Un marito che picchia la moglie compie un reato? In molti paesi questa domanda non richiede ulteriori discussioni. Ma non in Russia, dove la duma (il parlamento) ha votato a favore della depenalizzazione della violenza domestica, a meno che non si tratti di aggressioni ripetute o di un atto che provoca gravi danni alla salute.
La modifica, approvata dal presidente Putin, rientra nel quadro del ritorno al tradizionalismo appoggiato dallo stato che caratterizza il terzo mandato presidenziale di Vladimir Putin. E la norma mette in luce profonde discrepanze all’interno del paese, dove in molti accettano ormai la nozione liberale dei diritti individuali, mentre altri stanno andando in direzione contraria.
Gli attivisti denunciano che la depenalizzazione legittimerà gli abusi. “Il messaggio generale lanciato ai cittadini russi è che la violenza domestica non è un reato”, dice Andrei Sinelnikov dell’organizzazione Anna Centre, che si occupa di prevenzione della violenza.
Picchiare in nome delle sacre scritture
Il dibattito è cominciato nel 2016, quando il governo ha depenalizzato le percosse, la forma meno violenta di aggressione prevista dal codice penale russo. La Russia è uno dei tre paesi in Europa e in Asia Centrale a non prevedere leggi specifiche sulla violenza domestica.
Questa forma di violenza è invece trattata come qualsiasi altra forma di aggressione, ignorando il fatto che mogli e bambini sono più vulnerabili di altre vittime. Quando però lo scorso mese di giugno la duma ha depenalizzato le percosse, ha deciso di escludere dal provvedimento gli abusi domestici, soggetti invece a una pena massima di due anni, la stessa prevista per le offese a sfondo razziale.
Quella decisione ha soddisfatto le organizzazioni della società civile favorevoli a regole più dure. Ma la chiesa ortodossa russa ha reagito con rabbia, sostenendo che le sacre scritture e la tradizione russa considerano “l’uso ragionevole e amorevole della punizione fisica come una parte essenziale dei diritti concessi ai genitori da Dio in persona”. Nel frattempo, i gruppi conservatori hanno cominciato a preoccuparsi che i genitori potessero finire in carcere: secondo loro è sbagliato punire i genitori che picchiano il figlio con più severità rispetto a un vicino di casa accusato di aggressione.
Se le aggressioni dovessero ripetersi sarebbero considerate reati penali, ma solo se avvenute entro un anno dalla prima
Le pressioni esercitate da questi gruppi hanno spinto i deputati ad avanzare una proposta di legge che trasforma la prima denuncia di poboi – percosse che non provocano danni permanenti – in una violazione di tipo amministrativo che determina una multa di trentamila rubli (circa 470 euro), l’assegnazione a lavori socialmente utili o 15 giorni di carcere. Il provvedimento riporta inoltre questo reato nell’ambito dei “procedimenti privati”, in cui tocca alla vittima raccogliere prove e promuovere un’azione legale.
Se le aggressioni dovessero ripetersi sarebbero considerate reati penali, ma solo se avvenute entro un anno dalla prima, e questo dà ai violenti la possibilità di picchiare i familiari una volta all’anno. Secondo il presidente della duma Vyacheslav Volodin, questo provvedimento contribuirà a costruire “famiglie più forti”. La proposta di legge è stata approvata in seconda lettura lo scorso 25 gennaio, conquistando 385 voti su 387. È stata firmata il 7 febbraio dal presidente Putin.
Secondo Anna Zhavnerovic non è vero che tollerando la violenza domestica si possano avere famiglie più forti. Zhavnerovic è una giornalista che scrive di costume e società a Mosca, e per molti anni ha vissuto assieme al suo compagno, con cui parlava anche di matrimonio. Una notte, nel dicembre del 2014, hanno affrontato l’ipotesi di separarsi. Il suo compagno l’ha picchiata violentemente. È riuscita a farlo condannare grazie ad alcuni avvocati che l’hanno aiutata dopo aver letto il suo racconto online. “Le persone pensano che non possa succedere a loro”, dice Zhavnerovich. “Si aggrappano a un’illusione di sicurezza”.
Un passo indietro
La violenza domestica ha profonde radici culturali. Un vecchio proverbio russo recita: “Se ti picchia vuol dire che ti ama”. “La violenza non è solo la norma, è il nostro stile di vita”, dice Alena Popova, attivista che si batte per una legge contro la violenza domestica. È difficile misurare la portata del problema, ma secondo il ministero dell’interno russo, il 40 per cento dei reati violenti accade all’interno delle famiglie. Più del 70 per cento delle donne che chiamano il numero verde dell’Anna centre non sporge denuncia alla polizia. La pratica del procedimento privato, che costringe le vittime a destreggiarsi tra mille ostacoli burocratici, è particolarmente scoraggiante. “È un girone infernale, va avanti all’infinito”, dice Natalia Tunikova, che ha cercato senza riuscirci di fare causa all’uomo che in base alla sua denuncia l’aveva maltrattata.
Eppure c’è una maggiore consapevolezza rispetto alla questione, in parte grazie al lavoro delle associazioni di base. “L’idea che ‘è colpa sua’, ossia della donna, non è più accettata a priori”, dice Zhavnerovich (cosa abbastanza curiosa, la giornalista è a favore della nuova legge perché secondo lei molte più donne si faranno avanti se non avranno paura che i loro compagni possano finire in una delle durissime prigioni della Russia). L’anno scorso in Russia e in Ucraina migliaia di persone hanno condiviso le loro storie di abusi e violenze partecipando a #iamnotafraidtospeak un flashmob organizzato sui social network.
Neppure gli ultraconservatori russi temono di parlare. Elena Mizulina, senatrice nota per aver promosso una legge contro la “propaganda gay”, ha appoggiato le recenti modifiche, sostenendo che “le donne non si sentono offese se vedono un uomo che picchia sua moglie”. I sostenitori della depenalizzazione inoltre pensano anche che le vicende interne a una famiglia non debbano interessare allo stato. “La famiglia è un ambiente delicato in cui le persone dovrebbero cercare di risolvere da sole i loro problemi”, dice Maria Mamikonyan, a capo del movimento Resistenza dei genitori russi, che ha raccolto migliaia di firme a favore del provvedimento.
In un paese segnato dal comunismo, dove un tempo lo stato invadeva tutto e le famiglie non avevano praticamente alcuna riservatezza, simili sensibilità sono comprensibili. In parte l’opposizione alle leggi sulla violenza domestica deriva dal timore razionale di conferire ai corrotti poliziotti e giudici russi un potere ancora maggiore sulla vita delle famiglie.
Secondo i critici, le opinioni dei conservatori affonderebbero le loro radici nel Domostroi, un insieme di regole familiari tradizionali in vigore all’epoca di Ivan il Terribile. Mamikonyan non è d’accordo. Ciò che vogliono non è un ritorno al medioevo, ma solo un ritorno ai valori “che la civiltà europea rispettava nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo”. Per molte donne russe questo rappresenta comunque un enorme passo indietro.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.
(Internazionale 08 Febbraio 2017)