di Fabio Roia
Premessa doverosa: le sentenze si accettano e si rispettano ma si possono criticare, magari in modo consapevole, per fare crescere la cultura della decisione e per avvicinare i Tribunali alla gente. La vicenda giudiziaria di quella donna che si definisce «la ragazza della Fortezza», presunta (a questo punto bisogna dire così) vittima di uno stupro di gruppo, crea francamente non poche perplessità. Questa valutazione cresce e si consolida proprio dopo la lettura delle motivazioni con le quali la Corte di Appello di Firenze, ribaltando la decisione del Tribunale che aveva condannato gli imputati, ha assolto gli accusati con la formula più ampia possibile, che preclude anche la possibilità di chiedere i danni in sede civile, «il fatto non sussiste». Cioè la ragazza era consenziente ai plurimi rapporti sessuali subiti – rectius voluti – e quindi, forse, non è successo niente (leggi la lettera della ragazza).
Continuiamo a dire ai convegni che per istruire e giudicare le violenze sulle donne occorrono magistrati specializzati, come ci impone sul piano normativo la convenzione di Istanbul, e poi applichiamo categorie di valutazione della prova assolutamente generiche e non adattabili alle vittime che subiscono violenza.
Il racconto di una ragazza che subisce uno stupro, certamente in fase di alterazione a seguito dell’assunzione di alcool anche se, scrive la Corte, non rappresentativa di «una predestinata vittima di violenza», non può mai essere paragonato e valutato, sul piano della narrazione precisa di particolari o anche di perfetta ricostruzione dinamica degli avvenimenti, come il racconto di una vittima di altri reati quali una rapina, una truffa o un furto. Perché il danno e la confusione emozionale, che normalmente si traducono in una sindrome post-traumatica da stress, presente nella vicenda in esame, tendono ad incidere proprio sulla articolazione della rappresentazione degli avvenimenti. Ancora. Chi subisce violenza sessuale, soprattutto se in condizioni di assenza di resistenza («Ho proprio staccato la testa, ho pensato di essere morta, non pensavo più, non guardavo più»), normalmente non presenta segni di lesività significativa, anche perché non esistono indicatori specifici di abuso. In altri termini non è il medico a dovere dire «sì, c’è stata violenza».
Non si ha la pretesa, con queste considerazioni, di volere rifare il processo o di instaurare un terzo grado di giudizio, che pure appariva opportuno proprio sul piano tecnico; ma soltanto di raccogliere le critiche avanzate da Telefono Rosa e, soprattutto, il grido di disperazione lanciato dalla «ragazza della Fortezza» per affermare, ancora una volta, che certe domande sulla sessualità della parte lesa vanno fatte soltanto se necessarie per la ricostruzione dei fatti. Anche chi ha «una vita non lineare» può essere vittima di violenza e la sua dignità deve essere riaffermata con forza perché, magari proprio a causa di quel regime di vita che sfugge ai canoni perbenistici, la sua vulnerabilità di potenziale vittima è progressivamente cresciuta fino a non farle percepire il pericolo. Se una donna denuncia una violenza, gli operatori devono subito porsi il problema del perché questo atto così impegnativo sia stato realizzato. È difficile affermare che ci si inventa uno stupro di gruppo per «censurare e rimuovere un discutibile momento di debolezza e di fragilità». Come a dire calunnio delle persone perché mi sono resa conto di avere esagerato nella mia libera scelta sessuale e quindi cerco un processo catartico.
La «ragazza della Fortezza» ci ha detto in maniera sofferta che se avesse saputo quello che le sarebbe successo, non avrebbe mai denunciato il fatto. Dobbiamo lavorare, nel rispetto dei diritti di tutti, per far sì che questo non possa accadere.