di Claudio Vedovati
Non eravamo stati capaci, come Maschile Plurale (MP), di dare valore alle cose più importanti.
Che la violenza era già stata nominata, da lei, l’unica persona titolata a farlo.
Che la violenza sulle donne non si può misurare su un terreno di verità che vada oltre le relazioni.
Che mettere al centro la verità soggettiva, come ci insegna anche il femminismo, è un grande spostamento rispetto a un sapere maschile che ha prodotto discipline che vanno in cerca di prove e controprove, non fidandosi del partire da sé e non dando valore ai vissuti.
Che non possiamo mettere sullo stesso piano la parola di una donna che prende il coraggio di dire di aver subito violenza e quella di chi ne è invece accusato, perché l’asimmetria della violenza patriarcale conta, e segna tutti noi.
Così scrivevo in Una trasformazione è necessaria (era giugno 2014) e non pensavo solo all’importanza di usare le parole corrette per parlare di violenza. Pensavo a come porsi di fronte alla violenza, quando essa appare, e a come far accadere una trasformazione maschile, proprio a partire da essa.
Marisa Guarneri, Donatella Proietti Cerquoni ed Alberto Leiss hanno ripreso in questi giorni su Facebook la discussione partita da un’accusa di violenza nei confronti di uno dei componenti di MP. Ho deciso di intervenire anch’io, di nuovo pubblicamente, perché penso che la posta in gioco di questa discussione sia molto importante. Riguarda la possibilità di fare politica per MP, un’esperienza significativa per me e per tanti altri uomini.
Alberto Leiss, rivolgendosi a Marisa Guarneri, ha scritto con sincerità parole che pongono una questione importante: «la parola di una donna che dice di aver subito violenza deve essere riconosciuta. Il che però non significa affermare che la violenza sia oggettivamente avvenuta. Questo credo riguardi altre sedi e altre procedure. (…) Mi rendo conto che dire che una parola va riconosciuta, ma non presa automaticamente per veritiera sui fatti a cui si riferisce (è presa per vera sul dolore e il sentimento che esprime) istituisce un difficile margine di incertezza. Ma il riconoscimento politico e simbolico mi sembra un fatto decisivo e importante. Non credo che una procedura di verità sui “fatti” possa essere assunta da una realtà informale e associativa come Maschile plurale e divenire oggetto di un discorso pubblico».
Come altri uomini di MP, ed insieme a loro, nel corso degli anni ho sviluppato un corpo a corpo personale con la cultura maschile, che ha prodotto una critica del patriarcato. E’ stato un grande spostamento, ma oggi sento che questo non basta. Il mondo è cambiato, le donne hanno smesso di sostenere il patriarcato, la libertà femminile ci ha cambiato tutti, uomini e donne. Ora c’è una nuova miseria maschile con cui fare i conti, che ha origine proprio dalla fine del patriarcato. Io penso che la trasformazione maschile, oggi ancor più di ieri, possa accadere se noi uomini sappiamo stare alle sfide delle relazioni di differenza. Non si tratta solo di lavorare sul nostro desiderio ma anche di fermarci, come uomini, ad ascoltare le donne, sapendo che le relazioni significative e trasformative sono quelle che ci mettono in crisi, profondamente. Ecco, nel momento in cui una donna afferma pubblicamente che la violenza ci riguarda, da vicino, non possiamo fare altro che fermarci e stare alle sue parole. Non si tratta di dare per vero: è vero che lei lo dice. Questo ci deve bastare, perché non c’è altro ambito di verità a cui ci si possa riferire.
Fin dall’inizio noi siamo partiti dalle parole delle donne. Senza lo spostamento prodotto nelle relazioni dal desiderio e dalla libertà delle donne, non sarebbe stato possibile per noi dare valore politico al nostro disagio, avventurarci nell’esplorazione della miseria maschile prodotta dal patriarcato e senz’altro neanche arrivare a dire che “la violenza ci riguarda”, cioè fare politica a partire dalla violenza tra i sessi. Abbiamo colto nella sfida del femminismo qualcosa di importante anche per noi.
Ma cosa rimane oggi di questa affermazione, “la violenza ci riguarda”, se riconosciamo nelle parole di una donna che parla della violenza subita sentimento e dolore e non l’accadere di una verità, se la parola di una donna non ci basta, se prescindiamo dalla relazione politica con le donne che aprono conflitti? Così perdiamo il senso della differenza e questo ci espone come uomini a grandi rischi. Il vecchio patriarcato può diventare un indistinto oppressore di uomini e donne, che ci attraversa e riguarda tutti allo stesso modo: tutto si risolve in un’indistinta questione di soggettività. La “violenza ci riguarda” può diventare la leva con cui ci sostituiamo alle donne nel dire cosa è o non è la violenza e con cui ci prendiamo tutti i ruoli, anche i vecchi ruoli di vittima e di oppressore. Non avendo più bisogno di nessuna. Il rischio è quello dell’autosufficienza: rispondere alla nuova miseria e al nuovo dolore maschile prodotti dalla caduta del patriarcato cercando di prendersi tutto per sé, compreso il riconoscimento delle donne, le uniche ormai capaci di far circolare davvero autorità. Il ritorno all’ordine dell’uno, così la nostra politica muore.
Il nodo politico che sta alla base della fatica delle relazioni di differenza e che è emerso con forza in questa vicenda riguarda la paura della libertà femminile, e i fantasmi che si porta dietro.
La paura maschile di una rivalsa femminile, che è uno dei resti della fine del patriarcato. Il fantasma che lei, armandosi del sapere delle relazioni fra donne e del femminismo, possa desiderare di farci fuori è potente. Si tratta di un immaginario che alimentiamo quando non riusciamo a mettere a fuoco cos’è l’autorità femminile e che nasce dal disconoscimento maschile della propria origine.
“Affidarsi” a questa autorità significa una cosa politicamente precisa: dare fiducia a chi ci ha messo al mondo. Significa anche riconoscersi autorità, perché l’altra faccia di questa vicenda è stata la difficoltà di MP di assumersi e riconoscersi autorità, di essere all’altezza della scommessa politica che esso stesso ha lanciato. Se non si danno entrambe, non c’è neanche il conflitto.
Non stiamo avanzando soli tra i resti lasciati dalla fine del patriarcato. Anche nelle esperienze di Intercity-Intersex e negli incontri organizzati da Identità e differenza abbiamo potuto esplorare l’autorità come pratica politica della relazione tra uomini e donne e come forza simbolica che contrasta il potere. Abbiamo già individuato nell’eros, che circola pubblicamente nelle relazioni di differenza, ciò che non fa scadere l’autorità femminile in una astratta e desessualizzata figura materna e che aiuta noi uomini a superare la paura dell’insignificanza simbolica del maschile. Marco Deriu, partendo da una parzialità maschile, ha scritto riflettendo su un’autorità sgombra dal potere (in in Silenzi. Non detti, reticenze e assenze di (tra) donne e uomini) e di come il simbolico femminile fa problema fino all’angoscia nell’esperienza maschile e nell’idea maschile della politica.*
Questa estate abbiamo faticosamente preso una posizione attraverso un testo pubblico. Un risultato importante, frutto dello sforzo di alcuni, a cui non è seguito nessuno scambio pubblico: questo è un vuoto di politica. E il 25 novembre, quando sono arrivati gli inviti di donne ed istituzioni a partecipare ad iniziative contro la violenza, ho percepito forte tra noi un senso di sollievo, come se la tempesta fosse passata e tutto potesse continuare come prima, mettendo finalmente la parola fine ad una discussione troppo difficile tra noi. Questo evento segna in realtà un primo e un dopo, mostra uno scacco importante.
In questa vicenda io sono cambiato, ancora una volta nella mia vita. Ho scelto di rimanere dentro Maschile Plurale, riconoscendo il valore di un percorso importante trascorso e valorizzando l’esistenza di figure di autorità maschile che possano far accadere per tutti noi qualcosa di interessante, fuori da dinamiche di potere. Figure di autorità che sanno anche farsi da parte per far sì che qualcosa di nuovo accada, nel segno della differenza. Ho scelto, ad un certo punto, di intervenire, in un articolo a firma comune, significando pubblicamente la relazione politica con una donna, Sara Gandini, che ha dato una misura diversa al mio agire. Una scelta simbolica che muove dal desiderio di mettere sulla scena pubblica relazioni di differenza che sanno spostare. Ho scoperto che affidarsi è interessante proprio quando qualcosa non ci convince, quando i conflitti sono profondi. A riprova che una trasformazione non solo è necessaria, ma è anche possibile.
Le donne, le femministe, hanno dato a Maschile Plurale un riconoscimento enorme. Ora alcune di loro ci stanno dicendo – nuovamente, perché era già accaduto nella discussione di luglio promossa da MP alla Libreria delle donne di Milano – che si aspettano molto di più da noi: ci chiedono di provare a mettere in gioco con coraggio le nostre contraddizioni, le nostre ambivalenze, i fantasmi che fanno da ostacolo alle relazioni di differenza. Il fantasma della rivalsa denota una situazione di rapporti di forza modificati tra uomini e donne, ma con un fondo immodificato: ancora è la forza a regolare i rapporti, a parti rovesciate.
La nostra sfida è che sia altro a fondare le relazioni, un altro ordine simbolico. Ed è proprio nel cuore delle vicende di violenza che possiamo far esperienza di come l’agire dell’autorità, figura libera dello scambio, possa far accadere altro.