Il 22 giugno 2019 è stato presentato a Milano in Libreria delle donne il libro Femminismo giuridico, edito da Mondadori Università, 2019, a cura di Anna Simone, Ilaria Boiano e Angela Condello, anche autrici del testo con altre. La discussione si è svolta guidata da Lia Cigarini, che ha coinvolto le altre giuriste e il pubblico presenti al circolo.
Introduzione di Chiara Calori
Ringrazio per l’opportunità che mi è stata data di addentrarmi in questa lettura: da laureanda in giurisprudenza, nello specifico in filosofia del diritto, ho avuto come principale difficoltà nei miei studi quella di dovermi confrontare con concettualizzazioni del diritto molto astratte, sia nel caso di quelle più tradizionali e più o meno superate, sia nel caso delle nuove elaborazioni, presentate come sovversive di quelle precedenti ma poi in fondo molto simili alle prime. Questo libro si pone anch’esso come radicale riflessione sul e tentativo di ripensamento del diritto ma, come vedremo, non finirà per tradire le sue intenzioni.
Da queste prime note emerge che è sentita un po’ ovunque l’urgenza di ripensare il diritto, ma ciò che forse permetterà a questa strada di funzionare al contrario delle altre è l’aver ben chiaro il contesto nel quale ciò deve avvenire. Qui in questo luogo – la Libreria delle donne di Milano – lo si è detto e ripetuto più volte nell’anno passato, e lo si continua a dire: è in corso un cambio di civiltà, e il paradigma ‘diritto’ non può restare invariato ma anzi va “rivoltato come un calzino”, come dicono le autrici nell’introduzione (p. 5). Parlare di “femminismo giuridico” significa precisamente questo, mettere totalmente in discussione il concetto e il modello giuridico, a partire da coordinate precise: come punto di partenza la differenza sessuale, il fatto di essere nata donna (o uomo), che è rilevante nel pensare il reale, diritto compreso, e permette di evitare di cadere nella trappola del pensiero unico o universale, presentato come neutro quando invece è sessuato ed ha come modello di riferimento l’“uomo, adulto, bianco, sano, etc …”[1]. Il punto di arrivo, inteso come méta verso cui si tende, è altrettanto preciso, ed è la libertà femminile.
Le autrici illustrano bene nel libro che tipo di diritto emerge da questo approccio, io mi limiterò qui ad esporre la struttura del testo, per esplicitarne poi quei passi chiave della loro riflessione che mi hanno molto colpito.
Il libro è strutturato nel modo seguente: nella prima parte i saggi riflettono sul rapporto tra diritto e femminismo a partire dall’interazione di alcuni concetti, come nei capitoli “Diritto/Diritti/Giustizia” o “Cittadinanza/Frontiere” (scritti rispettivamente da Anna Simone e da Ilaria Boiano), mentre la seconda parte è composta da saggi che riflettono su quel rapporto a partire dal pensiero di una specifica giurista e femminista contemporanea, come ad esempio Lia Cigarini e Silvia Niccolai, la prima fondatrice insieme ad altre della Libreria delle donne di Milano e grande pensatrice nell’ambito giuridico e in quello della politica delle donne; la seconda docente di diritto costituzionale presso l’Università di Cagliari e importantissimo e prezioso incontro per la Libreria, le cui frequentatrici (e frequentatori) sono state in più occasioni accompagnate da lei nella riflessione su questioni importanti, come la maternità surrogata e la prostituzione.
Passando ai contenuti del libro, ciò che colpisce è innanzitutto l’approccio al diritto, affrontato da quella ben definita dalle autrici come una prospettiva ‘ariosa’, che estende lo sguardo anche a ciò che non è tradizionalmente considerato inerente al diritto. Qui ho percepito come massima la divergenza rispetto allo stile accademico, che procede esattamente all’opposto: l’idea alla base è che il sistema giuridico sia un tutt’uno bastante a sé stesso, e che il ragionamento ad esso relativo da lì parta e lì finisca. Ci sono dei tentativi di apertura, per esempio ad opera di una corrente chiamata “neocostituzionalismo”, che prova a rendere il diritto permeabile alla realtà cercando un dialogo tra il mondo dei principi e delle regole giuridiche e quello dei valori morali. Ma questa apertura all’esterno è in realtà temuta e, in ultima analisi, falsa, traducendosi in un diritto che si camuffa da morale o viceversa. Insomma, non si esce dal seminato.
Diversamente, nel femminismo giuridico il diritto è collocato in una rete più ampia, che lo mette in comunicazione con elementi apparentemente molto lontani dal mondo giuridico, vale a dire altri saperi e altre pratiche, in primis quelli del corpo e quelle dell’esperienza reale. Così, è impensabile non partire dal corpo per ragionare in termini giuridici sui temi della sessualità femminile e dell’aborto[2], come è necessario restare sul piano concreto per pensare in termini di differenza (sessuale) ed uguaglianza (sostanziale)[3].
Questo è importante non solo perché mette in discussione il diritto in sé, ma anche perché problematizza un altro aspetto, che riguarda la sua materia prima: il linguaggio giuridico, e in particolare la sua recente tendenza ‘totalizzante’, che lo porta a voler intendere e spiegare tutto (o certamente vi aspira). Il diritto è uno dei linguaggi che ci sono a disposizione, le regole giuridiche sono alcune delle regole che guidano la realtà e i rapporti sociali, e nemmeno sono le principali[4]. Mi sono chiesta cosa venga prima, se la dimensione giuridica o l’esperienza concreta, e, mentre vorrei poter rispondere che è la seconda che guida e orienta la prima, mi dico anche che questa è solo una possibilità, e al momento serve di più avere consapevolezza del meccanismo inverso, ossia del portato simbolico del diritto nella realtà. Il simbolico, l’ho imparato qui, è un piano che è in grado di influire sulla realtà, di modellarla anche, per cui è bene indagare le costruzioni simboliche che filtrano dal diritto nella realtà attraverso il linguaggio. Nei saggi del libro si discute, tra le altre cose, del diritto antidiscriminatorio e delle pari opportunità (entrambi elaborazione del femminismo di stato e detti anche ‘cultura giuridica minima’), o della logica della prevenzione in ambito penale: queste sono tutte categorie giuridiche da cui discendono esplicite collocazioni simboliche della donna nella posizione di vittima o soggetto che va tutelato. A questo proposito, segnalo un interessantissimo documentario, a sua volta segnalatomi da Silvana Ferrari, della Libreria delle donne di Milano, su una giudice della Corte Suprema Statunitense, Ruth Bader Ginsburg[5], la quale svela la sottile comunicazione che c’è dietro legislazioni come quelle che regolamentano l’aborto: di fatto una implicita affermazione dell’incapacità della donna di decidere per sé e del bisogno che altri (più spesso che altre) lo facciano per lei. Svelare tali operazioni simboliche è uno degli obiettivi che si sono date le teorizzatrici del femminismo giuridico, in modo da mettere in guardia da ragionamenti suggestivi dotati di una logica apparentemente perfetta, che però non va nel senso della libertà femminile.
Ma è possibile o, prima ancora, desiderabile ricercare la libertà femminile attraverso il diritto? Lia Cigarini osserva come questa si sia realizzata al di fuori delle leggi e prima di queste, quindi suggerisce che è da valutare “di volta in volta l’opportunità o meno di fare ricorso al diritto”[6]. Ci si deve porre rispetto a questo con strategie che possono portare a fare un passo indietro, a chiedere che il diritto interagisca con certe problematiche con l’astensione piuttosto che con un intervento normativo, ed è quello che sempre Lia chiama “vuoto legislativo”. Perché il diritto non è né l’unica né la principale dimensione (e nemmeno, come abbiamo visto, l’unico o il principale linguaggio) dell’esperienza. Questa strategia si è resa[7] e si rende necessaria rispetto ad un diritto che è patriarcale e costruito a dimensione di ‘uomo’, come si diceva in apertura, ma è una necessità anche di fronte ad elementi che non sono definibili una volta per tutte, quali la differenza sessuale o la singolarità delle esperienze, a partire dalle quali si sviluppa la riflessione del femminismo giuridico.
Questa è una prima strategia, ce n’è un’altra, altrettanto se non più ambiziosa: si può cioè aspirare ad un diritto giusto. Come dice Anna Simone nel suo saggio su Silvia Niccolai, “persino la legge può divenire giusta”, e lo diventa per le donne “quando le libera” (p. 146). Qui si realizza la fusione tra libertà (femminile) e giustizia, due elementi che vanno insieme[8] e che rappresentano l’obiettivo ultimo, la méta verso cui tendere, nel pensiero di queste giuriste e studiose del diritto. E che ci riporta al punto di partenza, vale a dire alla necessità di ripensare completamente il diritto. Per concludere vorrei citare un importante esempio di rielaborazione del diritto, proprio a partire dalla giustizia. In Femminismo giuridico essa viene declinata con un taglio estremamente concreto, ricostruita a partire da Aristotele. Io la vorrei richiamare qui con una formulazione analoga nel contenuto, ma a me più vicina perché viene da uno dei miei primi incontri con il pensiero giuridico femminista, avvenuto sempre grazie alla Libreria delle donne di Milano. Elizabeth Wolgast, nel suo libro La grammatica della giustizia (1991), afferma: “(…) ritengo che la giustizia non si possa prescrivere, che non abbia una forma data; è una creatura dei nostri sforzi, della nostra immaginazione, della nostra esigenza. Noi ceselliamo faticosamente delle risposte al male, non per soddisfare qualche immagine preconcetta della giustizia, ma per affrontare le insidie dell’ingiustizia. (…) La giustizia entra nelle nostre parole quando un’ingiustizia o un torto ci portano a reclamarla. La giustizia appare allora come un correttivo indefinito all’ingiustizia, piuttosto che una cosa definibile di per sé”.
Ringrazio
lei, le autrici di questo libro e le giuriste il cui pensiero è lì riportato
per aver fornito a me, come sicuramente forniranno ad altre e altri, nuovi
strumenti per orientarmi nella comprensione, nell’analisi e nella critica del
diritto e della realtà.
[1] Con le parole di Valeria Verdolini, autrice del saggio Devianza/Questione criminale/Sicurezza (p. 74). Anche la nostra stessa Costituzione ricalca la misura maschile: per Lia Cigarini, “il patto costituzionale non è stato sottoscritto dalle donne” (p. 157).
[2] È l’argomento del saggio di Angela Condello, Sesso/Sessualità/Riproduzione, pp. 39-54.
[3] Coppia analizzata nei saggi Differenza/Eguaglianza, di Chiara Giorgi, e Letizia Gianformaggio e l’eguaglianza giuridica, di Angela Condello.
[4] Riprendo qui una delle osservazioni finali del saggio di Ilaria Boiano su Tamar Pitch, la quale “ricorda che “viviamo in un universo di regole di vario tipo”, non solo e neanche principalmente giuridiche, che informano rapporti (anche di potere) e relazioni sociali”, in Tamar Pitch. Differenza, differenze e diritti fondamentali, p. 129. Al riguardo Anna Simone, a partire da Niccolai, ribadisce che il diritto “può diventare un modo [tra gli altri] attraverso cui l’esperienza soggettiva prende parola”, in Silvia Niccolai o dell’esperienza giuridica come esperienza, p. 133.
[5] Alla corte di Ruth (titolo originale in inglese RBG), 2018, regia di Julie Cohen e Betsy West, uscito in Italia a luglio 2019.
[6] Ilaria Boiano su Lia Cigarini, p. 155.
[7] Per esempio nel caso dell’aborto, per il quale alcune femministe italiane chiedevano la semplice depenalizzazione senza l’appesantimento di una sua regolamentazione, opzione che poi alla fine ha vinto.
[8] Anna Simone, sempre parlando di Silvia Niccolai, rileva questa “tensione continua verso un’idea di giustizia in grado di travalicare i confini della legge” (p. 131).
(www.libreriadelledonne.it, 20 settembre 2019)