di Caterina Diotto, Laura Minguzzi, Mariateresa Muraca, Anna Maria Piussi, Chiara Zamboni [1]
Report dell’incontro in libreria il 24 aprile 2021, rielaborato da Maria Teresa Muraca e pubblicato su Educazione Aperta – Rivista di pedagogia critica, 15 maggio 2021
Laura Minguzzi: il libro di Chiara Zamboni Sentire e scrivere la natura ha attirato il mio sguardo appena entrata in Libreria. Un saggio che si legge come un romanzo filosofico che tocca diversi piani della realtà attraversando e collegando in profondità differenti linguaggi. Gli ambiti trattati sono tanti, uno spaziare ampio e profondo che si radica nel presente e ci sollecita, spingendoci a ripensare un percorso soggettivo, attraverso figure indimenticabili e incancellabili della letteratura, della politica, della filosofia, della scienza e della storia (Ingeborg Bachmann, Meister Eckhart, Anna Maria Ortese, Laura Conti, María Zambrano, Maurice Merleau-Ponty e altre), che abbiamo incontrato nel nostro cammino, conosciuto, letto o studiato e alle quali ci siamo ispirate. Laura Conti per esempio nel bel capitolo che le dedica Chiara Zamboni è per noi la madre fondatrice del movimento ecologista, poiché si è posta come figura di connessione fra l’orizzonte simbolico della madre e l’orizzonte simbolico della natura, incarnando il suo sapere scientifico con l’amore per il vivente con tutti i suoi limiti.
Mariateresa Muraca: a Laura Conti infatti sono dedicate alcune pagine molto belle del libro, in particolare quelle in cui si approfondisce il «taglio sessuato […] delle forme umane di partecipazione con la natura […] che ci impegnano in scelte di pensiero e politiche» [2] (p. 58). Come anticipava Laura, queste pagine sono attraversate da una parola, che cattura e allo stesso tempo spiazza, suscita molti interrogativi. È la parola “amore” che tu, Chiara, riprendi da una riflessione di Questo pianeta [3], in cui appunto Laura Conti afferma di essere motivata nel suo impegno ecologista non da questioni etiche ma dall’amore per la vita nel suo insieme, «amo il sistema vivente, voglio proteggerlo» dichiara. Dunque, scrivi dell’amore come il perno della conoscenza e dell’azione politica di Laura Conti; un orientamento nei confronti del mondo che «accetta sia le parti buone che quelle negative», sia le reazioni aggreganti che favoriscono il rilancio del vivente sia le reazioni disgreganti; una posizione simbolica che fa vivere il paradosso per cui noi amiamo il mondo dall’interno, lo consideriamo nel suo insieme e contemporaneamente siamo del mondo. Il tema dell’amore comunque è presente in tutte le pensatrici con cui dialoghi. Di Anna Maria Ortese argomenti la condizione preconoscitiva e il lato invisibile dell’amore per il mondo, che è proprio dell’esperienza di partecipazione comune alla terra – intesa come corpo celeste, parte di una galassia a sua volta in relazione con altre galassie. Rispetto a María Zambrano ti soffermi sulla qualità individualizzante dell’amore, che vincola alla singolarità di ogni cosa (quella foglia, quella casa, quel blu del quadro, quel prato di periferia), senza consumarla proprio perché tiene vive le differenze. Un passaggio che fa riflettere è quello in cui, scrivendo di María Zambrano e Maurice Merleau-Ponty, affermi: «entrambi sono impegnati filosoficamente a dare voce al mondo e a fare della scrittura il luogo di espressione del legame vivente con la natura. […] Merleau-Ponty per fedeltà al mondo […] Zambrano per amore» [4].
Chiara Zamboni: mi è sempre stato difficile adoperare la parola amore, perché può essere adoperata in modo molto superficiale. Tuttavia molte grandi filosofe del Novecento ne hanno fatto il fulcro del loro pensiero: Edith Stein, Simone Weil, Hannah Arendt, María Zambrano e anche scrittrici che qui cito: Ortese, Bachmann. In più scienziate come Laura Conti, Barbara McCklintock e filosofe della scienza come Evelyn Fox Keller. Prima di scrivere questo libro non avrei mai pensato di introdurre il tema dell’amore parlando della natura. Ma mi sono trovata costretta a farlo alla fine del libro perché sono loro ad avere questa posizione. E ne ho preso atto. E allora ci si può interrogare su perché queste grandi pensatrici abbiano avvertito la necessità di fare riferimento all’amore per parlare del mondo. È un passaggio simbolico, che ha a che fare con l’accettare tutto ciò che appartiene alla natura e al mondo, senza dare un giudizio. Amore indica il passaggio simbolico per descrivere questo accogliere che non è puramente contemplativo, ma ci lega e ci impegna. D’altra parte il limite (e la forza) di tale disposizione simbolica è che non la si può imporre a nessuno. Non è normativa. Non è un valore etico a cui educare. È una posizione, che sappiamo porta ad una serie di effetti trasformativi del nostro rapporto con il mondo. Ora, è vero che Merleau-Ponty parla invece di fiducia nei confronti del mondo e di fedeltà al rapporto che si ha con esso. Merleau-Ponty aveva una posizione di pensiero che riconosceva espressamente la propria dipendenza maschile dal materno. Bene, penso che l’accettazione di una radicale dipendenza dal materno porti più al sentimento della fiducia che a quello dell’amore. È per questo che Merleau-Ponty parla di fiducia e fedeltà alla Terra. Non di amore.
Caterina Diotto: nella scrittura e nella pratica di pensiero di Laura Conti c’è un altro concetto che mi ha affascinata e che vorrei approfondire: l’energia. In Ambiente Terra [5] Laura Conti presenta quella che Chiara ha chiamato una “visione di sistema”. Un sistema che non si isola nell’astrazione ma è sempre sistema vivente, in cui tutti siamo calati e a cui tutti partecipiamo. Il concetto di energia rappresenta una forza che permea tutto questo sistema e lo innerva mostrandosi in forme diverse tra loro: energia termica, energia elettrica, energia meccanica, luce. Per Laura Conti un pensiero che sia davvero “ecologico” deve riuscire a “tenere insieme” processi apparentemente molto lontani fra loro, e questo è possibile solamente considerando l’energia come processo trasformativo trasversale a tutto. Solo analizzando la produzione industriale e agricola, l’utilizzo delle risorse e le tipologie di risorse impiegate, il lavoro e l’entropia attraverso la chiave dell’energia saremo in grado di comprendere il reale costo ecologico dei processi produttivi rispetto al sistema vivente, perché solo attraverso l’energia i processi sono interconnettibili. Ho trovato questo concetto di energia e il cambio di prospettiva che porta con sé – che risale ormai alla fine degli anni ’80 – un colpo di genio, una chiave di lettura nuova che apre un orizzonte di comprensione pratica del mondo più complessa, molteplice e articolata. In Sentire e scrivere la natura viene messa in luce la novità di questa concezione. Tuttavia ho avuto anche la sensazione che questo concetto di energia come continua trasformazione rappresentasse uno dei “fili rossi” che percorrono e collegano insieme l’intera riflessione del libro, una chiave di lettura che permette di considerare la molteplicità delle autrici e degli autori trattati non come un insieme frammentario ma come le “forme” temporanee che il rapporto di pensiero dell’essere umano con la natura ha assunto. Chiara, vorrei chiederti cosa pensi di questa mia interpretazione.
Chiara Zamboni: prima della tua domanda non avevo pensato che in effetti il concetto di energia, che Laura Conti mette al centro come chiave per leggere i fenomeni del cosmo nel suo insieme, è qualcosa – un’intuizione – che mi ha guidato nello scrivere il libro. Non ridico quel che hai già detto sull’energia nel nostro cosmo. Dico solo che Laura Conti ha formulato interventi politici in parlamento per favorire quelle azioni che possiamo compiere che siano aggreganti di energia e ostacolare tutto ciò che porta alla degradazione dell’energia. Potremmo valutare ad esempio il progetto politico dei Verdi in Germania oggi con questi parametri. Ora, in effetti nel libro ho valorizzato tutte quelle figure che fanno riferimento a una energia in divenire, natura naturans nel suo essere generante, dinamica. Così in Zambrano penso ai semi di luce generanti nella natura. Hanno a che fare con la parola vivente che ha questa capacità di mettere al mondo, e hanno a che fare con una ragione materna. In Merleau-Ponty mi riferisco ad esempio alla figura della deiscenza: cioè la realtà in divenire è come un frutto che si dischiude e i semi si diffondono. In Ortese sono le cose stesse ad essere in continuo divenire, in trasformazione, mai identiche a sé stesse. In questo senso l’energia aggregante, generante, è uno dei fili conduttori del libro: la natura naturans nel suo movimento di dischiudere, fiorire, iniziare sempre di nuovo. Dove le stesse cose e noi siamo presi da questo movimento. Da questo divenire.
Caterina Diotto: mi ha colpito molto anche il concetto del sentire, che introduci fin dalle prime pagine. «Sentire è più del percepire. Succede quando si avverte che il fatto percepito è onirico e in divenire. Quando nel percepire insistono il passato e il presente avviato al futuro. Mi riferisco all’esperienza comune per la quale in questa erba secca dell’estate sentiamo l’odore dell’erba secca di altri luoghi e altri anni passati e che verranno. E quando la casa di oggi è anche la casa sconosciuta incontrata nei sogni» [6]. Leggerlo mi ha fatto ripensare a una frase di Ingeborg Bachmann nella prima conferenza delle sue Lezioni di Francoforte, che hanno il titolo collettivo di Letteratura come utopia: «Nel migliore dei casi, al poeta riusciranno due cose: rappresentare, rappresentare l’epoca sua, e presentare qualcosa per cui il tempo non è ancora venuto» [7]. In questa frase Bachmann racchiude per me l’anelito trasformativo e politico della letteratura, la capacità di presentare qualcosa per cui il tempo – che interpreto più come il tempo della codificazione simbolica della cultura – non è ancora venuto. Qualcosa di nuovo, che non si è mai detto prima. Ma come si fa a dire qualcosa che non si era mai detto prima, dove si fonda questa capacità trasformativa dell’arte? Quest’apertura all’inatteso, che ha una forte valenza politica oltre che conoscitiva? Se questa apertura non fosse possibile, vorrebbe dire che siamo in grado di guardare solo indietro, mai avanti. Allora molti hanno già scritto di questa capacità dell’arte, ma raramente si è parlato del come questo sia possibile, come avvenga, dove si origini. Leggendo Sentire e scrivere la natura ho pensato che il concetto di sentire potrebbe costituire una risposta a questa domanda perché rappresenta una condensazione, un intreccio di rimandi fra elementi consci, inconsci, reali e onirici, passati e presenti “avviati al futuro”, come scrivi. Vorrei chiederti se ti riconosci in questa interpretazione.
Chiara Zamboni: per risponderti partirei dalla scrittura. È centrale nel libro la scrittura in rapporto al sentire. Ho fatto riferimento a quelle scritture letterarie e filosofiche in cui la lingua adoperata è materna, poetica e accompagna le cose. Le cose tendono ad esprimersi e la lingua prende e rilancia tale espressione. Le cose si mostrano quasi balbettando nella tensione ad esprimersi. Ogni cosa ha risonanza. Ad esempio, se sovrappensiero tamburelliamo sul tavolo, il tavolo risponde alle nostre dita con il tatto – è elastico – e risuona di piccoli suoni ritmici. Quando sentiamo in questo modo il tavolo – il tavolo che risponde al tatto, che risuona nel tamburellare, che è nel tempo e si trasforma – siamo dentro una relazione viva con il tavolo, molto diversa dalla percezione oggettiva. Infatti diciamo che sentiamo il tavolo nelle sue risposte al toccarlo. In più la relazione tra me e il tavolo è tessuta di inconscio. Un inconscio che qui intendo come qualcosa che fa parte integrante della nostra partecipazione al mondo e alle cose. Dunque un inconscio non rimosso, ma un inconscio che fa tessuto, legame tra me e le cose. Tra me e le altre e gli altri. Sappiamo che i sogni, che sono la porta principale dell’inconscio, ci fanno entrare in case dove ci sono tavoli che conosciamo, ma che hanno un’atmosfera inconsueta. È lo stesso per le città che abitiamo. Ci svegliamo e ci chiediamo: che vorrà dire quella atmosfera nella città di sempre, ma altra dal solito? Era la città che conosco bene, ma perché era così diversa? Sentiamo che c’è il presentimento di qualcosa. L’imminenza di qualcosa che sta per avvenire. Le esperienze più vive della realtà mostrano più facilmente questa atmosfera inconscia, che pure c’è abitualmente. Ci mettono sul chi vive. Qualcosa sta per accadere, che l’esperienza segnala. È il pre-sentimento, il sentire prima che qualcosa diventi conoscenza. È segnale, traccia di futuro molto prossimo. La scrittura poetica – sia letteraria sia filosofica – non solo accompagna le cose ma riprende il loro gesto di significare, di dare un segnale, una traccia. Perché non è una scrittura soggettiva rispetto a una cosa da descrivere oggettivamente. E dunque, alcuni testi di Bachmann fanno proprio questo: riprendono la dimensione inconscia delle cose, l’aspetto per cui le cose alludono, danno segnali, attirano la nostra attenzione per significare qualcosa di presente e allo stesso tempo imminente. Ma non solo Bachmann, ovviamente. Mettersi in sintonia con questo modo di sentire le cose, legato all’inconscio e al linguaggio poetico, richiede un altro paradigma, che metta da parte la disposizione soggetto-oggetto e dove la ragione ha radice nel sentire attraversato dall’inconscio. È questa una delle principali scommesse del libro.
Laura Minguzzi: in Luogo eventuale, Ingeborg Bachmann [8] è testimone della malattia di Berlino. Può vedere e mostrare l’inquietudine della città, la sua difformità. La costruzione del muro taglia l’est dall’ovest della città, operando una violenza che incide gli animi. Il nodo essenziale è che essi negano questa ferita, non la vedono. In questo passaggio è già racchiuso il nucleo filosofico più importante del testo. Ogni accadimento è degno di attenzione, l’io che scrive non è più un soggetto contrapposto alla storia. Il mondo è mostrabile a partire da un io che non offre alcuna prospettiva identitaria ma si fa specchio di un esterno in divenire, le cui forze lo attraversano. Da un lato l’io si fa specchio della realtà. L’io si fa nulla, si scioglie nella realtà e dall’altro si differenzia e ne fa conflitto. È un paradosso tipico del linguaggio mistico ma lo si sperimenta anche quando si vuole parlare della natura. Lo stile di scrittura che segue è la strada per far vivere a noi lettrici e lettori una città malata dall’interno, folle in quanto nega la realtà e si trincera in un’armonia fittizia… La percezione per il lato inconscio del sentire porta con sé strati naturali e storici intimamente connessi.
Anna Maria Piussi: questo è un filo di interesse che ho seguito nel percorrere il libro e che rimanda a scritti precedenti di Chiara, in particolare al saggio Sentire, nel libro collettaneo da lei curato La carta coperta [9], ma anche alla messa a tema dell’inconscio come passaggio ineludibile per l’articolazione di nuove vie simboliche e politiche, in lavori anteriori. Proprio nel periodo di uscita di Sentire e scrivere la natura, mi stavo cimentando sul “sentire” e “scrivere” come questioni epistemologiche e politiche. E questo, in particolare, mentre curavo l’edizione italiana di un libro dal titolo Segnali di vita [10] di un’autrice argentina impegnata a sperimentare forme di pensiero e di scrittura in grado di far sentire con tutti i sensi l’accadere delle cose, i movimenti trasformativi di sé e del mondo della scuola, nel dare conto pubblicamente, ma non convenzionalmente, di pratiche educative innovative da lei attivate insieme con altre. Da anni, non da sola ma con altre, sono alla ricerca di un linguaggio e di una scrittura che mostrino, non dimostrino, l’evidente, quell’invisibile che emerge alla visione quando l’esperienza si allarga e si intensifica grazie all’attenzione fluttuante, al sentire tra conscio e inconscio. Linguaggio e scrittura che restituiscano al mondo degli scambi umani – in primo luogo l’educazione e la formazione, ma anche la politica – la consistenza di un reale vivo, trasformativo, in divenire, nei suoi lati di luce e di ombra, comunque non oggettivabile in descrizioni, spiegazioni, interpretazioni. In modo da far sentire e far vivere in presa diretta gli accadimenti da parte di ascolta o legge, attivandone il desiderio di mettersi in gioco nel divenire del tessuto visibile e invisibile del mondo, ma senza cadere nel mito ingenuo dell’immediatezza e della naturalità, che, come nota Chiara soprattutto a partire dalla “seconda” Ortese, alla fine coincide con il già codificato nei significati dominanti. Da tempo anche nelle scienze umane si va affermando il paradigma ecologico, della complessità, che si proclama centrato sulle interconnessioni, ma spesso scade in un razionalismo riduzionistico, dimentico della necessità, per il soggetto conoscente e pensante, di una sperimentazione esistenziale, di quella trasformazione che consenta di riconoscere i propri legami con il mondo, di essere appartenenti al e dipendenti dal sistema che si intende conoscere (e che mai è del tutto oggettivabile e spiegabile), a partire dal radicamento nel corpo sessuato anche nel suo lato inconscio e onirico. Se il sentire con tutti sensi e con attenzione coinvolta, amorosa e aperta alla presenza delle cose, delle persone e del mondo, è la via previlegiata di quel realismo onirico nel conoscere e nel “sapere con tutta l’anima” prossimo all’esperienza femminile, che procede per risonanze secondo una ragione poetica di matrice materna (v. María Zambrano), questo sentire si accompagna a una dislocazione simbolica ed esistenziale anche nel linguaggio: da qui la necessità di trasformare la relazione che abbiamo con la lingua, trasformando la lingua stessa. Prendendo le distanze da una relazione strumentale con le parole, hai fatto riferimento all’“ecologia della lingua” di cui parla Anna Maria Ortese in Corpo celeste: una cura della lingua necessaria alla precisione dell’esprimere, ma attenta a non perdere né il sentimento dell’insondabile né il logos della singola cosa nel suo divenire. È per questo che fin dalle prime pagine del tuo libro (e senza spiegazioni: da qui lo spaesamento iniziale!), troviamo una costellazione e una moltiplicazione di nomi e di figure come terra, suolo, cose, natura, mondo, vita… non del tutto separate ma neppure intercambiabili; e che solo a un certo punto della lettura riconosciamo essenziali a quel tuo linguaggio laterale che nella scrittura costeggia il fluire delle questioni da te vissute e pensate (senza mai pretendere conclusioni definitive), e ci chiama a spostamenti del pensiero mentre ci rivela l’inquietudine di una ricerca a cui ci inviti a partecipare?
Chiara Zamboni: sì, ho cercato di evitare le definizioni del tipo “questo è il significato di Terra”, “questo è il significato di mondo”, “questo è il significato di Natura”, “questo è il significato di vita”. L’ho fatto consapevolmente. Sono concetti che si rimandano l’uno all’altro in una costellazione, dunque sono legati, ma non sono sinonimi né interscambiabili. La Terra rimanda alla solidità del passo che vi cammina con fiducia; la natura a qualcosa di generante a cui possiamo fare singolarmente riferimento per continuarne l’opera; il mondo al nostro stare in relazione e così via. Ognuno ha una sua tonalità, per cui non sono sinonimi, ma prendono significato gli uni dagli altri. Ho trovato anche molto interessante proprio quello che tu riferisci di Ortese: l’invito ad una ecologia delle parole sullo stesso piano di una ecologia del vivente. Attenzione alle parole come a tutti gli esseri. Quando parla di ecologia delle parole, Ortese non intende una esattezza rigida, ma un’esattezza che è tale perché si adatta al divenire delle cose e dei contesti. Non a caso proprio lei usa tante parole diverse per dire di certe cose, perché sono le cose a cambiare continuamente, ad essere in divenire. L’esattezza nasce dall’essere fedele ai cambiamenti dei contesti.
Laura Minguzzi: è significativo che Ortese sostenga che l’amore per la natura è ponte per il paziente lavoro della cultura che lega cosmo ed essere umano. In altre parole occorre paradossalmente curare la lingua, se si ama la natura. E viceversa. Abbiamo bisogno di un’ecologia della lingua. Una lingua impoverita fa smarrire il senso delle cose e dei nomi, la pratica della scrittura aumenta il senso di realtà della Terra. Come è stato già accennato, il pensiero di origine femminista ha duramente criticato il sottrarsi del pensiero razionalista da ogni dipendenza nei confronti della natura e da ogni riconoscimento dei debiti verso ciò che ci ha permesso e ci permette di vivere, la madre prima di tutto. Attraverso “la porta stretta” del riconoscimento di tali dipendenze può avvenire la significazione libera di quel che siamo e sentiamo in rapporto alla natura. La presunzione di pensare di controllare il sistema vivente è effetto della mancanza di riconoscimento del fatto che ne siamo dipendenti. Solo collocandoci dentro al sistema e non all’esterno oggettivandola possiamo comprenderla. Una transizione ecologica si può realizzare se incarnata in ciascuno, ciascuna di noi. Chi è la Terra? La terra siamo noi. Una linea continua tra me e lei, senza contrapposizioni o dualismi intercambiabili o sostituibili. Per far capire il salto concettuale che ci solleciti a fare nell’accostarsi alla natura, tu adoperi un insieme di immagini che viene dalla cultura persiana mazdea e da Zoroastro, che Zambrano conosce bene. Il passo più significativo della concezione della natura a cui questa cultura ci invita, è quello di non chiederci che cosa sia la Terra, ma chi sia la Terra.
Chiara Zamboni: stare alla domanda «Che cos’è la Terra?» ci pone nella posizione di chi vuole conoscere un oggetto e lo descrive. La Terra risulta allora un oggetto di conoscenza e basta. È bene notare che porsi la domanda «Chi sia la Terra?» non significa ribaltare un oggetto in soggetto. Non si tratta di considerare la Terra come un soggetto a pieno titolo accanto ad altri soggetti. Al limite portatore di diritti, come alcune correnti ecologiche affermano. Saremmo ancora nel paradigma culturale moderno dove c’è un soggetto e un oggetto, e dove ci sembra di aver cambiato chissà che portando la Terra da oggetto a soggetto. Invece nella cultura persiana mazdea, una cultura medievale, la Terra porta con sé una forma “immaginale” che esiste da sempre per suo conto e contemporaneamente è in un processo trasformativo che in parte dipende da come noi ci rapportiamo ad essa. È in divenire e chiama noi ad esserci, partecipando alla sua trasformazione. Esiste un circolo tra la Terra e noi. Possiamo tradire questo richiamo oppure possiamo assecondare il divenire della Terra e di tutti i suoi esseri «facendola ancora più bella», come è scritto nei testi mazdei. Proprio perché l’essenza “immaginale” della Terra è sì eterna, ma nel suo divenire ci impegna per intensificare la sua qualità esistenziale. Veniamo coinvolti nella sua trasformazione. Zambrano rende più contemporanea questa concezione attraverso una visione più materialista di quanto non fosse quella persiana medievale. Ma di un materialismo qualitativo dove il Chi è la Terra porta attenzione alla molteplicità delle cose del mondo. Al loro modo qualitativo di darsi. Attraverso il nostro sentire, in cui è coinvolto il corpo, la carne, tutti i sensi (udire, toccare, vedere, gustare). È questo il modo che lei suggerisce per contribuire alla qualità della Terra nel suo divenire, per una trasformazione che dipende in parte da noi e dal nostro coinvolgimento sensibile sensoriale. Emerge una idea di ragione radicata nel sentire.
Mariateresa Muraca: l’attenzione a livelli diversi, compresenti, della realtà, e quindi alla dimensione sognante, onirica e inconscia apre a uno spazio in cui l’essenza delle cose si intensifica ed è possibile cogliere nessi tra creature, che sfuggono ad altre forme di comprensione. Ne scrivi in modo molto bello, quanto di soffermi sul sentire originario che – come spieghi – è un termine intenzionalmente adoperato da Zambrano al posto di inconscio. Scrivi: «In Dell’Aurora Zambrano non richiama, come invece fa altrove, la legge simbolica paterna, che separa e distingue. In questo senso porta la scrittura sulle tracce di un’esperienza sognata e reale allo stesso tempo, in cui ognuno ha una collocazione, che però è misurata da un ordine profondamente diverso dall’ordine della legge. […] Quando tratta della natura come in Dell’Aurora, ne sottolinea l’impronta materna, perché vi è alluso un ordine, che non ha bisogno della legge dell’individuazione. È nel tessuto simbolico materno che il limite tra l’onirico e il sogno è poroso, e per questo è possibile un va e vieni tra l’umano e le cose, tra l’essere umano e l’animale, il vegetale» [11]. L’attenzione per la dimensione inconscia quindi consente di mettere in luce l’asimmetria femminile, come il di più del pensiero delle donne rispetto al riconoscimento delle interconnessioni proprio dell’ecologia. Queste connessioni, infatti, sono espresse e significate dalle donne con uno «sguardo altro, sostenuto dagli aspetti fantasmatici, inconsci, che […] sperimentano con il corpo. Il corpo non è mai davvero “proprio” ma in relazione alla madre alla nascita e al rapporto con altre donne. Il corpo nella generazione. Un corpo aperto costitutivamente all’altro. Infinitamente. Tra simbolico e immaginario» [12].
Chiara Zamboni: è importante avere molta attenzione a una dialettica da trovare sempre di nuovo tra il discorso ecologico, che vede giustamente interconnessioni e relazioni di cui noi facciamo parte, da un lato, e dall’altro l’esperienza femminile di queste interconnessioni. Noi non parliamo di queste interconnessioni del sistema come fanno gli ecologisti cioè come se si guardasse la terra da fuori, da un pianeta lontano. Come se ci si potesse estraniare dai legami contingenti che abbiamo con questo grande tessuto di interconnessioni e vederlo come se fosse un grande oggetto visto dall’alto. Perché ciò che caratterizza il nostro discorso è che, proprio perché ne facciamo parte, ne parliamo dall’interno, a partire dalla nostra posizione. Noi sentiamo le relazioni, e in questo sentire tutto il nostro corpo è coinvolto, tanto è vero che si parla impropriamente di “nostro” corpo perché in realtà è aperto agli altri, alle cose, e questo proprio fin dalla nascita, perché siamo venute e venuti al mondo in relazione alla madre e il processo di soggettivazione avviene a partire da questa relazione iniziale costitutiva. L’esperienza femminile è particolarmente legata al corpo, al suo lato inconscio attraversato da fantasmi e sogni e dai fili invisibili che ci legano agli altri e alle cose. Restando fedeli al corpo, si è fedeli ad una soggettività femminile che si rapporta al mondo con le sue interconnessioni a partire da sé e non dall’esterno, solo guardando il sistema di connessione come oggetto. Come abbiamo imparato nelle pratiche femministe a parlare del nostro corpo soggettivamente e tenendo conto del nostro sentire, così occorre tenere sempre ben presente il filo di questa esperienza soggettiva della natura e del cosmo, per non perdere la qualità in più della nostra conoscenza. E la scommessa sta proprio nel mostrare che non si tratta allora da parte delle donne di relativismo soggettivo, né di chiusura in una identità. Anzi, l’opposto. Perché il sentire fa risuonare i legami con il mondo mettendo in campo conoscenza, percezione e inconscio. Molto di più e di più complesso della semplice conoscenza oggettiva.
Laura Minguzzi: ti pongo anche una domanda sull’autorità femminile. Il sentire è ciò che ci mette in rapporto con l’esperienza, che è potenzialmente significante, e che però ha bisogno di essere dipanata per divenire simbolica. Affinché l’esperienza si dispieghi nel discorso c’è bisogno di assumere autorità per poter dire alcune cose lasciando in silenzio altre, per sapere cosa dire e cosa tacere, dato che l’esperienza è un bene fragile, che può essere distrutto sia interpretandola senza residui, come se non avesse niente di enigmatico, sia distorcendola in significati che la tradiscono.
Chiara Zamboni: il sentire è al centro di questo libro. È il sentire con tutti i sensi, attraversato dalla dimensione onirica, inconscia. Noi sentiamo quando un’esperienza che ci accade è per noi fondamentale, rivelativa. Porta con sé qualcosa che ci attira e che non conosciamo in anticipo. Per questo ha qualcosa di enigmatico. Anche le esperienze più semplici e più evidenti lo sono. Tutte le pensatrici che ho coinvolto in questo libro, ne sono consapevoli. E ci offrono vie per capire come trovare le parole per dire un’esperienza senza tradirla. Portarla a discorso senza distruggere il nucleo enigmatico di verità che un’esperienza che ci accade porta con sé. Tutte sono impegnate in questo, ma non parlano di autorità, che pure mi sembra necessaria. Infatti dire la verità di un’esperienza significa contemporaneamente sottrarsi alle interpretazioni dominanti che già circolano sull’esperienza. Ne ha parlato Luisa Muraro in Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia. È un tema molto importante nella prospettiva politica della libertà delle donne. Salvo eccezioni, le donne trovano in altre donne l’autorizzazione a dire la verità di quel che sentono. È per questo che è ed è stato così importante il femminismo. So che è stato nella politica delle donne che ho trovato l’autorizzazione a trovare le parole per dire l’esperienza.
Anna Maria Piussi: nel libro tu discuti sia anche di posizioni esplicitamente femministe (v. Rosi Braidotti), che riducono anche la vita umana a zoe, intesa come “forza dinamica della vita in sé, capace di autorganizzazione”, forza trasversale che supera gli storici dualismi culturali e consente la pensabilità di un egualitarismo zoe-centrato come nucleo della svolta postantropocentrica. La vita biologica, potenziata e allargata dalle tecnologie, diventa in quest’ottica unica misura dell’umano. La concezione di vita come potenza autonoma e anonima, immanente e in trasformazione, avvicina Braidotti agli antispecisti, che pur riconoscendo le diversità tra specie, le collocano tutte, anche quella umana, indifferentemente nel grande alveo della vita animale. Ne parli in alcune pagine del libro, ma mi piacerebbe qualche approfondimento da te, anche in forza dei risvolti politici di tali posizioni.
Chiara Zamboni: mi ha molto colpito che alcune posizioni femministe contemporanee portino l’attenzione alla vita, ma intesa come vita anonima, impersonale, biologica che risulta interpretante di tutte le forme di vita e le riduce a questo unico piano. Mi ha colpito anche che esse affermino che la posizione della donna è più vicina a questa vita biologica proliferante, perché una donna è coinvolta in una generazione anonima della vita, nell’esperienza della maternità. Si tratta di un proliferare di materia vivente, che si differenza al suo interno ma sempre su base biologica. Questa riduzione della donna e della maternità al puro aspetto biologico, alla pura vita senza specificazioni, è vicina alle posizioni antispeciste, che fanno dell’essere umano e di tutte le altre specie qualcosa di appartenente alla pura vita animale, in quanto viene privilegiato l’aspetto dell’essere corpo tra altri corpi. Le differenze sono ridotte a corpi in divenire. Per queste concezioni tutto è vita, tutto è corpo. In modo indistinto. Le differenze vengono sminuite. Ma, noi sappiamo che la realtà delle differenze è invece fondamentale. Iniziamo dagli esseri umani. Sappiamo che nella gestazione la creatura che viene al mondo ascolta ancora prima di nascere la voce della madre e la sua lingua. Quindi l’essere umano nasce con un corpo segnato dai suoni della lingua materna. Ma pensiamo anche agli animali. Ogni specie ha forme di espressione simboliche e linguistiche molto variegate. Basta leggere un po’ di etologia, ma molto meglio avere un rapporto di amicizia con alcuni animali. Si pensi ai nostri gatti o ai nostri cani. Così anche le api hanno forme simboliche di comunicazione tra loro molto articolate. I delfini hanno un linguaggio giocoso tra loro e anche con gli umani. Fatto anche di finte e di inganni. Io penso anche proprio alle cose, che sono pure corpi in divenire. Nel libro parlo delle cose, dei loro modi singolare di mostrarsi. Chi è attento alle cose, fa attenzione alle forme diverse con cui si espongono allo sguardo, all’udito al tatto. Certo, occorre cambiare il modo di intendere il sentire. Ma pensiamo ai venti. Ognuno di loro ha un modo di risuonare. Ognuno con un loro suono specifico. Lo scirocco è un vento umido, pieno di profumi, denso, trasformatore. Il vento di nordest suona in modo diverso tra le case, perché altra è la direzione che prende rispetto allo scirocco, e suscita allegria. Le cose, toccate, creano esperienze diverse. Quello che vorrei suggerire è che esiste una molteplicità di piani d’espressione non solo umana. Dunque certo siamo corpi, ma corpi che portano al mondo forme simboliche di espressione diverse. Cancellare il piano dell’espressione simbolica a favore solo del corpo è molto pericoloso per tanti motivi. Tra gli altri, allora, non si porta attenzione a come adoperiamo il linguaggio, che può degenerare. C’è un campo di conflitto simbolico e politico su questo all’interno stesso del femminismo ed è bene avere chiari i termini della questione.
Riferimenti bibliografici
Bachmann I., Luogo eventuale, SE, Milano 1992.
Bachmann I, Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, Adelphi, Milano 1993.
Conti L., Questo Pianeta, Editori Riuniti, Roma 1982.
Conti L., Ambiente terra. L’energia, la vita, la storia, Mondadori, Milano 1988.
Punta T., Segnali di vita. Diario di bordo dalla scuola, edizioni Junior, Parma, in corso di pubblicazione.
Zamboni C., Sentire e scrivere la natura, Mimesis, Milano 2020.
Zamboni C. (a cura di), La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe, Moretti & Vitali, Bergamo, 2019.
Note
[1] L’occasione per questo dialogo è stata offerta dalla presentazione del libro presso la Libreria delle donne di Milano il 24 aprile scorso.
[2] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, Mimesis, Milano 2020, p. 58.
[3] L. Conti, Questo Pianeta, Editori Riuniti, Roma 1982.
[4] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, op. cit., pp. 127-128.
[5] L. Conti, Ambiente terra. L’energia, la vita, la storia, Mondadori, Milano 1988.
[6] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, op. cit., p. 11.
[7] I. Bachmann, Letteratura come utopia. Lezioni di Francoforte, Adelphi, Milano 1993, p. 28.
[8] I. Bachmann, Luogo eventuale, SE, Milano 1992.
[9] C. Zamboni (a cura di), La carta coperta. L’inconscio nelle pratiche femministe, Moretti & Vitali, Bergamo, 2019.
[10] T. Punta, Segnali di vita. Diario di bordo dalla scuola, edizioni Junior, Reggio Emilia, in corso di pubblicazione.
[11] C. Zamboni, Sentire e scrivere la natura, op. cit., p. 109.
[12] Ivi, 67.
(Educazione Aperta – Rivista di pedagogia critica n. 9/2021, 15 maggio 2021)