Maria Luisa Boccia, già autrice di un libro dedicato al “vissuto” e al “pensiero” di Carla Lonzi (L’io in rivolta, Edizioni La Tartaruga, Milano 1990), ha deciso di “riprendere” un dialogo mai interrotto con la donna che ha aperto la strada a una “imprevista” soggettività femminile e alla rivoluzione culturale e politica che ne sarebbe derivata. L’ha fatto ancora una volta avvolgendo il suo discorso alle parole dell’altra per ripercorrere insieme a lei, e aprire a nuove soluzioni, la “presa di coscienza” che ha visto le donne affrancarsi dalla sottomissione secolare alla visione maschile del mondo. Nel libro, Con Carla Lonzi. La mia opera è la mia vita (Ediesse, Roma 2014) alcune delle intuizioni più originali con cui si è imposto sulla scena pubblica il movimento delle donne negli anni ’70, tornano con forza a interrogare un presente diviso tra vecchi dilemmi – uguaglianza/differenza, emancipazione/liberazione, individuo/ genere, ecc. – e il richiamo alla radicalità degli inizi.
A fronte del femminismo che tende a privilegiare un discorso culturale, “oggettivo”, sulla relazione tra i sessi, anziché affidarsi come in passato all’esperienza dei singoli e delle singole, c’è la sorpresa del gruppo delle giovani studentesse dell’università di Verona, che riscoprono «la straordinaria fecondità emotiva e intellettuale del partire da sé» nell’era del web.
Al centro dell’interesse del Collettivo Benazir tornano il corpo e la sessualità, e il richiamo a Carla Lonzi è già nella scelta del nome. Benazir è «colei che non è mai stata vista così», la donna che nell’annuncio “profetico” di Lonzi avrebbe potuto essere finalmente se stessa, rompere con tutto ciò che era stata e che altri aveva voluto che fosse: appartenenze, identità assegnate, verità predefinite. Un’autenticità e una libertà che, oggi come allora, vanno conquistate «forzando il blocco a una a una». Che l’autocoscienza non fosse una pratica transitoria, ma lo spostamento necessario per “pensare differentemente” se stesse e il mondo, avrebbe dovuto essere chiaro già ai suoi inizi per la diffusione che ha avuto in luoghi impensabili, dalle fabbriche alle redazioni del giornali, oltre che per i conflitti che ha aperto nella concezione tradizionale della cultura e della politica. Ma non era difficile prevedere che avrebbe incontrato ostacoli nel momento in cui, da cambiamento della vita e delle relazioni personali – tra donne, ma anche tra uomo e donna -, avesse preteso di estendersi alla sfera pubblica, alle sue istituzioni, ai suoi linguaggi e ai suoi poteri.
Come giustamente sottolinea Boccia, il primo atto di libertà dell’ Io femminile “in rivolta” consiste nella scelta di «muoversi su un altro piano»: fare “tabula rasa” delle idee ricevute, logorare dentro di sé i legami inconsci col mondo maschile, imparare a riconoscere il proprio piacere sessuale, smettere di vivere attraverso l’uomo e in funzione dell’uomo. Mettere in discussione la “femminilità”, così come è stata definita dalla cultura maschile – cura, famiglia, identificazione col corpo, ecc. -, significava togliere all’uomo il sostegno materiale e psicologico che gli ha permesso di sentirsi libero e creativo nella vita pubblica, ma, al medesimo tempo, comportava il rifiuto di integrarsi in un ordine sociale che si è costruito in assenza della donna. La critica all’emancipazione, come adeguamento alla falsa neutralità maschile o come spartizione e partecipazione al potere, accomuna la donna che ha interrotto la sua attività di critica d’arte per «fare del femminismo la sua vita», e quella che al contrario, come Boccia, ha fatto del lavoro e del suo impegno sociale «una dimensione costitutiva della sua esistenza». Prendere coscienza che si può «essere emancipate e non libere» diventa il passaggio necessario per riportare il pensiero all’esperienza, cominciando dal luogo che porta segni più violenti e duraturi della colonizzazione maschile: il corpo e la sessualità.
«Aver imposto la coincidenza di piacere e fecondazione, nel coito, – scrive Boccia, riprendendo il discorso di Carla Lonzi.-, è il primo gesto di violenza maschile nei confronti della donna. Non solo le ha imposto il proprio piacere, ma le ha inibito la pratica della sua sessualità, del suo piacere. Con questa rinuncia l’uomo ottiene la sottomissione della donna. Questo è il tratto dominante della femminilità. La rinuncia al piacere sessuale è la rinuncia alla propria autonomia». La contrapposizione tra due figure femminili -la “donna vaginale” e la “donna clitoridea” -, di per sé poco convincente, come riconosce anche Boccia, va presa per l’effetto provocatorio che avrebbe potuto avere sulla dipendenza affettiva delle donne e sulla resa al dogma dell’eterosessualità. Forse non era possibile portare alla coscienza la sessualità cancellata della donna senza svincolarla dalla maternità e dall’amore, per i quali la donna ha rinunciato spesso a un piacere proprio. Quando Carla Lonzi definisce “colonizzata” la donna che accetta il coito, spesso contro la propria volontà, colpisce nel segno di una secolare sottomissione al piacere maschile, ottenuta spesso con la violenza. Ma è costretta a mettere in ombra il fatto che accogliere dentro di sé l’uomo va incontro a fantasie, desideri legati all’esperienza primordiale dell’amore: l’irripetibile unità a due della madre e del figlio, prima della nascita e nei primi mesi di vita.
Del resto, quando i temi della “differenza” e dell’“autenticità” femminile sono calati dentro la vicenda autobiografica -la relazione con Pietro Consagra – il conflitto tra bisogno di autonomia e bisogno d’amore si fa evidente. Se è il secondo a prevalere, «la donna sparisce, diventa un’ombra accanto all’uomo». «Terribile non è il giogo dell’oppressione sociale, economica, giuridica, politica. Ma quello dell’amare, del dedicare all’altro la propria forza, senza la quale lui non può realizzare l’opera». (Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1980). La tessitura che Boccia va facendo con le parole della sua interlocutrice è tale da rendere quasi impercettibile il confine che le separa. Ma come per tutte le riprese di esperienze e parole che ci hanno appassionato, l’interpretazione lavora comunque, più o meno sotterraneamente, per salvare ciò che più ci sta a cuore. «È luogo comune considerare il femminismo di Lonzi viziato di soggettivismo, una ricerca introspettiva che resta sulla soglia del mondo, senza misurarsi con la realtà». Il separatismo dei gruppi di autocoscienza, l’importanza data alla relazione tra donne, il rifiuto delle “verità oggettive” dei sistematici del pensiero, non hanno impedito a Carla Lonzi – precisa Boccia – di mantenere aperta la sfida, il “corpo a corpo” con l’altro.
Il dialogo con Consagra ne è una lucida e drammatica testimonianza. «Consagra recrimina, richiede complicità con il suo lavoro di artista. Fa appello alla fragilità, sua e degli uomini, che non possono fare a meno della cura e attenzione femminile». Determinata, ma aperta alla possibilità del cambiamento è la risposta di Lonzi: «Non salterà il mondo se l’uomo non avrà più l’equilibrio psicologico basato sulla nostra sottomissione». «La donna come soggetto non rifiuta l’uomo come soggetto, ma lo rifiuta come ruolo assoluto. Nella vita sociale lo rifiuta come ruolo autoritario». Spezzare la complicità con il desiderio maschile, togliere conferme, nel privato e nel pubblico, al privilegio secolare dell’altro sesso, è condizione imprescindibile perché la donna possa prendere parola, da donna, sul mondo, e, di conseguenza, perché la storia possa ricominciare il cammino per percorrerlo con lei “come soggetto”.