di Simonetta Sciandivasci
Lia Quartapelle è come Paris di Gilmore’s Girl: studia, e quando ha finito studia ancora. Ma Paris era sempre incazzata, Quartapelle no, molto meno. È ligia e imperiosa, non irosa. Più dello studio le piace soltanto l’ascolto, per questo ha fatto politica sin da ragazzina, a Milano, dopo aver finito il liceo in un collegio del Galles, studiato in Mozambico e in Mali e nelle università di Londra, Firenze e Pavia. Dopo molti anni da segretaria dei circoli del Pd milanese, a trent’anni è diventata membro dell’Assemblea nazionale del Partito Democratico e l’anno dopo è stata eletta deputata della Repubblica. Ha fondato tre associazioni, è membro della Commissione d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni e della Commissione Esteri alla Camera, presiede un comitato. Dice di essere pigra. Vive tra Roma e Milano e in centro a Roma fa fatica a orientarsi. Per via della pigrizia, dice.
Questa settimana in molti avevano detto che Quartapelle sarebbe diventata presidente della commissione Esteri della Camera, perché lei è una delle migliori, quella che in questi casi si dice la “candidata naturale”, e invece l’incarico è andato a Fassino.
A Milano si sono piuttosto risentiti, o almeno così ha scritto qualche giornale.
In verità, non ero tra i papabili.
E le dispiace?
Affatto. Ciascuno vive la propria carriera come desidera. Non è soltanto legittimo: è giusto.
Teme che i ruoli dirigenziali possano tenerla lontana dalla politica dei circoli che lei ama tanto?
Alcuni dicono che i politici migliori sono misantropi, hanno un distacco dalle persone e quindi riescono a gestirle, guidarle. A me, invece, le persone piace ascoltarle. Lo farei per ore, ogni giorno. Dirigerle non mi interessa: preferisco aiutarle a connettersi tra loro perché quando si mettono insieme hanno una potenza micidiale. Non vedo allora perché non stare lì in mezzo e dare una mano da una posizione di privilegio.
Di quale privilegio parla?
Fare il parlamentare ti offre un punto di osservazione unico. Vedi centinaia di cose che altrimenti non sapresti neppure che esistono ed entri in contatto con un numero enorme di persone che puoi unire, aiutare e che sono disponibili a raccontarti i loro problemi e a mettersi a tua disposizione per risolverli per sé e per gli altri. Quando un cittadino si fida di te, ti offre tutto quello che ha e che conosce, perché sa che tu hai gli strumenti per servirtene al meglio. In queste settimane mi scrivono molte madri che non sanno se a settembre potranno continuare a lavorare, se saranno costrette a badare ai figli anche in orario di scuola, se avranno assistenza, nidi, sostegno: in molte stanno pensando di licenziarsi. Ci sono anche quelle che, invece, hanno prospettive meno incerte e per questo vogliono mettersi a disposizione delle altre, lavorare insieme per un obiettivo comune.
Allora non è vero che gli italiani demandano alla politica la soluzione dei loro guai senza mai pensare di lavorare in sinergia con le istituzioni.
In questa fase, gli italiani stanno tornando a pensare che la politica serve. Sentono il bisogno di una guida. Noi che li rappresentiamo dovremmo renderci conto di aver bisogno dei cittadini non per chiedere il voto ma perché il mondo che stiamo affrontando è cambiato: se non ci facciamo dire da loro in che cosa è cambiato e come, ci scolleremo del tutto dalle loro vite.
Cosa è cambiato?
Credo che l’impatto della pandemia, specie sulle nostre psicologie, lo vedremo nel tempo. Non so se la direzione segnata sia già positiva ma un risveglio non solo lo avverto: lo registro, lo vedo. A Milano ci sono almeno tre cose sulle quali non si potrà non intervenire: il costo della vita, che è molto alto rispetto agli stipendi; l’inquinamento; il tempo. Durante il lockdown in molti si sono resi conto per esempio che se stai a casa e hai uno stipendio medio, le spese si riducono esponenzialmente. La città si è divaricata sul tema dei costi. Poi, il tempo: l’isolamento ci ha fatto capire che non controllavamo le nostre giornate, che ci facevamo divorare dal lavoro. Ci siamo resi conto di quanto ci stavamo perdendo e non vorremo più indugiare nello spreco. E infine l’inquinamento. Il 20 giugno a Milano si vedevano le montagne: non capitava più da anni neanche in inverno. Questi tre elementi di novità o semplicemente di presa di coscienza richiedono un ripensamento della città e del suo sviluppo.
Milano ci stupirà?
Il primo incontro che ho fatto lì dopo il lockdown è stato con i negozianti di Corso Buenos Aires dove da poco c’è una pista ciclabile. Erano gli stessi che, quando si era cominciato a parlare di realizzarla, ci si erano rivoltati contro. Ora ne vorrebbero una più grande, chiedono un piano per ripensare la strada, piantare alberi, rivoluzionare tutto. In questa capacità di rinnovamento e di sfida riconosco Milano, il lato migliore della sua laboriosità.
Preferisce lavorare a Roma o a Milano?
A Milano la politica ha un rapporto meno viscerale con la città ed è quindi più che altro civica. I cittadini partecipano con grande entusiasmo. Per noi un indicatore significativo sono sempre i numeri delle primarie: a Milano, che è molto più piccola di Roma, l’affluenza è sempre nettamente superiore. Accade anche perché i milanesi sono più lontani dal centro del potere e sanno che devono sbrigarsela da soli. A Roma invece la politica conta addirittura troppo. I romani sono fatalisti, pensano che la città sia esistita e continuerà a esistere indipendentemente dall’impegno della collettività e degli amministratori.
Vivere tra Milano e Roma mi permette di riconoscere i limiti della mia supposta influenza. Un punto mi sembra chiaro: se da una parte i cittadini pensano che se la devono sbrigare da soli e dall’altra pensano che qualsiasi azione sia ininfluente, c’è qualcosa che non funziona nel rapporto tra i cittadini e le istituzioni. Ed è una dicotomia che vale in tutto il paese, direi che lo rappresenta.
Come fa a far capire che di lei ci si può fidare, a non pagare l’operato altrui, in un momento in cui si pagano anche le parole degli altri?
Selezionando le cose di cui occuparmi, innanzitutto, in modo da poter essere efficace e incisiva. Non ci si può prendere cura di tutto, né si può avere una posizione su tutto, anche se il meccanismo della comunicazione ci porta a farlo per accaparrare consenso e renderci inattaccabili. Ci limitiamo a fare un commento carino su qualcosa che è successo: non ci sono mai politici che dicono qualcosa che resta scolpito nella pietra.
Tutta questa comunicazione non la stanca?
No. L’esposizione pubblica ha per me avuto sempre questo scopo: dimostrare che non sono un personaggio.
L’autenticità però è diversa dalla trasparenza, che è un mito recente un po’ scemo, o certamente ingenuo, almeno in politica.
Mi sono data delle regole per farmi capire. Se sei chiara, diretta, pratica, non hai bisogno di essere trasparente.
Mi dice qualcuna di queste regole?
Ho bandito le parole troppo lunghe e quelle troppo astratte. Per me devono valere le cose che avevano a cuore i socialisti degli anni Sessanta: scuola, lavoro, case. Dopo il Covid la realtà ha bussato alla porta, non possiamo che parlare di cose concrete. E farle. Cerco poi sempre di dare un messaggio costruttivo. La responsabilità di chi si definisce progressista è dare una prospettiva.
Sui social network vale lo stesso galateo politico?
Instagram mi diverte, incontro persone reali e ci sono molte più donne che altrove: soprattutto, chi fa opinione sono le donne. Il settanta per cento del mio seguito è femminile e devo dire che ne sono contenta, perché le donne che mi contattano su Instagram parlano di problemi e soluzioni concrete.
Ha mai pensato di passare a Tik Tok?
No, ho paura che i cinesi mi spiino! Però una mia amica mi ha detto che l’hashtag socialism su TikTok va tantissimo.
Il socialismo è di gran moda tra i millennial e anche tra i loro fratellini, forse è la sola cosa che hanno in comune. Ha letto Persone normali di Sally Rooney?
No, ma so di cosa parla, conosco Rooney e le sue posizioni socialiste. Lei ha letto Chesil Beach di McEwan? Anche lì ci sono un uomo e una donna che, pur amandosi, non riescono a stare insieme.
Il suo amore come va?
Sono innamorata di Claudio come il primo giorno, ma non voglio parlarne, non ne sono capace. E so che forse dovrei.
È una storia bellissima. Rara.
Non così rara. Una volta mi ha scritto una ragazza di Milano per ringraziarmi: mi diceva che la mia scelta di vivere questa vicenda senza nasconderla l’aveva resa più libera, perché stava con un uomo di trent’anni più anziano di lei e pur essendo molto felice con lui, sentiva il peso, una specie di stigma prima di tutto autoindotto. Detesto la mondanità ed esibire questa storia attira una curiosità morbosa. Non pensavo che potesse avere un impatto politico. E invece quella lettera me lo ha fatto capire. Mi ha fatto sentire una grossa responsabilità.
Questo è molto milanese.
No, è molto femminile. Noi pensiamo sempre di poter salvare il mondo, gli altri, il prossimo, e spesso lo facciamo immolando i nostri desideri, le nostre ritrosie. Il senso di responsabilità per me spesso coincide con il senso di colpa, ed è un bell’inghippo.
Cosa sconta una parlamentare donna nel nostro paese?
L’emotività. Ci mettono poco a dirti che un altro è più affidabile di te perché tu sei troppo emotiva. Ma lo accetto e non me ne lamento: se bisogna rompere uno schema, è inevitabile che la caratteristica che rompe quello schema venga discussa, talvolta anche irrisa. Fa parte del gioco.
Vinceremo quel gioco?
In lockdown ho letto i discorsi di Angela Merkel: lei che ringraziava le cassiere del supermercato, lei che riconosceva che la gente moriva da sola. Poche frasi, ma fondamentali. Credo che in Germania un uomo dopo di lei farà fatica ad affermarsi. Così anche in Nuova Zelanda. È come quel detto, once you go black you’ll never come back. Vale anche per chi sperimenta una buona leadership femminile: se provi una donna al governo, non torni indietro, perché le donne hanno un range emotivo fermo, materno, in certi momenti cattivo, assai più ampio di quello degli uomini. Il Covid ci offre la possibilità riavvicinare le donne alla politica proprio perché c’è un grande bisogno di concretezza. Se continueremo a fare una politica impantanata nei giochetti di potere e consenso, però, le perderemo.
In Parlamento fa fatica?
Non è giusto chiedere se io faccio fatica, ma se la fanno tutte le donne. Ormai siamo sulla buona strada per la divisione equa del lavoro e delle cariche, almeno nel mio partito. Non siamo però ancora capaci di rendere prioritari i temi femminili. Il Recovery fund in questo senso è una risorsa, un punto su cui possiamo lavorare mobilitando le cittadine. Sono figlia di un papà femminista, che però non si è mai definito tale (e non lo farebbe mai). Era l’unico che accompagnava me e mia sorella a scuola e veniva anche a prenderci. Oggi moltissimi padri italiani sono come lui.
Ci sono poi le famiglie senza papà.
Per tante donne crescere dei figli da sole non è neanche una scelta: ci si trovano. Durante il Covid abbiamo fatto i congedi parentali: si doveva dichiarare che l’altro coniuge non prendeva il congedo e moltissime donne non trovavano i loro compagni, non sapevano come compilare il modulo. Così abbiamo dovuto chiedere all’INPS di intervenire e permettere a quelle donne di autocertificarsi. A Milano il 50 per cento dei nuclei familiari sono monoparentali. Dobbiamo lavorare su questo fronte.
Ne avrà di cose da fare. Il futuro la incuriosisce?
Un mio amico inglese dice che essere progressisti significa pensare che domani andrà meglio per una persona in più.
L’uomo però non sempre migliora.
No, ma uno sforzo politico può tendere al meglio.
Qual è un suo errore imperdonabile?
Non riuscire a dire tutto quello che penso. Mi è capitato in alcune situazioni perché temevo di fare danni irreparabili. A volte mi manca la prontezza per dire quello che vorrei. Ho quell’esprit de l’escalier di cui parlano i francesi.
Del futuro del PD cosa la spaventa, invece?
La stagnazione. Vorrei vedere più iniziativa politica. Siamo fermi perché pensiamo che la nostra qualità principale sia la stabilità e invece non è così. Soprattutto in questo momento, tirare a campare significa tirare le cuoia.
Lei per conto di chi lotta?
Delle donne che lavorano. E di chi riconosce che la loro fatica è una questione nazionale.
Mi dice una sua utopia?
Vivere in un paese che funziona, dove decidi di fare una cosa e riesci a farla.
Come si fa a far funzionare le cose?
Ci vuole unità di scopo tra tutte le forze politiche.
Un suo sogno privato?
Una casa a Ilha de Mozambique. Con una finestra che dia sull’Oceano indiano.
Potremo contare su di lei per un impegno serio per una Unione Europea che sia anche una unione mediterranea?
Nella dichiarazione Schuman è scritto che la completa unione dell’Europa avrà senso se favorirà lo sviluppo dell’Africa. I padri fondatori lo avevano intuito, dovremo farlo anche noi, prima di quanto crediamo. Dai popoli africani che ho conosciuto, avremmo tantissimo da imparare, prima di tutto il senso di pienezza della vita e quindi di accettazione delle cose che accadono.
Un obiettivo professionale, invece?
Aprire una scuola di politica per ragazze.
Ha almeno un difetto? Un cattivo pensiero?
Eccome. Sono gelosa, egoista, perfezionista, quasi ossessiva. Insopportabile.
Tutti difetti da niente. Un vezzo?
Non so, mia mamma non era molto attenta alla sua immagine, non mi ha insegnato a curarla.
Ha avuto un maestro?
Gianni Cervetti, che è stato il tesoriere di Berlinguer, nonché un comunista migliorista milanese, colui che ha interrotto i rapporti tra il PCI e la Russia. Si è dedicato alla mia formazione politica con grande pazienza e generosità quando ero poco più che una militante.
Lei sembra felice.
Credo di esserlo.
(Il Foglio, 2 agosto 2020)