una conferenza stampa affollatissima la madre di Giulio Regeni ha agitato la sua leva contro un intero sistema, un governo, un Generale che guida una grande potenza, cui si inchinano, per bisogno e interesse, tutti i paesi occidentali. Una leva piccola, come tutte le leve: la foto del volto del figlio. Quel volto descritto da lei, sempre a occhi asciutti, «gli avevano fatto così tanto che era diventato piccolo, piccolo, piccolo. Io e il padre lo abbiamo riconosciuto solo dalla punta del naso». Quella immagine che è la prova delle bugie, della crudeltà, la madre di Regeni sa quanta forza contiene, «non obbligatemi a pubblicarla», dice appunto al Generale.
Con questo gesto, la famiglia Regeni ha fatto qualcosa di nuovo. Invece di limitarsi alla usuale speranza, al solito appello alla verità, ha sfidato le autorità di un altro paese, accusando di nazifascismo il presidente di un altro paese: «Su mio figlio si è scaricato tanto male, tutto il male del mondo», ha detto, a sottolineare la grandezza della partita. «Non possiamo dire, come ha detto il governo egiziano, che è un caso isolato… Non questo. Giulio, cittadino italiano, è un cittadino del mondo. Quello che è successo a Giulio non è un caso isolato rispetto ad altri, egiziani e non solo. Per questo continuerò a dire per sempre verità per Giulio», ha detto la madre. Un discorso di attacco, senza una piega di autocommiserazione, alla luce di una analisi spietata: «È dal nazifascismo che non viviamo una morte sotto tortura».
A parte l’emozione (nostra) e la forza (di questa famiglia), questa sfida fra una madre e un generale è anche un suggerimento a tutti noi per capire i tempi in cui viviamo, le condizioni nuove che rendono possibile l’impatto di una sola vittima, di una sola madre su un universo così più grande. La storia della morte di Giulio non sarebbe oggi quel simbolo che è in un mondo senza la Rete, cioè senza la comunicazione vasta, immediata, semplice, emozionata, della comunicazione globale. Figlio di un mondo senza confini, come l’ha descritto la madre, Regeni è andato a lavorare in Egitto, un paese dove proprio la Rete ha avviato il maggiore e più turbolento processo di rivolta contro le dittature arabe, e sulla Rete, simbolica nemesi, è poi corsa la resistenza ad ogni silenzio sul suo omicidio, la ricerca di testimonianze, la verifica fatto su fatto di ogni versione ufficiale. È il “magico” del web questo unificare e riscattare ciascuno dalla massa amorfa, per dare a ciascuno dignità di cittadino, di persona, di voce udibile da tutti, e, nel nostro caso, voce di una madre portata su una platea globale.
Tanti, tantissimi uomini e donne, che nella Primavera di Piazza Tahir hanno creduto, hanno trovato la loro voce sulla Rete e hanno perso quella voce oggi nelle galere o nei cimiteri egiziani, persi in una lotta religiosa e politica che non hanno mai voluto accettare come tale. L’Egitto oggi è dove è, non solo perché Al Sisi ha riportato in voga (sono sempre stati usati) i metodi forti dei regimi militari di quel paese, ma anche perché dall’altra parte vive l’intolleranza e la violenza dell’islamismo del movimento dei Fratelli Musulmani che nei brevi mesi del loro governo hanno ampiamente dimostrato la loro volontà di schiacciare ogni voglia e ogni desiderio di un nuovo Egitto.
Per questa umanità presa in mezzo, schiacciata in uno scontro immenso fra forze nemiche, quale quello che viviamo, la Rete, pur con tutti i suoi lati oscuri e manipolatori, rimane l’unico filo da cui dipanare un po’ di verità e di giustizia per chi non ne ha. L’unico strumento che in questi turbolentissimi ultimi anni è stato l’onda su cui ha navigato fin a noi il terrorismo, ma è anche il filo su cui sono state comunicati al resto del mondo la resistenza a Raqqa, il dramma della fuga di milioni di migranti, la mobilitazione delle città europee contro le esplosioni.
Nel piccolissimo, è anche oggi l’onda su cui si muove la ribellione di una singola madre alla morte di un figlio. Nelle mani della signora Regeni c’è quella leva, una foto, che sulla Rete può valere quanto uno scontro fra Stati. E che fa oggi della famiglia Regeni, in attesa di «un segnale forte, ma molto forte da parte del nostro governo», lo strumento più efficace che ha il nostro paese per riflettere sulle, e cambiare, le sue relazioni con un (ex?) grande alleato.
(L’Huffington Post, 29 marzo 2016)