di Laura Minguzzi
Da tempo volevo visitare la Bielorussia e in agosto mi trovavo a Minsk. Vi ho trascorso un breve soggiorno in albergo sulle rive del fiume Svislač. Oggi leggo che Svetlana Aleksievič abita a Nemiga, un quartiere centrale sul fiume che attraversa la capitale. A poche centinaia di metri dal mio albergo. Alla casa editrice cui mi ero rivolta prima di partire perché volevo invitarla in Libreria a parlarci del suo ultimo libro, Tempo di seconda mano, mi avevano comunicato che era a Parigi e molto impegnata. Ho conosciuto Svetlana Aleksievič in Libreria nel 2002 in occasione della presentazione di un altro suo testo, Preghiera per Černobyl’, molto letto e conosciuto in Italia. Ne è stato tratto anche un testo drammaturgico, rappresentato al Teatro Verdi, che ebbe allora molto successo. Mi colpì allora il racconto della sua pratica di scrittura, ciò che poi dalla critica è stato definito un coro polifonico. Si era recata nei luoghi più devastati e a Pripjat’, uno di questi, aveva incontrato e ascoltato le persone che non volevano lasciare le città e i villaggi pur sapendo i pericoli che correvano. Centinaia di registrazioni di vissuti, che poi l’autrice ha riascoltato e passato al filtro del suo sentire e composto in una forma di corale preghiera. L’amore per la verità aveva spinto Svetlana Aleksievič ad andare di persona a Černobyl’, non fidandosi delle versioni ufficiali che venivano date dell’accaduto, e ci rivelò di avere problemi di salute in seguito al soggiorno prolungato nei villaggi contaminati. L’autrice ha scelto lo stesso approccio per il libro Ragazzi di zinco. Un libro reportage, così lo definisce lei nel ripercorrere la sua genesi: «Vidi arrivare un giorno in un villaggio della Bielorussia una bara di zinco che fu portata in una famiglia di miei vicini di casa. Non fu aperta: era vietato. La madre del ragazzo, soldato in Afghanistan, voleva sapere come era morto il figlio e vedere il suo corpo. Testimone di questo fatto, sentii la necessità di andare in Afghanistan per sapere la verità su questa guerra nascosta». La giornalista partì per Kabul nel 1988 e tornò dopo venti giorni, sconvolta e cambiata da ciò che aveva visto e sentito. Ma in Bielorussia non le fu perdonata la smitizzazione dei “combattenti internazionali”, fu trascinata in tribunale a Minsk, accusata di calunnia, antipatriottismo e diffamazione. In aula la giornalista dichiarò che «lo scrivere non è una professione neutra e dà l’immagine di un’epoca». Svetlana Aleksievič con il suo metodo di interrogazione e di ascolto paziente dei nodi di un profondo sentire toglie l’oscuramento e rompe i canoni del racconto di guerra, della narrazione storica, così come esce dal falso dilemma posto da chi si chiede cos’è stato il comunismo – chi lo vive con nostalgia, come un paradiso perduto, chi come un inferno – perché mostra se stessa nel processo doloroso di attraversamento della sofferenza per poter riscattare il passato. Al termine di questo processo di decantazione non c’è né negazione né idealizzazione e l’autrice riesce a separare il binomio sangue-utopia con l’integrazione nel presente della memoria del passato, modificando anche se stessa. L’ultimo libro, Tempo di seconda mano, quinto del ciclo sull’uomo russo che le è valso l’attribuzione del Nobel, è frutto di una raccolta di voci durata vent’anni. Mostra il risentimento per le speranze deluse della perestrojka, il silenzio degli intellettuali e lo scandalo dei nuovi ricchi che ostentano in TV i water d’oro nelle loro ville e gli yacht più grandi del mondo. Il desiderio di rivincita e il nazionalismo sono stati sfruttati da Putin per ottenere un largo consenso popolare per due elezioni consecutive dal 2001. Chi racconta la verità è considerato un traditore. Afferma la giornalista alla presentazione del suo libro, intervistata da Serena Vitale: «Una volta ci chiamavano dissidenti. Di solito si è dissidenti verso il potere. Esserlo verso il popolo è molto più grave. Quando le donne parlando della guerra dicevano delle banalità, io aspettavo e verso sera, stanche, cambiavano registro e in tono confidenziale mi parlavano come a un’amica cui desideravano dire la verità. Io non ero più la giornalista da temere. La persona vuole lasciare un segno. Come scrive F. Dostojevskij: “Ognuno grida la propria verità”. Non un’immagine intellettuale inventata del paese. Le persone stesse urlano la loro sofferenza. La sofferenza non si trasforma in libertà. La persona si accartoccia ed è come se il male non la riguardasse.» Il montaggio delle voci così raccolte non è impersonale, ma rivela lo sguardo soggettivo dell’autrice.
Svetlana Aleksievič ha vissuto dodici anni in Europa, ma poi ha deciso di ritornare a Minsk per stare vicino alla figlia. In realtà non ha mai veramente voluto trasferirsi definitivamente all’estero. Il suo paese le piace, anche se è consapevole di stare in mezzo alla guerra. Il conflitto in Ucraina ha creato due schieramenti: pro o contro l’Ucraina. La fine dell’Impero non è avvenuta negli anni novanta, ma sta avvenendo oggi nel sangue.
(www.libreriadelledonne.it, 11 ottobre 2015)