7 Marzo 2014

La fetta di torta


di Lia Cigarini
da Via Dogana n. 82, settembre 2007


Interrogata dalla suocera, Claire Lalone, sul movimento delle donne, com’era, che cosa voleva, ecc., ad ogni domanda Grace Paley, grande scrittrice americana e femminista, rispose che sì, ci sarebbero state donne avvocate, che sì, le donne avrebbero lavorato con stipendi pari a quelli degli uomini e che si sarebbero finalmente liberate dagli uomini che le comandavano a bacchetta, che sì, la gente avrebbe amato le figlie femmine tanto quanto i figli maschi. Ma c’è dell’altro da dire, aggiunse, e cioè che “la maggior parte delle donne del movimento non voleva un pezzo della torta dell’uomo. Pensavano che quella era una torta piuttosto velenosa, tossica, piena di armi, gas velenosi e ogni tipo di ignobile porcheria, non ne volevano neanche una fetta di quella torta”. “È moltissimo”, commentò allora Claire Lalone.

Io dico che la richiesta dei 50/50 è una fetta anzi una fettina di torta avvelenata e vorrei spiegare il perché.

In tutte le proposte di parità e rappresentanza di sesso c’è un nucleo perverso che va disvelato, ed è che quelle politiche hanno come scopo l’occultamento della differenza femminile e soprattutto delle sue pratiche, pratiche che costituiscono un altrove e un altrimenti rispetto ai luoghi e alle forme della politica maschile. Si occulta regolarmente il fatto che le eventuali candidate dovranno, comunque, essere selezionate dai partiti e passare quindi attraverso le regole di carriera che essi impongono. E si sorvola, in questo caso, sul fatto che si tratta di mere candidature e non di una effettiva parità fra eletti.

A parte ciò, la prima cosa da chiarire è che la rappresentanza nel parlamento e in tutte le altre assemblee elettive non ha a che fare con il principio di uguaglianza tra i sessi già sancito dalla Costituzione, bensì strettamente con il potere. Si tratta di una richiesta di spartizione del potere tra i due sessi, potere che nella democrazia rappresentativa si esercita per lo più attraverso i partiti. E le carriere nei partiti, così in parlamento e nel governo, si giocano sul potere. Le candidate donne, per arrivare a sedersi sui seggi delle assemblee elettive e nei posti decisionali, debbono quindi accettare molte, potenti mediazioni: quelle del partito che le farà eleggere, quelle di un’inevitabile adesione e legittimazione del potere maschile che lì si esprime e tutte le mediazioni che richiede il fare leggi e regolamenti.

Un altro fatto incontestabile è che la gran maggioranza delle donne, finora, non si è mossa con forza, né dentro né fuori dai partiti, per l’obiettivo di una pari presenza femminile nei vari parlamenti nazionali, regionali, comunali, ecc. Cosa tutt’altro che trascurabile, perché, quando si tratta di spartizione del potere, si tratta di rapporti di forza, di pressione, di lotta, di determinazione per ottenerlo. In questi ultimi trent’anni, ripeto, quando si è riproposto da parte di alcune l’obiettivo della parità nella spartizione del potere, a me non sembra che ci sia stata una risposta di sentita adesione femminile. Ho visto invece l’impegno politico di donne per acquisire libertà nei rapporti con gli uomini, nel lavoro, ecc.; ho visto manifestazioni e continua vigilanza per difendere l’autodeterminazione delle donne nell’aborto. Ma non ho visto un’effettiva pressione per ottenere il riequilibrio della rappresentanza. Vent’anni fa, vigente il sistema proporzionale con ampia possibilità di preferenza, le donne comuniste avevano presentato molte candidate nelle loro liste: non si è notato un netto orientamento dell’elettorato femminile per dare la preferenza alle donne. Non solo dell’elettorato ma anche, mi riferisco al presente, delle elette. Quando, di recente, Rosy Bindi ha presentato la propria candidatura per le primarie che dovranno designare il segretario del Partito Democratico, la maggioranza delle dirigenti e parlamentari dei DS, tranne una, Franca Chiaromonte, si sono dichiarate per Veltroni, anzi, per il cosiddetto ticket Veltroni-Franceschini, cioè per due uomini. Eppure, tra di loro molte si erano già pronunciate in favore di una legge per la parità delle candidature. Un’insensatezza logica e politica. O forse, la finalmente sincera dichiarazione: il partito è la mia patria e le donne vadano pure a farsi benedire.

Perché mai, chiedo, la lotta delle donne insieme, dovrebbe mettersi al servizio dei partiti?

Dai fatti, indubbiamente, risulta un’ambiguità delle donne, che è da interrogare, non da censurare: votano, dunque non dicono di no alla cittadinanza, ma non dicono sì alla rappresentanza di sesso. Di ciò si lamentano alcune politiche e commentatrici, le quali interpretano questo comportamento come una sconfitta del femminismo. Neanche Chiara Saraceno ne viene a capo e crede di vedere come unico rimedio quello di non andare a votare, finendo però contraddittoriamente a parlare di quote (Corriere della Sera del 15.7.2007). Queste cancellano così in un solo colpo l’originalità (riconosciuta a livello internazionale) di una parte consistente del femminismo italiano, che è rimasta fedele alla pratica del partire da sé e delle relazioni, per la semplice, fondamentale ragione dei vantaggi ottenuti. L’esitazione delle donne a perseguire la parità, non viene interrogata così come non s’interroga né la crisi della democrazia rappresentativa né le proprie contraddizioni al riguardo.

In realtà le donne, come ogni elettore, sanno che le elezioni sono fatte per scegliere un partito o un altro, una coalizione o un’altra, ed è un puro corollario che all’interno di quella opzione, che è quella veramente significativa a livello di politica istituzionale, si vada poi a pescare una donna nella lista.

D’altra parte, sono molte le donne, e io mi metto tra loro, che non vogliono stare in tutte le istituzioni create a misura di uomini: parlamenti, eserciti, chiese, ecc. Alcune sì che lo vogliono, ma mentre quella che entra nell’esercito o nella chiesa vi entra chiaramente solo per se stessa, quella che entra nel parlamento, istituto della rappresentanza, e per giunta vi entra con l’idea di una possibile rappresentanza di sesso, copre la volontà di quelle che si tengono fuori, anzi, che vogliono sottolineare la loro assenza da lì.

Sia chiaro che non penso e non parlo contro quelle che al parlamento vanno apertamente per un proprio desiderio, con una competenza e un’ambizione da far valere. Io parlo contro la rappresentanza di sesso, ossia contro quelle che vorrebbero rappresentare anche i miei desideri e interessi.

Contro ogni discorso di rappresentanza di sesso c’è, infine, il pensiero sicuramente condiviso da molte, che il senso della differenza femminile esige che si ragioni con la forza della sua interna necessità e non con la forza della necessità del diritto e delle forme della politica maschile, nelle quali è da includersi la politica di parità. Quando parlo di necessità interna, mi riferisco sia al gesto iniziale del femminismo, quando alcune decisero di riunirsi in piccoli gruppi di autocoscienza di sole donne, sia al lavoro politico per farla essere, la differenza, senza pretendere di rappresentarla: una pratica politica che si può quindi definire, senza mezzi termini, antiparitaria.

La polis delle donne è un esteso movimento di luoghi, spazi e relazioni nazionali e internazionali, e ha una valenza politica secondo me maggiore del parlamento e di altre istituzioni consimili, se non altro perché non si basa sulla separazione tra pubblico e privato, politica e vita, ma, al contrario, è strettamente legata alle forme di vita. È in sostanza un insieme relazionale che vive nei rapporti effettivi che le persone hanno.

Questa concezione della polis non è circoscritta al solo movimento delle donne. Alain Touraine vede, nell’impegnarsi delle donne a tenere insieme privato e pubblico, una strada per uscire dalla crisi di civiltà che stiamo vivendo. Di recente sul manifesto del 28.6.2007, Marco Bascetta, parlando dei movimenti politici, afferma che essi “non sono domande, rivendicazioni, vertenze ma forze che tendono ad affermare degli stati di fatto”. E aggiunge “essi agiscono la democrazia contro la rappresentanza”. Io penso che si riferisca principalmente al movimento delle donne. Sergio Bologna, in un testo in corso di pubblicazione, afferma: “se il lavoro femminile oggi è il lavoro tout court, le azioni di autotutela, le strategie di libertà, i modi di convivere con la precarizzazione, insomma il modo per non restare schiacciati dall’organizzazione del mercato del lavoro è quello delle pratiche femminili, quello – e non altri- è il modo di coalizione con valenza generale, con cui gli uomini debbono confrontarsi”.

Perciò mi infurio quando vedo avanzare delle proposte di quote da assicurare alle donne nelle liste, perché così facendo, non si fa che restringerle politicamente ad una categoria, in un settore, mentre esse stanno guadagnando o possono guadagnare il centro della politica.

In una prospettiva più generale, notiamo che questa richiesta di spartizione paritaria del potere è posta in un momento storico nel quale la democrazia rappresentativa è morente, poiché la prima esigenza della globalizzazione capitalista è quella di poter decidere più rapidamente possibile, quindi, si tende a riconoscere più potere personale ai primi ministri, ai presidenti della repubblica, al governo, ecc. Domanda: questa deriva decisionista e liberistica va bene alle nostre sostenitrici delle pari presenze di donne e uomini in tutti i luoghi elettivi e decisionali? Sembra di sì. Esse arrivano a scrivere che l’obiettivo è quello della pari presenza, qualsiasi sia la legge elettorale. Esse, poi, plaudono indiscriminatamente ad Aznar come a Zapatero o Sarkozy i quali, con il potere personale che gli deriva dalle loro cariche e soprattutto dal liderismo imperante, hanno nominato governi a metà costituiti da donne. Dunque, si vuole una presenza numerica di donne nei parlamenti e nelle altre assemblee elettive, astraendo dal contesto politico istituzionale del paese. Non ci si pone neppure la domanda su che cosa hanno fatto per modificare l’ordine maschile di gestione del potere, le ministre di Aznar o di Zapatero

Inoltre, se si discute di democrazia paritaria, mi sembra, come minimo, che si dica quale idea di democrazia si ha in testa, quale legge elettorale sia tale da rafforzare la democrazia e quale no. Non sarei d’accordo, infatti, e come me molte altre, credo, con una riforma che, ad esempio, prevedesse sì un’ampia quota di presenza femminile nelle liste ma nel contempo assegnasse più potere decisionali al primo ministro o al presidente della repubblica.

La democrazia paritaria, per le sostenitrici del 50/50, sarebbe il completamento della democrazia così come pensata dagli uomini. E quella pensata dalle donne? Se ne parlerà poi, rispondono alcune. Questo è l’obiettivo, rispondono altre, la differenza è un arcaismo che ci tira indietro. Altre ancora pensano che quest’obbiettivo, così semplificato da essere quasi uno slogan, serva se non altro a smuovere le acque.

A me sembra, molte volte, di urtare contro un limite teorico e pratico senza scampo. Tuttavia ci sono già delle intuizioni felici. Trovo di primaria importanza dire che le soggettività eccedono le regole della rappresentanza e dei partiti. Alcune di noi lo hanno detto e scritto. Altre, penso a Marisa Forcina e a Bruna Peyrot (una torinese che vive in Brasile, ha scritto La democrazia al tempo di Lula e La cittadinanza interiore), hanno già iniziato a riflettere sulla democrazia a partire dal pensiero e dalla pratica della differenza. Il pensiero di Bruna Peyrot ruota attorno a un’idea centrale: non c’è cittadinanza democratica credibile senza quella che lei chiama cittadinanza interiore, ovvero non c’è diritto che venga dall’esterno senza una mobilitazione della soggettività, che viene dall’interno. Lei propone in sostanza un decalogo di consapevolezze: la prima consapevolezza, non a caso da lei proposta per la cittadinanza interiore, è quella della differenza sessuale, ovvero la capacità di ricostruire la relazione tra donne e uomini dopo il femminismo, perché questa relazione è stata messa in discussione alla radice e bisogna ripensarla; lei poi ne indica altre: il diritto all’autobiografia, e via dicendo. A me sembra che qualcosa si stia seriamente movendo nel senso da lei indicato e trovo che “cittadinanza interiore” sia un’espressione molto bella ed efficace. Marisa Forcina, a sua volta, dice esplicitamente che l’autocoscienza, cioè la forma politica delle donne, è una forma della cittadinanza, perché la cittadinanza è per prima cosa le relazioni che stabilisci.

So che la strada è lunga. Mi sembra, però, che qualche spunto felice per risignificare la democrazia tenendo ferma la barra della differenza, ora lo abbiamo.


Testi citati: GRACE PALEY,
L’importanza di non capire tutto, Einaudi, Torino 2007; ALAIN TOURAINE, Le monde des femmes, Fayard, Paris 2006; SERGIO BOLOGNA, Ceti medi senza futuro? Scritti sul lavoro e altro, Derive Approdi, in corso di stampa; PRUNA PEYROT, La cittadinanza interiore, Città Aperta Edizioni, Troina 2006; MARISA FORCINA, Donne: lavoro e cittadinanza, in “Critica marxista” n. 6, nov.-dic. 2006.

(Altri articoli sulla questione del 50e50 Via Dogana n. 82, settembre 2007)

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