18 Luglio 2013
il manifesto

Movimenti della libertà femminile

di Alessandra Pigliaru

Le donne raccontano la loro partecipazione nella raccolta «Ferite di parole» curata da Leila Ben Salah e Ivana Trevisani per Poiesis editrice.

C’è un filo rosso che lega le rivolte arabe di Tunisia, Egitto, Libia e Siria? Quell’ordito sottile, più evidente alla nostra attenzione dal gennaio 2011, non accenna a disfarsi, anzi si fa sempre più fitto e infuocato – come registrano le cronache di questi mesi. Nel fronte comune all’oppressione, la presenza femminile è stata, ed è, maestosa. A dirci del suo guadagno sono Leila Ben Salah, giornalista italo-tunisina, e Ivana Trevisani, psicologa impegnata a fianco di organizzazioni non governative sui traumi post-bellici. L’occasione è un libro firmato da entrambe e dal titolo eloquente: Ferite di parole. Le donne arabe in rivoluzione, mille fuochi di voci di gesti e di storie di vita (Poiesis editrice, pp. 187, euro 16).

Non si tratta di un saggio né di un dossier asciutto e neutrale; diciamo subito infatti che la forma scelta dalle due autrici è quella del viaggio accogliente e intensamente emotivo attraverso la testimonianza diretta delle protagoniste. E sono talmente tante le donne coinvolte in quelle rivoluzioni che durante la lettura si ha quasi la sensazione di un leggero stordimento pensando alla qualità di tutte le loro storie.

 

Un lungo cammino

Salah e Trevisani precisano tuttavia da subito che il contributo delle donne arabe durante le ribellioni arriva da lontano. Del resto, come ricorda Naziha Rejiba, scrittrice tunisina, «devo immediatamente dire che non è stata la rivoluzione che mi ha liberata, ero libera ben prima del 14 gennaio». Questo per indicare che le rivolte, spesso descritte dai media come punto zero della liberazione delle donne, si posizionano invece in un cammino politico più lungo e complesso. Sia in Egitto che in Tunisia, per esempio, vi erano già state sollevazioni nelle quali le donne erano state cruciali. Si pensi alla protesta del pane avvenuta nel gennaio del 1977 sollecitata proprio delle tunisine abitanti le campagne che avviarono una grande manifestazione pacifica. Oppure ai più recenti scioperi del 2008 lungo il bacino minerario di Gafsa, al confine con l’Algeria: un significativo dissenso messo in campo da donne e moltissimi giovani disoccupati che bloccò per cinque mesi l’attività estrattiva di fosfati dell’intera regione contro il regime corrotto e clientelare delle assunzioni. E quando, nello stesso anno, a Redeyef molti giovani vennero arrestati dopo una dura repressione da parte di Ben Ali, furono sempre le donne tunisine a scendere nuovamente in strada chiedendone la scarcerazione mentre «gettavano pietre sui militari inviati a soffocare le rivolte» – come dice Aziza, una delle testimoni incontrate dalle autrici – capaci di restituire una quotidianità tanto lontana quanto importante.

Nello scenario di lotta, in evoluzione in queste stesse ore, Ferite di parole si colloca opportunamente tra i contributi sulla condizione delle donne arabe e la relazione tra femminismo e Islam; tra gli altri, basti pensare all’ottimo saggio di Anna Vanzan, Le donne di Allah. Viaggio nei femminismi islamici (ripubblicato di recente in versione economica sempre per Bruno Mondadori, pp. 177, euro 11) ma anche a Gender Jihad. Storia, testi e interpretazioni nei femminismi mulsulmani, curato da Marisa Iannucci (Ponte Vecchio, pp. 200, euro 13). L’esperienza femminista e la politica delle donne hanno radici profonde e si rivelano in una forte presenza che non fa delle strade e delle piazze arabe un misto di soggettività indistinte bensì una rete di esistenze e di corpi che ribadiscono la propria libertà.

È la voce autorevole di Saida Garrach, avvocata e attivista nell’Association Tunisienne des Femmes Démocrates, a porre l’accento sul ruolo decisivo della costruzione di reti sociali e politiche. È la sinergia tra le diversi attori e attrici che fino ad oggi, nelle zone rurali tunisine, fa da supporto alle donne vittime di violenza. In questo senso, il libro risulta una figurazione narrativa tutta giocata sulla competenza teorica e politica delle relazioni femminili. Nel vociare delle testimonianze, le donne sembra abbiano trovato il rimedio alle ferite. Seppure in un tempo doloroso infatti riconoscono il solco di una genealogia plurale e di pratiche efficaci disponibili anche in tempo di rivoluzione. Sulla solidità delle pratiche politiche femminili si pensi al lavoro fatto da Hoda Sha’arawi che già nel 1923 fonda in Egitto l’Unione Femminista Egiziana. Ma anche, tra accesso all’istruzione e mutamento dell’istituto familiare, l’impegno del Network of Women’s Rights Organizations ma anche quello della rete Femmes Maghreb 2002. Allo stesso modo, in Libia e in Siria, le esperienze di autodeterminazione e libertà hanno assunto negli anni un ruolo di primo piano; per esempio con il Club Letterario delle Donne, a oggi la più antica organizzazione non governativa siriana fondata nel 1919 da Marie Ajami.

 

Un protagonismo essenziale

Tutte queste storie, che traversano il passato per riportarci al nostro presente storico, stanno a significare che «la cura della vita e del mondo in cui stare con agio è stata la mossa giocata dalle donne nelle rivoluzioni del mondo arabo».

Accanto alle madri che con coraggio scendono in piazza per chiedere giustizia per i propri figli uccisi ci sono molte giovani donne, tunisine ed egiziane in particolare, che hanno sollecitato e documentato le manifestazioni e le rivolte attraverso social network e blog. Lina Ben Mhenni – candidata nel 2011 al nobel per la pace – è una di queste. Nel suo diario virtuale A tunisian girl ha raccolto le testimonianze delle lotte avvenute tra Regueb, Kasserine e Sidi Bouzid, mentre Maha Issaoui, un’altra blogger, informava sulla repressione poliziesca nelle strade di Sidi Bouzid e Asmaa Mahfouz incitava alla manifestazione del 25 gennaio in Piazza Tahrir. In tal senso, comprendere la portata del protagonismo femminile nelle primavere arabe diventa essenziale; illumina una cartografia rivoluzionaria scritta e raccontata nel solco della libertà femminile che non va rivendicata ma solo illuminata. Con forza e nella lotta.

(il manifesto, 18 luglio 2013)

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