La direttrice operativa di Facebook, 49 anni, si racconta: l’ambizione che coltiva sin da ragazzina, la filosofia del “Lean In”, il lavoro con Mark Zuckerberg e la perdita del marito, la sua «roccia»
di Martina Pennisi e Barbara Stefanelli
«Se potessi parlare a me stessa diciottenne, mi direi di non nascondere il titolo di “alunna predestinata al successo” (Most Likely to Succeed)
dall’annuario solo per ottenere un invito al ballo di fine liceo». Era
il 1987, Sheryl Sandberg si stava per diplomare alla North Miami Beach
Senior High, in Florida. La scuola la congedava con l’encomio speciale
di futura ragazza leader. Lei poi sarebbe andata a studiare economia a
Harvard. Peccato che in quel momento, in quell’estate della Maturità,
l’unico pensiero della ragazza Sheryl non fosse il percorso che la
porterà – dopo la laurea con lode – a diventare una delle donne più
potenti al mondo e la direttrice operativa di Facebook, cioè la persona
che deve assicurarsi che la società da più di 500 miliardi di dollari di
capitalizzazione faccia sempre (più) soldi. L’ossessione era: «Chi
vorrà mai arrivare al ballo con una super secchiona?». Nessuno, si
rispose. E decise: via l’etichetta dall’annuario. Funzionò, come scrive
in Lean In (Facciamoci avanti,
nell’edizione italiana), il libro-manifesto pubblicato nel 2013. Finì
che «un tizio divertente e sportivo» la invitò, salvo darle buca due
giorni prima. «Oggi non mi comporterei così e spero che mia figlia e le
sue coetanee siano orgogliose (e basta) di essere destinate al successo.
E se ancora ci sono ragazzi che non reggono l’ambizione e la forza al
femminile, vorrei dire alle teenager di oggi: lasciateli, non uscite con
chi non vi accetta così come siete».
Questo è quello che pensa e
vuole comunicare Sheryl Sandberg, a poco meno di un mese dal suo
cinquantesimo compleanno. Siamo nella sede milanese di Facebook, al
quarto piano di un palazzone a 400 metri dal Duomo, con la vista sugli
stessi iconici tram che circolano a San Francisco, affacciata sulla baia
a 50 chilometri dal quartier generale di Facebook a Menlo Park.
Questa è la prima visita ufficiale, ma era già stata in Italia?
«Certo,
chiunque farebbe più viaggi possibile qui, no? Sono stata a Milano,
Roma, Firenze. Un Paese fenomenale per gli affari, e per il cibo. Sono
venuta l’anno scorso in vacanza con i miei due figli. Questa volta
annuncio un investimento e l’obiettivo di avvicinare 100 mila italiani
al digitale entro il 2019. Non vogliamo che nessuno rimanga indietro. La
tecnologia ha un incredibile potere di cambiarti la vita, ma bisogna
essere in grado di usarla», dice d’un fiato.
Siamo al riscaldamento:
più che un confronto alla Frost/Nixon, ci aspetta ora una partita a
poker. Quello delle epiche sudate davanti ai giornalisti è Mark
Zuckerberg, informatico geniale e un po’ impacciato che nel 2007 rimase
folgorato da Sandberg durante una festa di Natale e poi fece di tutto
per strapparla a Google, dove era stata decisiva nella creazione della
piattaforma in grado di cambiare per sempre il mondo della pubblicità.
Lei – che prima di Google aveva lavorato come capo dello staff di Larry
Summers, segretario del Tesoro nell’amministrazione Clinton – è
l’opposto. Brillante, asciutta, concentrata.
«Vengo meglio se non
sorrido». «Vengo meglio di tre quarti», dice al fotografo prima
dell’intervista. È muscolare, nella mente e nel fisico stretto in una
gonna rossa di pelle e in una maglia nera elasticizzata.
Si allena tutti i giorni?
«Sì,
tutti i giorni, per me è importante. Come dormire». Dopo l’improvvisa
morte del marito Dave Goldberg, nel 2015, lo spiegò subito: lo sport è
uno strumento per superare il lutto e rimettere in circolo le energie.
Stimola resilienza, che è il vero muscolo da allenare per uscire dalla
depressione. Non solo: «Può aiutare le ragazze a trovare la fiducia in
sé stesse. Le nostre calciatrici ai Mondiali femminili di calcio, per
esempio: è fantastico vederle, guardarle all’opera».
Alex Morgan e
compagne si misurano su 110 x 70 metri di campo. Con Sandberg c’è solo
una scrivania bianca da attraversare, consapevoli di conoscere le nostre
carte e soprattutto le sue. Con Facebook, Instagram e Whatsapp sta
plasmando i nuovi modi di comunicare: la sovraesposizione mediatica la
obbliga a periodiche uscite pubbliche con un codice ormai noto ed
esercitato. Frasi brevi, chiare, rassicuranti, qualche colpo ad effetto.
La Rete ne è piena. Sempre le stesse e in linea con le esternazioni di
Zuckerberg e degli altri top manager del gruppo, e persino del resto
della Silicon Valley.
Alle donne ha iniziato a parlare nel 2010,
invitandole con un Ted Talk a non farsi condizionare, non tanto e non
solo dalla maternità, quanto dall’idea stessa di rimanere incinte e
avere un bambino: «Quando una donna comincia a pensare a un figlio,
subito si chiede “ma come farò a fare tutte le altre cose che faccio
ora?” E da quel momento, sbagliando, si tira indietro», si infervora nel
video che su YouTube è stato visto oltre 9 milioni di volte.
Siamo nel post #MeToo, il movimento di
denuncia delle molestie nei luoghi di potere che è partito nel 2017 con
le accuse al produttore di Hollywood Harvey Weinstein. Sta aiutando o
comunque condizionando la corsa delle donne che cercano di chiedere,
pretendere e negoziare sul lavoro?
«Prima di tutto voglio
dire che #MeToo è un movimento davvero importante. Ne abbiamo bisogno,
non importa in che forma: in tutto il mondo, ovunque, nel vostro Paese,
nel mio, le donne sono state molestate troppo spesso e per troppo tempo
sul lavoro. Il problema c’è ancora ed è molto profondo, tuttavia
dobbiamo essere chiare con gli uomini: non molestarci è un bene, ma non è
sufficiente. Non dovete molestarci e non dovete ignorarci».
Negli Stati Uniti, i dati di una ricerca
mostrano come il 60% dei manager maschi sia preoccupato all’idea di
svolgere «un’attività individuale» con una donna, compresa una riunione.
«Mi chiedo: “È possibile essere promossi da qualcuno che non
vuole avere un incontro con te?” La risposta è facile: no. Se non
possiamo ottenere un incontro non possiamo ottenere una promozione. Per
timore di denunce, gli uomini senior sono sei volte più esitanti a
cenare con una donna junior. Cenare non vuol dire stare in un
appartamento, cenare significa trovarsi al ristorante, dove ci sono
altre persone. Io dico: se non siete disposti a cenare da soli con una
donna, non cenate neppure con un uomo. Fate pasti di gruppo piuttosto».
Poi, esplode in una risata: «Oppure non mangiate affatto».
La collaborazione degli uomini però è fondamentale.
«Alcuni partecipano anche ai nostri circoli, che si ispirano alla filosofia del “Lean In”
e sono aperti a tutti, solo che per gli uomini “farsi avanti” deve
voler dire sostenere le donne sia a casa sia sul lavoro. A casa c’è
un’ottima ragione per farlo: il tuo matrimonio ne beneficia, fai più
sesso. Agli uomini dico: “Se vuoi fare più sesso non comprare dei fiori,
fai la lavatrice”. Una volta l’ho detto in tv e il più grande venditore
di fiori degli Stati Uniti mi ha mandato un mazzo enorme chiedendomi se
non potessi consigliare entrambe le cose. Ho risposto va bene, certo,
posso farlo».
Questo è l’argomento di cui preferisce parlare, il
biglietto da visita con cui lei si fa avanti: Sheryl Sandberg,
femminista, autrice di Lean In e
fondatrice della non profit collegata LeanIn.Org, 43 mila circoli (70
in Italia) di donne che si incontrano regolarmente per confrontarsi.
Michelle Obama – una a dire il vero perfetta leaniner,
in equilibro fra l’immagine dell’impegnata rassicurante first lady e
quella dell’arrembante indipendente donna di successo da 10 milioni di
copie vendute (dell’autobiografia Becoming) – ha derubricato l’iniziativa di Sandberg: «Questa robaccia (shit,
in inglese) non funziona sempre: le donne non possono avere tutto».
Leggi: non tutte le donne partono dalla condizione di poter rincorrere
la carriera cercando di bilanciarla con la vita privata. Quello della
numero due di Menlo Park è una sorta di femminismo del e nel Capitale,
che si rivolge a chi può concentrarsi sul raggiungimento dei propri
obiettivi in ambienti di lavoro ostici.
Negli ultimi due anni e mezzo, così
impegnativi per Facebook, dichiararsi femminista è diventata un’arma a
doppio taglio? Si è sentita giudicata diversamente da Mark Zuckerberg,
per quello che avete fatto o detto in difesa della vostra azienda, in
quanto donna e per molte/i icona globale?
«Mark e io abbiamo
una grande responsabilità, dobbiamo proteggere la libertà di parola e di
espressione, le elezioni e le opinioni; ed è giusto che ci giudichino
duramente. Io sono orgogliosa del lavoro che ho fatto come femminista.
Mi hanno detto e ripetuto che prendere questa posizione avrebbe rovinato
la mia carriera, che non sarei più stata presa sul serio. Io sono
felice, tutto considerato, di aver preso posizione. Le donne che sono
venute prima mi hanno reso le cose più semplici, hanno preparato il
terreno. So benissimo che dicendo qualunque cosa, da donna, sarò
giudicata diversamente. È un male? Senza dubbio. Ma è così: lo chiamano
“doppio standard”. Fin da piccole, se le bambine sono ambiziose, se si
esprimono, vengono definite prepotenti e suscitano disagio. Cosa che non
accade con i maschi, quasi mai».
Quindi le decisioni che ha preso, soprattutto negli ultimi due anni e mezzo così difficili, le ha prese da leader e basta?
«Sì, andavano prese. E basta».
Il
terremoto che ha investito le fondamenta di Facebook è iniziato nel
novembre del 2016, con l’elezione di Trump e le accuse al social network
di aver permesso ai russi di influenzare il dibattito elettorale
americano. Subito dopo è esploso lo scandalo di Cambridge Analytica, che
ha messo a nudo i meccanismi dell’economia (digitale) basata sui dati
che cediamo gratuitamente e la superficialità con cui viene trattata la
nostra privacy. A questo punto sono scattate le inchieste dei media su
come Zuckerberg e Sandberg hanno gestito la faccenda, con lei che ha
commissionato un’indagine (prima negata, poi ammessa) sull’azionista
“scomodo” George Soros, e sono partite le audizioni davanti al Congresso
americano. L’ultima grana sono le richieste pressanti di spacchettare
Facebook: capofila dell’offensiva è la senatrice in corsa per la Casa
Bianca Elizabeth Warren, che nell’immaginario americano potrebbe
diventare l’antagonista – donna, economista, democratica – di Sheryl
Sandberg.
Cosa è cambiato per voi e per lei?
«La
cultura dell’azienda è cambiata. Prima di tutto, stiamo lavorando a
stretto contatto con i governi, è il passaggio più importante dal 2016.
Poi, stiamo investendo molto di più in sicurezza. Lo facevamo anche
prima, non abbastanza, perché non avevamo previsto alcuni rischi. Adesso
abbiamo 30 mila persone che lavorano in tutte le lingue del mondo per
prevenire i danni alla comunità. Molto del nostro lavoro è mutato. Anche
il mio: prima passavo la maggior parte del tempo a lavorare sulla
crescita, sul business, adesso priorità è la prevenzione. Ho sempre
fatto entrambe le cose, ma ora gli equilibri si sono invertiti».
Questo
percorso critico è fotografato dalla classifica delle donne più potenti
del mondo: nel 2017 Sandberg era appena sotto il podio. L’anno scorso,
mentre la reputazione di Facebook si incrinava e il Congresso Usa
reclamava risposte, è scivolata di sette posizioni. La verità è che il
suo potere sulle nostre vite è rimasto intatto, anche paragonandola a
chi ora la precede in graduatoria. Nell’ordine, la cancelliera tedesca
Angela Merkel, l’ex premier britannica Theresa May o Christine Lagarde,
direttrice generale del Fondo monetario internazionale. Chi di loro
prende decisioni che hanno un effetto immediato sulla vita quotidiana di
oltre 2,7 miliardi di persone? In lista non c’è (più) Marissa Mayer, la
prima ingegnera assunta da Google che nel 2012 ha preso le redini di
Yahoo! proponendosi come alternativa di successo al machismo della
Silicon Valley. Poi ha mentito sugli attacchi hacker e ha svenduto
l’azienda. E non c’è neanche Hillary Clinton, alla quale Sandberg
sembrava pronta a unirsi in caso di vittoria in quello sciagurato (per
Facebook, per casa Clinton e per le donne) novembre 2016. Ha perso ed è
uscita di scena, mentre la numero due del colosso di Menlo Park potrebbe
decidere da un giorno all’altro – con Zuckerberg – di eliminare davvero
il contatore dei cuori su Instagram. Sembra una banalità, ma se i due
dovessero procedere non vedremmo più sotto le foto quante persone le
hanno apprezzate: ridurremmo così i continui confronti con la popolarità
altrui di cui i social network ci hanno reso ostaggi. Non solo cuori.
Sandberg sarà determinante nello sviluppo di Libra, la criptomoneta annunciata a metà giugno
che ha già sollevato un’alzata di scudi di banche centrali e organismi
di monitoraggio finanziario. Se Zuckerberg può permettersi di fare
annunci e marketing, lei deve pesare parole che hanno un effetto persino
superiore a quelle del fondatore: è stata l’allieva di Summers, lo
stesso che – anni dopo, da rettore a Harvard – avrebbe sostenuto che gli
uomini sono più forti delle donne nelle materie scientifiche «per
motivi biologici».
Facebook sfrutterà Libra per cambiare il suo modello di business e non essere troppo dipendente dalla pubblicità online?
«Come
Facebook non stiamo lanciando qualcosa di nostro, facciamo parte di
un’associazione di 27 aziende. La buona notizia è proprio che c’è questa
collaborazione. Stiamo lavorando con i regolatori di tutto il mondo,
per ora non abbiamo molti dettagli. C’è un po’ di preoccupazione diffusa
perché non possiamo descrivere un prodotto finito. Questa volta noi
abbiamo annunciato cosa vogliamo fare, ma dovremo lavorare con gli altri
per realizzarlo».
A tavoli conclusi, e regolatori permettendo,
quello delle transazioni di denaro potrebbe essere un nuovo capitolo che
porterà il colosso californiano anche nei portafogli dei suoi 2,7
miliardi di iscritti.
Per capire come Sandberg è arrivata fin qui e
da qui andrà avanti, sopravvivendo dove e mentre altre hanno dovuto
cedere il passo, vale la pena fare un ultimo salto indietro e tornare
alla prima scossa di quel sisma che si sta tuttora assestando: al
novembre 2016, quando Zuckerberg dichiarò che il 99 per cento dei
contenuti postati su Facebook «è autentico», difendendosi goffamente
dalle primissime accuse di aver agevolato la disinformazione. Allora
Sandberg aveva perso il marito da sei mesi. Nel Ted Talk del 2010
diceva: «Fai del tuo partner un vero compagno di vita». Lei, dopo un
matrimonio fallito, come compagno di vita aveva scelto il suo migliore
amico, un ex collega che per primo le aveva mostrato cosa fosse
Internet. Dave Goldberg cadde sul tapis roulant, mentre era in vacanza
in Messico con la famiglia, a 47 anni. In una struggente lettera
pubblicata quattro giorni dopo, Sandberg scrisse: «Era la mia roccia.
Quando ero agitata, lui rimaneva calmo. Quando ero preoccupata, mi
diceva che sarebbe andato tutto bene. Quando ero incerta, mi aiutava a
risolvere il problema».
Perdere la sua roccia ha reso più difficile svolgere il ruolo di leader?
«Penso di sì, allo stesso tempo penso di essere diventata più forte e decisamente più empatica. La prova più dura è crescere i nostri figli da sola (un maschio di 14 anni e una femmina di 11). Ho imparato molto da quello che è successo: è più difficile farmi arrabbiare, ho più controllo. Si chiama PTG, Post Traumatic Growth, crescita post traumatica, il contrario dello stress post traumatico. Certo, avrei preferito “crescere” in un altro modo, ma quando subisci un trauma come il mio puoi trovare una grande spinta nella consapevolezza che quella cosa, quel tormento ti sta fortificando. Quindi, sì, sono più forte. Quasi tutto, letteralmente quasi tutto quello che mi può capitare non potrà essere poi così male».
(Sette, 5 luglio 2019)