di Rinalda Carati
Pochi giorni prima della redazione allargata di VD3 che si è tenuta l’11 giugno avevo scritto a due amiche una piccola lettera di ringraziamento della quale riporto qui una parte:
«Quello che mi è capitato negli ultimi anni (credo sia per l’uscita dal mondo del lavoro, sia per la scomparsa di Rosetta [Rosetta Stella, NdR]) è stato il venir meno di quella parte di relazioni che stanno nella categoria del “non scelte”. Non scelte sono per definizione quelle che si danno nel lavoro. Ma non scelte sono anche – almeno da alcuni punti di vista – le relazioni che si incontrano avendo a che fare più intensamente con il desiderio di un’altra donna, che non può mai essere coincidente integralmente con il proprio. […] Grazie a voi due mi sono resa conto che per me il mix di relazioni scelte e non scelte è indispensabile se voglio continuare a “pensare”. Rimanere esclusivamente nelle relazioni scelte è un limite enorme perché mi toglie dall’ambito della necessità. Dal dovermi destreggiare, dal dover inventare continuamente nuove strade.»
Mi ha dunque emozionata, man mano che ascoltavo l’introduzione di Chiara Zamboni, avvertire – ancora una volta – l’esistenza di quella specie di corrente sotterranea che «ci porta dove stiamo andando» e che crea uno stare insieme, stare con…, anche da grande distanza.
Mi interessa la porosità dei confini tra relazioni politiche e amicizie politiche, tra scelto e non scelto, tra necessità e desiderio: mi interessa ciò che apparentemente sta “al margine”. Per parlarne guardo alla mia esperienza.
Ho avuto la fortuna di avere un lavoro al quale potevo quotidianamente cercare di dare senso, in particolare negli anni in cui sono stata nel servizio cronaca di un quotidiano. Un quotidiano è per forza di cose una struttura fortemente gerarchica e a tempo limitato, dove però c’è un margine per lo scambio. Oltre ovviamente al poter scrivere, ho amato il fatto che la cronaca locale consente, più di altri servizi, di raccontare storie, vicende umane: per raccontare bisogna far scattare una relazione che magari dura solo pochi minuti, a volte molto più a lungo. Ma ancora di più ho amato quello che non potevo cambiare se non lavorando “di fino”. I capiservizio (così come i colleghi) li sceglie il direttore, ti tocca avere a che fare con quella persona lì, proprio lei, che decide non solo cosa scriverai, ma anche lo spazio, cioè quante parole hai a disposizione. Il tempo consiste di poche ore. Non essere d’accordo è la norma, non l’eccezione. Per questo salvare il senso di quello che si fa è il vero lavoro a tempo pieno: un arco di possibilità ricchissimo, dentro uno spazio-tempo limitatissimo. «Su cosa scommetto oggi per provare a poter dire quello che più mi sta a cuore?» A questa domanda ho cercato in quegli anni di rispondere ogni giorno, a volte riuscendo e a volte fallendo. Soltanto in due occasioni su migliaia di giornate, però, mi sono trovata di fronte al prevalere dell’aspetto “accordo/disaccordo nel merito” su ogni altra cosa. La prima volta finì con la rottura irreparabile della relazione. Il capo mi disse: se per te è così, non puoi fare questo mestiere. E mi punì relegandomi a occuparmi delle cose di poco o nessun conto. Avevamo entrambi incontrato il nostro limite, e lì giocò il suo potere. La seconda volta, con un altro capo, ebbi la fortuna di una mediazione femminile che seppe accogliere il mio dolore e contemporaneamente rafforzare la fiducia che lui, il capo, aveva nei mei confronti: non mi accadde nulla di male. Penso di avere imparato così molto su me stessa e su ciò che mi lega al mondo.
Tuttavia. Quando ho sentito che – pure essendo io indubitabilmente una privilegiata – la parte di lavoro che atteneva al senso della mia vita stava diventando residuale e “banalizzata” (parola che ha usato Ida Dominijanni e che trovo molto precisa) sono venuta via in anticipo dal giornale.
Penso che quella scelta sia affine a quello che sta accadendo adesso, nelle persone che rifiutano la logica del “lavoro per la sopravvivenza” e che scelgono di “avere meno” materialmente e “di più” relazionalmente e nel loro rapporto con l’ambiente, gli animali, la bellezza. Credo che questo andrebbe sostenuto, che cioè sarebbe importante mettere a tema insieme lavoro e non lavoro.
Un’altra esperienza relazionale politica importante, dopo il lavoro, ha riguardato mia madre e mia zia: lì il desiderio che la loro rimanesse – fino all’ultimo istante possibile – vita e non sopravvivenza ha incontrato la necessità conseguente alla loro età, molto avanzata, e al non essere noi persone ricche. Così noi, tre figlie di queste due sorelle tra loro legatissime, ci siamo materialmente interposte contro la possibilità di un degrado. Questo ha avuto un prezzo, a volte anche piuttosto alto (non però nell’ordine del dovere/sacrificio), ma, ora che le nostre anziane ci hanno lasciato, siamo tutte e tre contente di averlo fatto. Mi è capitato però di chiedermi, senza avere una vera risposta, quale equilibrio tra la mia vita e la loro avrei trovato se avessi avuto davvero tanto tanto denaro a disposizione? E in che modo ha inciso l’aver vissuto (anzi fatto, perché curiosamente se guardo a ritroso la mia vita mi sembra di aver fatto molto di più di quello che mi sono accorta di stare facendo e di quello che sono stata in grado di raccontare) quel passaggio “famiglia”/“amicizie politiche” che è cominciato ad avvenire quando abbiamo spaccato il nucleo familiare tradizionale per portarci dentro le nostre relazioni, le altre donne, e con loro la felicità che vivevamo insieme?
E poi c’è la relazione materna, che, certo, è un unicum. Ma è anche una relazione politica con una ampia componente di non scelto. C’è quel sì indispensabile di una donna. Ma dopo, immediatamente dopo, quello che avviene è una relazione. Mi chiedo se provare a districarla, in quanto relazione politica, dal sentimento proprietario verso i figli potrebbe aiutare. Se c’è una cosa che Michele e Gaia, che ho messo al mondo e che amo profondamente per quanto diversamente, non sono è: “miei”.
L’ultima questione alla quale vorrei accennare è quella dell’uguaglianza. Che – a causa della impossibilità di cancellare dalla scena pubblica tutti quei corpi femminili, e a causa di alcune altre cose – sta in qualche modo raggiungendo il suo limite (quanto bisogna essere uguali per essere uguali?). Mi pare che spesso la risposta (anche per le donne che sono rimaste sul percorso della parità) sia: bisogna essere identici, potersi sovrapporre identitariamente o quantomeno poter fingere che sia così, raccontare con molta forza che è così e ottenere il riconoscimento sociale che è così, proprio così. Il riconoscimento sociale delle identità sovrapposte prende il posto del legame sociale ormai frantumato. E accosta le identità l’una all’altra in un modo che rende progressivamente sempre più difficile non solo lo scambio, ma esattamente la relazione.
C’è una frase sulla questione dell’identità ne “Il passeggero” di Cormac McCarthy che continua a danzare dentro di me. «I nomi sono importanti. Fissano i parametri per le regole d’ingaggio. L’origine del linguaggio risiede nel suono unico che designa l’altro. Prima che gli si faccia qualcosa».
(Via Dogana Tre – www.libreriadelledonne.it, 24 giugno 2023)