di Stefano Sarfati
Collegato al discorso sull’autocoscienza c’è quello sul simbolico, come ha riferito Lia Cigarini anche nell’ultima redazione allargata di Via Dogana Tre, di più, è la strada che lei scelse di imboccare fin dall’inizio col suo gruppo. Era la fine degli anni Sessanta, anni in cui i capelli lunghi e le gonne corte, gli hippy, i Beatles e molti altri, sono stati i portatori di un nuovo simbolico che è arrivato in modo imprevisto, era nell’aria, sgorgava e scorreva per le strade, ha travolto tutti e ha modificato la società.
Qualcuno deve aver osservato e studiato, si sa che il mercato è veloce a cogliere le novità e capire come sfruttarle al meglio. Già l’american dream degli anni Cinquanta e Sessanta del ’900 aveva costituito un dispositivo simbolico potente, che mobilitava e motivava moltitudini di lavoratori, desiderosi di dotarsi degli oggetti di status come l’automobile, la televisione eccetera. Ma il salto di qualità avviene nel 1984, quando il fabbricante americano di scarpe sportive Nike esce con una campagna pubblicitaria incentrata sul campione di basket Michael Jordan, per promuovere una nuova scarpa e… magia, tutti i giovani ragazzi di colore, gran parte dei quali non sente di avere un futuro nella società razzista americana, comprano quelle scarpe e sognano di diventare un grande campione vincente, ricco e famoso. In questo caso, si tratta di una campagna pubblicitaria studiata a tavolino che ha prodotto un simbolico strumentale alla vendita delle scarpe e ha creato una modificazione nella società.
L’importanza del valore che si dà alle cose, il senso che si dà alle azioni, l’interpretazione del mondo, insomma la sfera del simbolico, è così potente da spingere Naomi Klein a scrivere il libro No logo, pubblicato nel 2000, dove sostiene che il capitalismo non investe più nella produzione di beni (spostata dove costa meno), ma nella costruzione del brand e dei valori immateriali legati al marchio.
Torniamo a noi. Oggi è risaputo che la dimensione del simbolico è un campo di battaglia molto affollato: vi troviamo giovani youtuber che cantano rap sul loro disagio, politici come Salvini che hanno una capacità di inventare slogan che poi hanno corso, donne cooptate e messe ai vertici delle piramidi del potere per farle rientrare (le piramidi) nel paesaggio contemporaneo.
Così come è affollato il web, il mezzo oggi imprescindibile che supporta e trasporta le idee, le parole, i simboli. Affollato ma non impenetrabile e la Libreria delle donne, con la sua ricchezza di pratiche, può trovare le parole che possono farsi strada per produrre dei cambiamenti.
Dico questo a partire dalla mia esperienza: c’è un disperato bisogno di parole che sappiano significare realtà non dette (e quindi scarsamente o per nulla esistenti). Quando, in seguito alla morte della mia amica Bibi Tomasi, ho cominciato a frequentare la Libreria delle donne (alla ricerca di quello che solo lei mi dava) ero un’altra persona. Dopo ventitré anni di frequentazione e di letture (interessanti, ma più che altro utili per poter coltivare relazioni), di strettoie in cui ho capito cosa gettare e cosa mi era indispensabile, quello che mi definisce è sempre la parola “uomo”, ma solo per scarsezza di altre parole; se trovassi le quali magari riuscirei a definire la differenza tra l’essere maschile che vede nel bombardare la soluzione per risolvere un conflitto, nel picchiare una donna la soluzione per risolvere un proprio disagio e invece uno che parte proprio dalla relazione, dall’altro/l’altra da sé.
(Via Dogana Tre, libreriadelledonne.it, 28 ottobre 2023)