di Silvia Baratella
Claudio Vedovati ha pubblicato recentemente un intervento che ha il merito di rilanciare pregevoli riflessioni ed elaborazioni femministe degli anni ’90 su nuove tecnologie e riproduzione che credo ancora utili e importanti. Vedovati ricorda, citando Maria Grazia Giammarinaro, che a una donna non può essere imposto di essere o non essere madre né dallo Stato, né da un contratto, e che questa affermazione costituisce una mossa interessante con cui il pensiero femminista si sottrae all’«opposizione tra proibizionismo e libertà contrattuale». Poi però il discorso di Claudio prende una strana piega, assimilando di fatto il divieto di far ricorso alla maternità surrogata a una forma di proibizionismo e di messa sotto tutela delle donne che inficerebbe la libertà femminile (il testo, datato 10/12/2015 ma pubblicato il 24/2/2016, è intitolato Maternità surrogata, differenza e libertà e si può leggere sul sito DeA, all’indirizzo http://www.donnealtri.it/2016/02/maternita-surrogata-differenza-e-liberta/).
L’interdetto di commercializzare parti o funzioni del corpo umano, in virtù del quale il sangue e gli organi si donano ma non si vendono, sta anche alla base delle leggi che vietano di ridurre in schiavitù gli esseri umani; non si tratta di una dettagliata regolamentazione proibizionista, ma di un divieto semplice e secco che rappresenta una conquista di civiltà da non abbandonare. È nato dalle lotte contro lo schiavismo e oggi sottrae i nostri corpi al cannibalismo illimitato del mercato neoliberista. Riguarda l’inviolabilità del corpo, in cui rientra e anche la funzione della maternità, come ricordano le parole di Giammarinaro citate dallo stesso Vedovati.
Si può dimenticarlo se si prende come misura di ciò che è umano solo ciò che è maschile, per cui se non si possono comprare il sangue o un rene di un uomo, per analogia non si possono comprare neanche quelli di una donna. Ma dove le funzioni e l’anatomia di lei non coincidono con quelle di lui, la misura maschile non si contrappone alla mercificazione e lascia adito a una legiferazione sulla vita di lei minuziosa e invasiva.
Il dibattito attualmente in corso dà invece l’impressione che una misura femminile sia mancata anche tra diverse femministe, oltre ad alcuni uomini vicini al femminismo come Claudio, come se tutte e tutti sentissero che il “naturale” sviluppo dell’affermazione «l’utero è mio e lo gestisco io», che marcava l’inviolabilità e l’inalienabilità del corpo femminile e delle sue funzioni, sia oggi «l’utero è mio e se voglio lo affitto», che al contrario allude alla sua messa a disposizione del desiderio altrui.
Ma cancellare il divieto di commercializzazione di funzioni del corpo non conviene affatto alla causa della libertà femminile e in definitiva neanche agli uomini: i corpi infatti – anche quelli maschili – sono umani perché nati di donna, da una donna nella sua integrità. Rompere il legame tra il desiderio di lei (di avere un/a figlio/a per sé) e le funzioni del suo corpo rischia di fare del male ai figli e alle figlie che nasceranno, già oggi ridotti a prodotti che si possono scartare se non soddisfacenti in alcuni paesi in cui la maternità surrogata è legalizzata.
(www.libreriadelledonne.it, 4 marzo 2016)