di Massimo Rimpici
Nella vostra richiesta di aiuto, in parte, c’è già una prima risposta
quando affermate che la scommessa sta nell’ambizione di intrecciare reale e
virtuale.
La tecnologia mette a disposizione delle relazioni degli strumenti
aggiuntivi rispetto a quelli tradizionali, perché non approfittarne.
L’importante è di non pensare che possano essere sostitutivi della
relazione in presenza o di sottovalutarne “le insidie” come correttamente
sottolineate nel messaggio.
Io parto dalle relazioni che ho, che coltivo quotidianamente con uomini e
con donne, come si fa a non cogliere la ricchezza dello sguardo in
presenza, le emozioni del detto qui ed ora, le espressioni del viso, della
bocca, della voce: elementi insostituibili della comunicazione orale.
Anche un gesto, una carezza, un abbraccio possono far parte della
comunicazione in presenza, per non parlare dell’energia che si crea durante
una discussione di gruppo o duale.
Il virtuale però, così come la scrittura, essendo meno diretto, offre
un’opportunità in più: la riflessione mediata dal tempo, la sedimentazione
dell’invenzione creativa prodotta dal pensiero, dal desiderio di
espressione, di comunicazione.
Questa vostra richiesta di aiuto mi ha subito ricondotto ad un testo, che
casualmente presentate proprio oggi a Milano presso l’Alveare e che ho
letto di recente, dove, in tema di autocoscienza, un gruppo di giovani
donne dell’Università di Verona si sono poste (quasi, ma non solo) lo
stesso dilemma: è possibile fare autocoscienza a distanza, attraverso il
web e/o la scrittura, le mail? E’ possibile, cioè essere in relazione a
distanza?
“La distanza geografica – scrivono le studentesse nella presentazione del
libro FRAMMENTI DI AUTOCOSCIENZA, del Collettivo Femminista Benazir, Aracne
editrice 2012), l’impossibilità di essere sempre fisicamente insieme, la
comodità della mail, l’urgenza di dire, raccontare, chiedere tra un
incontro e il successivo, hanno fatto sì che le nostre relazioni si siano
nutrite in buona parte di parola scritta anziché orale…”.
In realtà il libro, oltre alla messa in parola di questo percorso di
autocoscienza femminista, è anche un puntuale e scrupoloso diario dei
dubbi, delle difficoltà, delle perplessità (principalmente nella sua prima
parte) relative all’uso della scrittura come strumento corretto di
comunicazione nelle relazioni, soprattutto in un percorso di autocoscienza.
“Se parlandone con voi durante gli incontri l’imbarazzo piano piano
svanisce, quando arriva il momento di scrivere, ecco riapparire tutti i
tabù, le paure, le vergogne che schiacciano come macigni il mio rapporto
con il corpo, con la sessualità”, sostiene una delle protagoniste.
Scrivendosi esprimono anche la paura di essere…fraintese, oppure
invitano a “…cercare di capire le poche parole…”(Virginia).
“Lo scrivere lo vedo come un momento di autocoscienza con me stessa –
sostiene Elena – e questo lo dico – aggiunge – perché non è vero che ti
metti lì da sola e scrivi”
Insomma lo scrivere in una relazione è uno sforzo aggiuntivo, “speciale” ma
che non va mai sostituito con la parola detta* *sguardo nello sguardo.
Certo, alcune cose scritte in un rapporto di relazione non sempre poi
vengono riproposte, rianalizzate in presenza, ovvio, restano scritte e
basta, ma quanto “lavoro” hanno prodotto dentro?!
“Essere in relazione vuol dire anche conoscersi di più, sottolinea
un’altra”, ma quanta ricchezza c’è, aggiungo io, nel fermarsi a meditare, a
metabolizzare e tradurre in scrittura “gli spazi di cielo infinito” che la
relazione ha prodotto sia in presenza che via web.
E’ la prima volta che vi scrivo, anche se vi seguo da tanti anni. Quanta
incertezza, quanto timore nel decidermi: solo un amore grandissimo ed una
infinita gratitudine può rimuovere tutti gli indugi.