di Donatella Massara
Sabato 31 ottobre, partecipando all’incontro di presentazione del libro Annie Leclerc Della Paedophilia e altri sentimenti, Malcor D’, 2015 al Circolo della Rosa, pensai che avrei potuto parlare di Djuna Barnes. Non l’ho fatto anche perché dopo un’ora e mezza l’incontro macinava ancora l’urgenza di interventi di presentazione e altri del pubblico che ne avevano la stessa pressante presa di responsabilità. Mi è parso, in quella situazione, non urgente ricordare questa grande scrittrice, l’ultima modernista, come è stata definita. Tuttavia, qui, mi prendo lo spazio per menzionarla. Ecco Djuna Barnes sarebbe stata una ragazzina, se non proprio una bambina, abusata. Djuna era stata data in “moglie”, con una cerimonia privata, a un amico di famiglia, molto più anziano di lei, a cui il padre l’aveva ceduta. “Iniziata come una vestale alla sua causa”, disse lei stessa. La causa sarebbe stata quella del libero amore. Ma può darsi che precedentemente l’abuso sia stato compiuto dal padre, come la scrittrice disse una sola volta parlando a un giornalista. Così dice una delle sue biografie.
Inizialmente quello che mi aveva attirato, di nuovo, verso la scrittrice americana, dopo avere conosciuto, negli anni ’80, la riedizione italiana di Bosco di notte, era stato il suo teatro. Ignoravo che avesse scritto vari atti brevi, facendo parte di un gruppo di avanguardia, i Provincetown Players, fra i quali c’era anche Eugene O’Neill. È stato dopo questa scoperta che ho indagato sulla sua biografia. Quello che mi aveva colpito nella vita di Djuna era la prima parte della sua vita, passata in una famiglia piuttosto fuori dalla norma, dove, secondo alcune delle sue biografe, si abusava sessualmente dei bambini. Era tutto molto lontano dalla norma quello che succedeva nella famiglia Barnes che perpetuava il cognome materno, quello della nonna Zelda, perché i figli quando la madre si era separata dal marito nonché padre degli stessi, avevano ripudiato il cognome paterno. Nonna Zelda adora la sua nipote Djuna, essendo lei stessa giornalista e scrittrice, le insegna a scrivere perché, come i fratelli, non andrà a scuola ma sarà istruita con le lezioni che si tengono in casa, suonando, leggendo a voce alta, scrivendo. La Barnes era una famiglia numerosa perché il padre di Djuna, figlio di Zelda, viveva con due mogli che avevano contemporaneamente fatto figli. L’unica femmina è Djuna. In casa si tenevano anche sedute spiritiche per evocare i grandi della storia e certamente c’era un atteggiamento molto disinvolto verso il sesso, perché a cominciare da nonna Zelda, si professava la dottrina del libero amore. Zelda che dorme con la nipote manda alla nipote adolescente delle divertenti lettere, accompagnate da strani disegni dove non esita a fare vedere due donne con i seni nudi accostati. Sono lettere che la scrittrice venderà, ormai anziana, avendo bisogno di soldi, insieme ai suoi manoscritti, a una università americana. Djuna, in quasi tutte le sue opere rielabora la storia di questa famiglia, in Ryder, il primo romanzo, anche tradotto in italiano, poi in qualcuno dei suoi splendidi racconti e anche nell’opera che l’ha resa più famosa Bosco di notte, dove, ormai emigrata a Parigi, racconta la storia d’amore con Thelma Woods. L’incontro in libreria mi ha fatto accostare l’opera di Annie Leclerc, che Laura Modini ha letto con la generosità del suo stile personalissimo di attrice-lettrice e che la puntuale presentazione di Luciana Tavernini, promotrice dell’incontro, e di Luiciana Piddiu, traduttrice, hanno spiegato. Addentrandosi sul tema della pedofilia, Lea Melandri, autrice dell’introduzione all’opera, afferma che è il silenzio che connota la violenza sessuale. È su questa “memoria del corpo” che lei ha lavorato, in molti suoi scritti, invitando le donne a trovarne le parole. Come dice Annie Leclerc, siamo soggetti perché confluiamo nella parola. Invece la pedofilia è esattamente quell’atto violento che cade, censurato, nel silenzio, anche se apparentemente accompagnato dall’amore, come probabilmente fu per Djuna Barnes. Perché nessuno ne vuole sentire parlare. Silenzio è appunto il titolo della bella pièce teatrale di una grande attrice di teatro, Patricia Zanco, e di Daniela Mattiuzzi che nel 2010, recensii per Donne e conoscenza storica. La pièce racconta i più di 50 casi di molestie sessuali verso allieve, oggi donne che hanno testimoniato, a distanza di decenni, contro il loro maestro di Belluno. Djuna Barnes uscendo da questo silenzio ha fatto un’opera meravigliosa e grandiosa dove la violenza è nascosta e mostrata, allo stesso tempo, sofferta e ridicolizzata, epicizzata e denunciata, inseguendo un ritmo che tocca il limite della bassezza, per risollevarsi verso il cielo dell’immaginazione. È lo stesso sforzo poetico che ha fatto Annie Leclerc. Così che non si sa quasi più quale sia il soggetto centrale del discorso, avendolo, inevitabilmente, chiaro. È la stessa, chiamiamola magia, che compie la scultrice Camille Claudel. Certo affatto bambina abusata, ma pur sempre un’innamorata ventenne di un maestro, Rodin, di quarantacinque, il quale – dopo quasi dieci anni di relazione amorosa, artistica e collaborativa – non la riconoscerà, non la capirà, né saprà contenere le spinte deliranti della sua personalità geniale. A quasi 50 anni, Camille Claudel viene chiusa in manicomio dalla madre, oltre che dal famoso fratello Paul e dalla sorella Louise, sicura che il suo internamento sia su ordine della “banda Rodin” che vuole rubarle le opere, e avvelenarla. Non ne uscirà più, a causa di questo perdurante “delirio” e dentro al manicomio morirà, dopo trentanni. Negli anni passati nell’atelier di Rodin e quando se ne separa, lavora a delle opere straordinarie. Una di queste è una rappresentazione realista della sua storia con Rodin e del legame di lui con la compagna Rose Beuret. Un uomo viene portato via da una donna vecchia mentre una giovane è in ginocchio, implorante che tenta di trattenerlo. Il titolo dell’opera è L’Âge mûr, “L’età matura”. Nonostante tutti noi possiamo vedere la storia veritiera di questi personaggi, nella scultura c’è l’allegoria del tempo della vita. È questa a lasciare il posto all’empatia sulla sofferenza che ha vissuto Camille, senza che mai smetta di avere evidenza il senso dell’opera che denuncia quello che in una storia particolare si ritrae per raffigurare un significato più generale.
Come Donne di parola, l’anno scorso abbiamo lavorato molto su Djuna Barnes, facendo confluire la nostra interpretazione in un lavoro teatrale di 60’, in 3 tempi, parzialmente riascoltabile sul nostro sito http://www.donnediparola.eu/index.php/letture/saggi/134-djuna-barnes-vita-e-teatro-1a-.html Il 1° e il 2° tempo, con altri materiali, sono stati poi da noi pubblicati in un librino Donne di parola (a cura di ), Djuna Barnes: vita e teatro, Book edizioni/Donne, Milano, 2015, in vendita alla Libreria delle donne. Il 1° tempo è dedicato alla vita di Djuna Barnes accompagnato, sulla scena teatrale, dalla proiezione di più di 100 immagini di archivio. Il terzo tempo è la rappresentazione di uno dei suoi testi teatrali, Maggie dei santi, dove all’interno di una chiesetta in riva al mare, una madre che è stata libertaria, diventata osservante, colloquia con una figlia rivoluzionaria che ha sempre fatto la serva della chiesa, la serva dei santi.
E il nostro prossimo spettacolo, nonché radiodramma, è dedicato alla scultrice francese, in Alla ricerca di Camille Claudel, (a cura di Donne di parola), Book edizioni/donne, 2015, in vendita alla Libreria delle donne.
(www.libreriadelledonne.it, 6 novembre 2015)