di Silvana Ferrari
In un paesino della Turchia, poche case fra montagne e mare, vivono cinque sorelle, Sonay, Selma, Ece, Nur, Lale. Sono belle, giovani e spensierate come vuole la loro età, pienamente felici e libere di studiare, giocare e amoreggiare con i loro compagni di scuola.
Inizia così il bel film di esordio della regista franco-turca Deniz Gamze Erguven. Splendide immagini di ragazze e ragazzi che giocano fra loro, primissimi piani sull’esuberante forza e vitalità dei loro giovani corpi e sullo sbocciare delle prime tensioni d’amore e sessuali; scene che esprimono gioia, energia, voglia di vivere sottolineate dalla voce narrante di Lale, la più piccola e indipendente fra le sorelle.
Ma un brutto giorno sulle loro vite luminose si abbatte, improcrastinabile come il fato e per mano della nonna e dell’orribile zio – strega crudele l’una e orco cattivo l’altro – la dura realtà del loro essere donne in una società patriarcale, e la loro innocente sessualità è messa sotto accusa e demonizzata.
Tutto improvvisamente cambia. Le loro vite vengono imprigionate, bloccate: non possono più studiare né leggere né comunicare con altri; la loro casa diventa la gabbia in cui una schiera di solerti zie e vicine si mette a disposizione per addestrarle a una serena sottomissione in vista di un felice futuro di brave e docili mogli di mariti imposti, mentre i loro giovani corpi vengono mortificati da tonache informi e incolori.
Utilizzando una narrazione fra favola e metafora – il titolo che richiama i cavalli liberi e selvaggi delle praterie dalle lunghe criniere ne è un esempio – la regista racconta la chiusura e l’oppressione sulle donne attualmente in atto in molti ambienti della società turca nell’era Erdoǧan e il desiderio, la sete di libertà femminile che comunque circola ed è insopprimibile, non controllabile, si respira nell’aria e contamina tutto, città e remoti paesini turchi.
Ed è a questo proposito che, nel dar corpo e voce ai caratteri delle cinque sorelle, ben delineati e differenziati, vuole mostrare, come nell’aprirsi di un ventaglio, le molteplici sfumature dei sentimenti e dei desideri che animano nella realtà le giovani donne e le loro scelte conseguenti: dalla supina e inerte accettazione dei matrimoni combinati fino alla ribellione estrema. E qui la narrazione dalla partenza leggera e solare con i toni della commedia vira decisamente verso atmosfere dolorose e drammatiche.
Ho visto Mustang in una sala gremita di giovani donne partecipi e coinvolte. Il film effettivamente ha un buon ritmo, riesce a creare una tensione crescente per culminare in un finale quasi liberatorio. La regista è brava a giocare con la macchina da presa e, grazie a un’ottima fotografia, ad accentuare i contrasti tra ambienti interni e quelli esterni, tra la chiusura buia delle stanze e la luminosità fuori del paesaggio ricco di una natura vitale e pulsante.
Le ingenuità ci sono nella sceneggiatura, che è della stessa regista in collaborazione con la coetanea regista Alice Winocour, sia nella messa a punto di alcune scene sia nella narrazione della voce fuori campo, ma la vibrante vitalità che il film esprime porta dalla sua la mia simpatia e quella del pubblico delle giovani donne. Forse questo spiega, dopo la selezione a Cannes nella Quinzaine des Réalisateurs e il premio al 21° Festival di Sarajevo, la sua candidatura agli Oscar per la Francia, nella sezione Miglior Film Straniero.
(Via Dogana 3 – Vision, 10 novembre 2015)