La discussione è stata avviata da Anna Maria Piussi e Francesco Ragazzi a partire dalle riflessioni pubblicate sulla rivista online di Diotima e su “Non è mai troppo tardi”.
Tra i temi caldi toccati nel corso della discussione: il padre che occupa una posizione seconda, l’importanza della relazione di differenza, la genealogia maschile, il desiderio di paternità…
Francesco Ragazzi: Quello che mi ha colpito di questo incontro è che è una discussione sul padre e, a parlare non sono padri ma una studiosa di Diotima e io che non sono ancora un padre ma un figlio. Penso che questa sia una cosa interessante perché esprime una caratteristica di una paternità contemporanea, cioè questa figura del padre che vuole essere evocata, la vogliamo creare, formare, reinventare e la reinventano proprio i soggetti che non occupano la posizione del padre. Finalmente siamo in un’epoca in cui sono i soggetti, che non occupano la posizione del padre, che chiedono al padre cosa vogliono da lui e in questo senso lo costruiscono. E questa è anche una prima asimmetria interessante in una relazione con il padre, una relazione che in fin dei conti si forma nella domanda, cioè chiedere una relazione asimmetrica in maniera essenziale. Un’altra asimmetria è quella che rappresento e che mi rende scomodo mentre parlo in questa sede, perché in fin dei conti parlo da ragazzo, da giovane maschio a una comunità di donne che comunque ho sempre ammirato a fianco di una professoressa di Diotima di cui ho sempre letto gli scritti e quindi una relazione assolutamente spaesante e asimmetrica. La domanda da cui sono partito è appunto come è possibile una relazione del genere? Una domanda che ho voluto intendere alla lettera cioè come è possibile una relazione tra due generi, come è possibile che un maschio possa stare in una relazione positiva con il femminismo e la filosofia della differenza, come si può sviluppare questo rapporto positivo? La mia risposta, quella che tenterò, è che questo rapporto positivo non può essere fondato se non a partire dalla figura del padre. Prima di parlare di questo però vorrei rispondere a un’altra domanda fondamentale che è: chi me lo fa fare ad affrontare questa relazione vertiginosa? La risposta è un saggio di Wanda Tommasi comparso in Approfittare dell’assenza, libro di Diotima. Si tratta di un saggio che, per la verità, in un certo senso mi esclude e mi e mi esclude come maschio perché appunto delinea molto bene come le donne siano riuscite a smarcarsi dalla storia della filosofia patriarcale creando degli spazi paralleli e delle sorte di nicchia di libertà di pensiero e di azione però nello stesso tempo Wanda Tommasi descrive quello che io ho chiamato peccato originale del patriarcato cioè in un certo senso descrive l’impossibilità per il maschio di uscire dalla relazione patriarcale e dal ruolo padre-figlio patriarcale. Questo avviene persino nel momento in cui un maschio vuole volontariamente allontanarsi da questo tipo di relazione. Wanda Tommasi spiega la struttura con cui il rapporto padre – figlio si sviluppa e con cui si sviluppa all’interno della legge del padre e scrive così: “si può delineare la storia della filosofia come la storia di un conflitto, conflitto dei figli con i padri, cimento mortale per catturare la preda della verità. La figura del conflitto, del cimento mortale, il nome della verità che invade la scena occulta in realtà l’altra mossa che ad essa è inscindibilmente legata, quella che consiste nel conservare il significato profondo di ciò che si vuole combattere e sconfiggere”. E appunto è questo il meccanismo paradossale della legge del padre: è proprio nel momento in cui io uccido il padre, in cui tento di oltrepassarlo, che il padre ritorna come una sorta di fantasma generando quel senso di colpa che Freud descrive nel Complesso di Edipo. E quindi la legge del padre è fondata sulla morte stessa del padre. Ora la domanda è: un uomo che vuole seguire il femminismo e si vuole sbarazzare del patriarcato è costretto a uccidere il padre? E’ costretto ad allontanarsi da quella figura e quindi a ritornare nel peccato del parricidio e quindi diventare patriarcale a sua volta? E questo è un circolo da cui è difficile sfuggire, e quindi in un certo senso capire se è possibile fare una tabula rasa senza commettere quel parricidio. In particolare questo lo vedo nella scomodità della mia esperienza in particolare nella mia esperienza con mio padre che ha sempre avuto un carattere estremamente agonistico e che, in un certo senso, non è riuscito ad insegnarmi le cose che generalmente si insegnano ai figli. Lui è stato portiere semi professionista, io sono assolutamente negato per il calcio, ho sempre rifiutato di praticare con lui quello sport. Non è riuscito a farmi guidare la macchina anche se ha provato ad insegnarmi, non so neanche andare in bicicletta perché la relazione è stata fallimentare in quel caso e quindi in un certo senso ho preferito prendere altri piani e ho scelto la filosofia. Scegliere di fare filosofia è stato uno dei vari esempi di questi piani paralleli rispetto a lui che ho preso nella mia vita e quindi, da questo punto di vista, sono riuscito in un certo senso a staccarmi dal padre però mantenendo scomodità, mantenendo sofferenza, difficoltà. Non è stato un distacco semplice riuscire a muoversi su piani paralleli. Un altro momento in cui un padre simbolico si è affacciato con grande difficoltà è stato il momento della scuola e dell’università in particolare e infatti non sono mai riuscito a trovare un maestro o qualcosa di simile, ho sempre trovato l’ambiente accademico sterile, tutto fondato sull’idea del conflitto, della confutazione quindi ancora una volta su quel mimare la guerra tra padri e figli che è assolutamente patriarcale. In realtà ho sempre avuto dall’altra parte dei fortissimi rapporti con autorità femminili a cominciare dalle mie nonne che mi hanno insegnato cosa vuol dire l’affetto e un affetto soprattutto concreto che è passato per il cibo, per le merende, un rapporto che era contemporaneamente un rapporto con il mondo e con le cose. Penso a mia madre e penso a tutte le maestre che ho avuto e che speravo di avere, in particolare la mia professoressa di liceo o tutte quelle filosofe che sentivo che mi rispecchiavano molto di più e quindi Maria Zambrano e Vandana Shiva. Però anche in questa relazione c’è una forma enorme di scomodità, c’è l’idea che io forse, alla fin dei conti, stia saccheggiando mentre ascolto le parole femminili perché le parole femminili sono frutto di una tematizzazione di una determinata differenza che non è la mia differenza, quindi in un certo senso come occupare un posto che non è il mio e quindi, ancora una volta, sono estremamente scomodo. Quindi, in un certo senso, dovrei avere una lingua biforcuta per riuscire a parlare e fare filosofia a mia volta e si ripresenta il problema come tematizzare la differenza maschile senza essere parricidi perché appunto i due poli sono questi: da una parte la mia professoressa di liceo con cui mi sento in assoluta sintonia, però appunto è un saccheggio e dall’altra parte Wanda Tommasi con il suo saggio che abbiamo visto lascia spazio ma non parla di me perché parla della sua differenza. Quindi da una parte un posto sbagliato dall’altra un posto vuoto da occupare e in questo senso è posto il problema. A questo punto del ragionamento mi trovo in un certo senso solo alle prese con questo parricidio e mi chiedo cosa possa trasformare questa relazione. In particolare penso che questo momento di crisi sia il momento di fare una sorta di epochè, di sfruttare il mio blocco per fermarmi a riflettere e lo faccio in particolare a partire da una figura che è molto cara al pensiero femminile: la figura del ponte che Maria Zambrano descrive come una figura innamorante, una figura che consente l’elevazione dal flusso dell’esistenza e la sospensione dello stato di crisi, riuscire a guardare dall’alto il flusso di esistenza; e dall’altra parte di Virginia Woolf nel celeberrimo passo delle Tre Ghinee e penso che forse gli uomini dovrebbero leggere soprattutto questo passo di Virginia Woolf: “Ci troviamo qui su questo ponte per porci delle domande e sono domande molto importanti. Abbiamo pochissimo tempo per trovare la risposta. Le domande che dobbiamo porci intorno a quel corteo a cui dobbiamo trovare una risposta in quel momento di transizione sono così importanti da cambiare forse la vita di tutti gli uomini e di tutte le donne per sempre. Questo infatti dobbiamo domandarci senza indugi: abbiamo voglia di unirci a quel corteo oppure no? A quali condizioni ci uniremo ad esso e soprattutto dove ci conduce il corteo dei figli degli uomini colti?”
La domanda per gli uomini che a loro volta riescono a salire sul ponte e devono salire sul ponte è ancora più radicale perché non è: vogliamo o no seguire il corteo degli uomini colti, ma è una domanda ancora più radicale: possiamo, ce la facciamo a seguire il corteo delle donne colte o siamo costretti a rimanere sul ponte del parricidio?
Ora un’altra biforcazione. Il problema del padre secondo me è un problema che porterà delle cose positive, negative, degli sviluppi diversi a seconda che venga tematizzato dalle donne e dagli uomini. Infatti vorrei che nella discussione magari le donne presenti dicessero che cosa si aspettano dalla figura del padre, se si aspettano qualcosa. Per me, maschio, sento che è un passaggio obbligato anche nel momento in cui voglio ascoltare la voce del femminismo, del pensiero della differenza, del femminile in generale. E quindi la domanda è: chi far salire sul ponte, perché questa solitudine è schiacciante. Siccome abbiamo visto che il patriarcato si dimostra in quella forma paradossale, nel momento in cui mi ci allontano ritorna, forse è proprio attraverso un paradosso che si può risolvere questo difficile enigma e appunto sul ponte ho deciso di far salire proprio mio padre, la figura che forse sembrava più distante dal fornirmi la soluzione e torno non alla legge del padre, quel rapporto astratto che viene descritto da Freud, Lacan, dalla psicoanalisi, ma torno a mio padre, quello contingente, quello che ho avuto e penso che se è vero che non mi ha insegnato quelle cose che generalmente i padri insegnano ai figli me ne ha insegnato altre. Mi viene in mente per esempio, ripensando al mio rapporto con il calcio, il fatto che lui si è inventato un gioco che abbiamo chiamato palcio che era sempre fatto con la palla ed era formato da regole che solo noi condividevamo. Poi penso a tutte le storie che mi ha raccontato: mi ha letto il Piccolo Principe, che è stato il primo libro che ricordo della mia infanzia e soprattutto si è inventato le storie di Fata Pasticcina che era molto lontano dai soliti cavalieri e delle donzelle addormentate che aspettavano il maschio a salvarle e penso che forse il mio rapporto con la differenza sessuale è passato anche da queste cose. Poi, crescendo, ancora una volta pensando alla relazione che ho avuto con mio padre trovo moltissime esperienze di ascolto, trovo che in fin dei conti è rimasto ad ascoltare tutti i discorsi che gli facevo sulla filosofia, della filosofia che comunque non capiva ma ha deciso di voler ascoltare lo stesso, di provarci, magari malamente. Quindi, in un certo senso, riconosco che mio padre sia stato molto distante da quella figura della legge del padre e qui secondo me sta la differenza perché appunto è riuscito a tentare di rimanere in ascolto dei miei panni paralleli senza tentare di assorbirli, riconoscendo che erano paralleli comunque non per questo rinunciando alla relazione. E quindi in questo senso mi sento di dire che nel rapporto con mio padre ho fatto tabula rasa della legge del padre, ho trovato un padre diverso magari un padre minore con la p minuscola e questo forse mi salva.
La domanda ulteriore è questa: nel momento in cui è solo mio padre che mi porta alla differenza non c’è il rischio che rimanga un caso isolato? Cioè che sia semplicemente il mio che mi porta a superare il patriarcato, a passare al pensiero della differenza? E’ possibile che questa relazione sia privata, che non si faccia mai tradizione? E questo in fin dei conti è un problema, è un problema che un pensiero non si faccia tradizione.
Quello che mi viene da dire è che, in realtà, proprio la distinzione tra il padre della legge del padre e il padre contingente è uno spazio di libertà, uno spazio che in un certo senso, fondando relazioni, fondando relazioni reali, mi fa scoprire tutta una storia di padri con la p minuscola a cominciare dalla figura di Giuseppe. Infatti esiste un dio padre, un dio della legge del padre che in un certo senso si impone nella sua relazione con la donna. Infatti nonostante Irigaray dica che comunque Dio fa una richiesta a Maria, io vorrei vedere chi ha il coraggio di dire di no a Dio. In un certo senso ha una forma di obbligo quella richiesta. Invece Giuseppe è un padre diverso un padre con la p maiuscola, un padre dell’ascolto. Nel Vangelo secondo Matteo riceve la notizia che Maria aspetta un figlio e non riceve la notizia da un angelo, cosa che lo avrebbe rassicurato che non si trattava di un adulterio che era un reato estremamente grave e molto sentito dai maschi dell’epoca e anche dalla nostra. In un certo senso si fida delle parole di Maria e decide comunque di essere un padre anche se il figlio non è suo e quindi in un certo senso riesce a recuperare una paternità differente, una paternità fondata sull’ascolto, sul dono e sull’accoglienza delle parole dell’altro, sulla fiducia.
Continuo richiamandomi a Foucault o Deleuze, che nella tradizione maschile sono riusciti a crepare quel conflitto di padre in figlio. Per chiudere vorrei richiamare altri due casi contemporanei, purtroppo anche tragici, per far vedere come il posto del padre, quel padre simbolico della legge del padre è talmente difficile da occupare che, anche nel momento in cui il patriarcato si fa più forte, c’è comunque quello spazio di libertà che rende il padre non del tutto patriarcale e che quindi permette di salvare la sua figura. Vorrei riferirmi a due casi contemporanei che sono quelli di … e di Benazir Bhutto.
Queste due donne sono riuscite ad ottenere potere autorità a partire da una famiglia e semplicemente perché il posto del padre doveva essere occupato. Il fatto che il posto del padre sia stato occupato in realtà da donne proprio attraverso il patriarcato e la sua volontà di perpetuarsi è la dimostrazione che forse questa legge del padre è talmente grande, talmente alta, difficile, impossibile da riempire che lascia sempre uno spazio di libertà ai padri veri ai padri in carne e ossa che riescono a salvarci e a condurci nell’orizzonte del pensiero della differenza”.
Anna Maria Piussi: Mi interessa questa iniziativa sui padri, non tanto perché mi sono occupata da tempo di questo tema, ma per come è stata avviata e impostata questa iniziativa: le organizzatrici, Sara e Laura sono due donne non della mia generazione e sono in interlocuzione con uomini più o meno a loro coetanei, Marco Deriu e Francesco Ragazzi. Mi interessa questo tipo di interlocuzione perché, specialmente negli ultimi anni, ho sviluppato un forte interesse per quello che fanno le persone più giovani, donne soprattutto, ma anche maschi. Mi incuriosisce capire come quella che io chiamo un’apertura di libertà, che è stata provocata dalle donne della mia generazione e dalla rivoluzione femminile, possa rappresentare un’apertura di libertà anche per le donne più giovani e per gli uomini. Credo che questo sia avvenuto, in parte stia avvenendo e credo che questa sia una grossa scommessa che però può essere già declinata in maniera diversa anche a seconda di come uomini di diverse generazioni, ma anche all’interno della stessa generazione nelle diversità tra loro, vanno a interpretare questa apertura di libertà, l’offerta di un ordine simbolico in cui ritrovarsi. Per me dunque l’elemento di maggior interesse di questo incontro non è tanto la messa a tema della paternità, ma la creazione di un contesto in cui mettere al lavoro, non solo discutere, tematizzare, ma anche mettere al lavoro la differenza sessuale e le relazioni di differenza: relazioni di differenza tra i sessi ma anche tra le generazioni.
Nel leggere, anche se molto velocemente, la relazione del primo incontro, mi è venuta in mente una questione. Ripensando alla storia degli ultimi vent’anni ho l’impressione che l’attenzione su di sé del mondo maschile, o almeno di una sua parte, sia stata in qualche modo stata provocata o almeno catalizzata da questa, che chiamerei la questione dei padri. Ho l’impressione che sia emerso proprio dai padri, o meglio dalla questione dei padri, il nodo della differenza maschile. Se quest’ipotesi di lettura è vera, allora effettivamente il problema che avete posto voi, tradotto in tema di questi incontri, e cioè il posto del padre, ha una sua ragione d’essere e anche una sua forza: ci costringe a pensare un po’ tutti, gli uomini in primo luogo , ma anche noi donne. Mi è piaciuto quando Francesco ha fatto presente che non ci sono qui padri a parlare ma solo un figlio e una madre. Forse quelli che sono oggi i padri veri non si interrogano molto, al più denunciano e reclamano, però ci sono alcuni uomini che si interrogano a partire da sè anche sulla questione della paternità. In generale, è emersa in questi ultimi decenni in maniera piuttosto dirompente la questione del padre e ho l’impressione che da lì poi abbia preso corpo tra gli uomini il discorso della differenza maschile, in parte anche in termini di urgenza di una riflessione su di sè, di ricerca di un luogo simbolico. Perché è vero quello che diceva Francesco: io posso parlare della mia esperienza di ritrovamento di mio padre, di rimessa in contatto con la figura paterna, con il padre reale, però tutto questo potrebbe anche restare un caso isolato, addirittura essere risucchiato nella sfera del privato mentre invece sappiamo che qui stiamo discutendo di altro, stiamo discutendo di come sia possibile fare un salto, un passaggio. Un passaggio che non sia però un salto che separi, ma piuttosto un ponte, come diceva Francesco, tra la relazione contingente storica personale e un ordine simbolico in cui accogliere quello che sta avvenendo in termini di relazioni reali, effettive e affettive, tra figli e padri e padri e figli, ma anche di riflessioni che i figli stanno facendo sui padri, e sulla relazione di questi con i loro padri. Questa questione dell’ordine simbolico è una questione assolutamente importante.
Riferendomi a quello che ho letto del primo incontro, mi ha colpito l’urgenza che Sara e Laura, in particolare, hanno mostrato nel voler trattare questo tema ponendolo, certo, nei termini di quanto il pensiero della differenza, o in riferimento al libro di Luisa, di quanto l’ordine simbolico della madre abbia lasciato fuori campo il padre, e però anche l’urgenza di interrogare questa questione a partire da sé in relazione con i propri padri e in relazione con i compagni, eventualmente i padri dei loro figli.
Qui trovo una differenza rispetto all’esperienza della mia generazione, rispetto me. Riflettendo sulla mia esperienza ho cercato di trarne un sapere. Quando Laura dice “forse è dal desiderio delle donne che un padre può rinascere” capisco che questo sia un desiderio che voi riuscite come donne di un’altra generazione ad avere, a coltivare, a riconoscere in voi. Io devo dire che questo non mi appartiene personalmente, non so quanto appartenga alle donne della mia generazione. Ho avuto un classico padre patriarcale, terribile. Che funzione ha avuto? Quello di rappresentare per me la leva di allontanamento dall’ordine patriarcale, ma in senso oppositivo, di rivalsa, e per un certo periodo questa relazione è stata la matrice delle mie scelte, dei miei comportamenti, perché tutto sommato, pur essendo vissuto in maniera oppositiva, era comunque sempre un riferimento: come dire, la relazione con mio padre, la reazione a lui, ha fatto di me una donna emancipata. Quindi la scelta dell’università, dell’indipendenza economica, e altro, sono stati i passaggi quasi inevitabili per rifiutare un certo tipo di posizionamento dentro l’ordine simbolico del padre, ma in una sorta di corpo a corpo. Poi dopo, con il femminismo, si è aperta per me, come per molte, la possibilità di saper vedere in modo più preciso i miei desideri, la qualità della mia libertà, il senso della mia libertà, le sue condizioni, e quindi ci sono state delle ulteriori evoluzioni. Ma se devo pensare alla relazione con mio padre mi trovo a pensarla così: ha avuto una funzione “positiva” nella misura in cui ha rappresentato l’ostacolo da superare e la leva per andare altrove. E quindi non posso parlare dalla posizione da cui parlate voi, anche se la vostra posizione mi interessa.
La mia esperienza di femminismo, il mio lavoro con Diotima e il pensiero delle differenza mi consentono oggi di stare nella relazione con uomini perché hanno creato quell’intervallo, quello spazio necessario rispetto al corpo corpo in cui stavo dentro, che era piuttosto mortifero; e devo dire che ho avuto un’altra esperienza che mi ha aiutato, le due cose sono andate insieme, non poteva essere una senza l’altra. Ho avuto un figlio molto presto, quando ero una giovane ragazza sulla via dell’emancipazione, e un altro figlio piuttosto tardi, quando già avevo iniziato il percorso politico della differenza: 20 anni di differenza tra le due maternità, e sono state due esperienze completamente diverse. Ho due figli maschi. L’essere loro maschi devo dire che tutto sommato ha facilitato la mia relazione materna con loro, non so cosa sarebbe successo se avessi avuto una femmina. Cose completamente diverse. Ho vissuto specialmente con il secondo figlio la relazione di differenza, l’ho praticata con delle oscillazioni, cadute, ricadute, regressioni, però sostanzialmente sono riuscita a praticarla. Mi ha facilitato il fatto che lui fosse di sesso diverso. Poi c’è stata la questione del padre, perché questi due figli li ho fatti con uomini diversi, ma sempre presenti a modo loro nella vita del figlio. Ad un certo punto, e proprio alla luce dell’esperienza con il primo figlio, mi sono posta il problema di quanto e come fosse importante creare un contesto, una dimensione simbolica, in cui mio figlio, parlo del più giovane, potesse trovare senso nella relazione con suo padre avendo me come madre, me con quello che penso di aver comunicato, scambiato con lui essendo io coinvolta in un percorso di questo tipo, il pensiero e la politica della differenza. Perciò mi sono posta abbastanza presto questo problema di che cosa fare del padre. Che cosa fare del padre, sto parlando del secondo padre. L’ho parzialmente, provvisoriamente, risolto così. Ho capito che era importante che questo padre avesse un posto. Era importante per me, anzitutto ma certo non solo, in termini di necessità: e qui uso il binomio necessità/desiderio perché penso sia una polarità che in qualche maniera dobbiamo tener presente perché agisce nelle nostre azioni, nelle nostre scelte, non c’è mai solo necessità, solo desiderio, c’è una tensione difficile a tenere entrambi presenti. Ho ricordato la necessità, nel senso che non potevo crescere questo figlio da sola per tanti motivi e quindi c’era questo elemento della necessità che so che voi avete discusso nel primo incontro. L’avete discusso interpretandolo in termini di: “andiamo a ribasso se diciamo che i padri servono solo perché sono necessari”, che è un po’ collocarli in una posizione marginale, non proprio interessante, anche umiliante da certi punti di vista. Il secondo elemento della mia ricerca che il padre avesse un posto nella costellazione familiare, nelle relazioni, è stato il fatto che questo era un figlio maschio. Ho sentito che era molto importante che la figura del padre ci fosse e ci fosse nel modo meno peggiore possibile per non osare dire nel modo migliore possibile. E’ chiaro che questo starci, esserci nel rapporto, nella relazione con il figlio in un modo sufficientemente buono è stato mediato da me: credo, nel dire questo, di essere mossa non da un sentimento di onnipotenza, ma di consapevolezza sì. C’è stato un grande lavorio di mediazione, che è stato anche un grande lavoro su di me, di contrattazione tra me e me: si è trattato di stare in bilico, di accettare che fosse così, e, specialmente nei passaggi più difficili, di non avere garanzie e però di starci con maggiore intensità possibile, e con maggiore verità possibile. Questo lavorio di mediazione è una cosa che hanno tentato di fare anche le nostre madri, perché anche mia madre ha tentato, pur non riuscendoci nel modo in cui avrei voluto. Le donne hanno tentato sempre di farlo, l’hanno fatto sempre, pur in un regime diverso da quello in cui ci troviamo oggi. Io avevo l’opportunità di farlo da una posizione di libertà femminile, certo non assoluta, non totale, ma quel poco di libertà che ero riuscita a guadagnare era da spendere anche lì in questa opera di mediazione e devo dire che è stato certamente molto faticoso, ma ho la consapevolezza precisa che i giovani maschi e tanto più gli adolescenti hanno bisogno di una figura paterna che può essere il padre biologico ma anche altro che sia in qualche maniera una figura di guida, di orientamento, per il suo sesso. Voi avete parlato di autorità. Penso sia possibile autorità maschile: un’autorità che non si gioca certo sulla necessità dell’esistenza di una legge paterna, ma su piani ben diversi, alcuni dei quali evocava in fondo Francesco riferendosi alla relazione, o, ancor più, al desiderio della relazione con suo padre.
L’autorità paterna, quei momenti di autorità paterna che io sono riuscita a vedere nella relazione reale, contingente, tra il padre e nostro figlio sono stati effettivamente quelli in cui, messo da parte il fantasma di imposizione della legge del padre, c’è stata da parte sua la capacità effettiva di stare in relazione, momenti rari, ma ci sono stati. Insomma la relazione di un padre con il figlio, la figlia, va guadagnata e costruita giorno per giorno e la relazione d’autorità si dà solo nella misura in cui c’è la capacità da parte di questo uomo, che è padre, di creare spazio all’altro e quindi stare in una relazione viva, asimmetrica e di differenza, con il figlio, la figlia. Questo richiede lasciar cadere tante cose che ingombrano una mente e un animo maschili e appunto lasciare spazio all’altro, perché poi in realtà è anche l’altro, il figlio/la figlia, che orienta e insegna con i suoi bisogni e desideri a fare il padre. Ci deve essere quella che Marco Deriu ha auspicato: una relazione asimmetrica ma non gerarchica o unidirezionale, uno scambio in cui anche i padri siano disposti ad imparare dai figli, prima di tutto a fare il padre. Credo che questo sia possibile a tutte le età: Marco faceva riferimento, partendo dalla sua ricerca, alla fascia adolescenziale, quindi ai padri di figli in quella fascia di età. Però io credo che questo possa e debba accadere in tutte le età.
E penso che il posto del padre non possa che essere un posto secondo, sia dal punto di vista di come vanno le cose nella contingenza della realtà, sia dal punto di vista simbolico. Se non c’è da parte degli uomini padri il riconoscimento della precedenza della madre, precedenza che di fatto c’è e su cui si appoggiano in qualche maniera per potersi costruire come padri, io credo che non possa avvenire la paternità. Come ha scritto anni fa Enzo Siciliano, l’essere padri è un puro evento della mente, non c’è traccia corporea della paternità e questo lo differenzia notevolmente dalla maternità: la paternità si costruisce a livello psichico, di organizzazione psichica, ma soprattutto a livello simbolico.
Questa posizione seconda non è una posizione di marginalità, di secondarietà, e non alimenta necessariamente il senso di superfluità degli uomini, in particolare dei padri. La interpreterei piuttosto come una possibile risorsa, proprio in forza di quello che sappiamo dalla politica delle donne: che venire seconde rispetto a chi ci ha preceduto nell’opera di creazione (di lingua, di mondo…), comunque, oltre che essere qualcosa di reale, una fattualità, è anche una risorsa, un vantaggio. Così ho orientato anche la mediazione nei confronti del padre di mio figlio: “educandolo”, favorendo la sua capacità di apprendimento di alcune cose che io potevo insegnargli, non dico nel registro dell’imitazione – nonostante che l’imitare sia la prima forma di apprendimento, non da disdegnare dunque – ma di facilitazione nella comprensione di alcune cose. Certo c’è stato uno scambio di questo genere tra me e il padre di mio figlio perché avvenisse la possibilità per lui di costituirsi come un padre sufficientemente buono; anche con l’idea del suo posto secondo, con i vantaggi che questo comporta perché non ci sono solo svantaggi.
L’ultima cosa che vorrei dire è il fatto che oggi le relazioni familiari, qualsiasi sia la famiglia, tranne quella assolutamente monoparentale, si giocano molto più che una volta sulla relazione parentale, vale a dire la relazione verticale padre/figli, madri/figli, e non tanto sulla relazione di coppia. L’asse su cui ruota la costituzione della famiglia dal punto di vista reale e simbolico sembra essere proprio questo: c’è da riflettere e interrogarci molto su questa struttura relazionale, oggi venuta allo scoperto. Nel saggio che ho scritto per un libro sulla crisi della natalità (è l’articolo che trovate sulla rivista online di Diotima) ho cercato di mettere a tema questa difficoltà del rapporto di coppia uomo-donna, che è la prima relazione di differenza che andrebbe giocata sul terreno del mettere al mondo, del generare. E’ questa relazione che tiene poco oggi; mentre l’investimento pare esser molto più intenso nella relazione verticale padre/figli anche se spesso più a livello fantasmatico che non sul piano di realtà. C’è un problema della relazione uomo-donna nella dimensione della sessualità, del desiderio, che sembra essere scarso, e questo non può non avere ripercussioni sulle relazioni fra il singolo genitore e i figli.
Ho parlato prima di necessità a proposito dei padri riferendomi alle necessità materiali: se non volgiamo cadere in forme di idealismo, anche queste hanno una loro rilevanza. Ma penso ad altre forme di necessità. Se si vogliono fare figli si possono fare in tanti modi, anche da sole. Però se i figli si vogliono fare pensando e guardando in un orizzonte più grande – al futuro della nostra specie? non sono interessata più di tanto a questo, ma può essere un buon argomento -, è la differenza sessuale che si deve mettere in gioco: dunque non solo guardando alla necessità biologica, ormai non più così stringente, ma molto più alla necessità che un uomo e una donna generino, in una relazione di differenza, oltre ai figli, anche mondo, cultura e possibilmente livelli più alti di civiltà di rapporti.”
INTERVENTI
Stefano Sarfati: “volevo ringraziare Francesco Ragazzi per la sua bella relazione che conoscevo perché avevo letto. Volevo dire qualcosa a proposito del parlare con la lingua biforcuta e sul saccheggiare il mondo delle donne.
Mi è piaciuto molto il tatto che hai dimostrato con questo scrupolo: “posso io che sono un uomo attingere a piene mani a questa ricchezza del femminismo?” Il mio intervento era per dirti in due parole la mia esperienza. Io non ho avuto questo tuo tatto, sono stato molto più disinvolto a saccheggiare, se voglio usare il tuo termine ma non mi piace usarlo e ti dico perché. Una cosa che ho letto e poi ha cominciato far parte del mio orizzonte frequentando le femministe è stato il libro di Luisa Muraro L’ordine simbolico della madre. Sono convinto che l’ordine simbolico è unico è solo quello della madre che è quella che fa i figli maschi e femmine per cui, secondo me, non so se tu hai una sorella, ma se vostra mamma parlasse a te e a tua sorella non è che tu dici “io mi tappo le orecchie perché non posso saccheggiare questo verbo che va di donna in donna”. Poi diciamo che data la asimmetria dei sessi le parole di vostra madre possono risuonare diversamente in te e in tua sorella, che potrà sua volta un domani mettere al mondo, ma queste parole passano e questo secondo me è la cosa più importante ed è stato il centro di una rivoluzione copernicana, quello di dire, di assumere veramente, fino in fondo, che c’è un unico ordine simbolico ed è quello della madre. Perché anch’io ad un certo momento ho cercato dei maestri e non voglio parlare, siccome sono più vecchio di te, come di uno che è già passato, perché ogni storia è diversa però questa è la mia storia. Nel momento in cui ho fatto mio il concetto dell’ordine simbolico della madre ho trovato delle figure di autorità femminile che mi hanno dato agio nel mondo e hanno fatto sentire in me la mia differenza maschile che ha potuto esprimersi con una certa libertà e disinvoltura. Il padre va per la sua strada e diventa, come ne avete parlato voi, il padre con la p minuscola perché contrariamente a quanto dice Siciliano essere padre, e parlo anche qui su un’esperienza concreta di padre di una creatura di tre anni e mezzo, non è un fatto di testa, non è un fatto simbolico, è data dal fatto di cambiare pannolini, di essere presente se mia moglie non c’è…”.
Vita Cosentino: “ho trovato molto interessante la questione posta di possibili genealogie maschili alla fine del patriarcato. Questo punto me l’ha posto tanti anni fa anche Guido Armellini in senso inverso. Cioè lui nei confronti dei figli, quando ormai lavoravamo da qualche anno insieme nell’autoriforma, si era abituato dire “ah questo è maschile” e a tavola una sera i suoi figli adolescenti (ha tre maschi) l’hanno ripreso anche con una certa violenza “ma insomma tu sei nostro padre, se parli così del maschile noi come possiamo starci?” E lì lui l’ha posta a noi delle donne dell’autoriforma questa questione. Sostanzialmente la posizione di Guido era che lui voleva una possibile idea positiva di maschilità per i suoi figli, quindi è sempre questo problema genealogico che emerge. Io però questa questione la distinguerei, perché sul punto del padre ho anche delle perplessità. Sono d’accordo con quello che diceva Anna Maria: il punto centrale è la questione uomo-donna, non l’altra, perché, come ammettiamo benissimo che ci sono donne che non hanno desiderio di maternità e non vogliono diventare madri, c’è anche l’altra questione: ci sono uomini che non vogliono diventare padri, che non hanno un desiderio di paternità. Questo lo dico a rovescio nel senso che ci sono quelli che ce l’hanno. Per esempio mio figlio adesso ha 33 anni e stiamo parlando di tempi di patriarcato, ha avuto secondo me un buon padre, un uomo che aveva desiderio di paternità e che quindi anche se si era in quei tempi lì ha trovato le sue strade. Allora io questo punto del desiderio di paternità che ci può essere o non essere io non lo salterei, ma ho molto più in mente la questione uomo-donna, perché appunto, anche per esperienza personale, non è per niente detto che uno che ha desiderio di paternità stia in un rapporto uomo – donna…sono due piani, io tenderei a tenerli distinti e dare la priorità a quello uomo – donna”.
“Io volevo dire una cosa a proposito della posizione seconda di cui si parlava nell’ultimo intervento – interviene una partecipante – Se l’ipotesi è quella che uomini che assumono una posizione seconda si mettono in una relazione con la propria donna che può diventare fertile, proficua per i figli, su questo ho molti dubbi perché io ho l’esempio di molti padri che assumono la posizione seconda per assoluta comodità e per rinunciare tranquillamente alle loro responsabilità delegando mogli, compagne a indicare la strada che andava percorsa con i figli e con le figlie. Io conosco poco i ragazzi e le ragazze che oggi hanno trentacinque anni. Li conosco perché circolano a casa mia, sono amici di mia figlia e qualcosa vedo ma non ne so più di tanto. Quello che riesco a vedere è che i ragazzi maschi di quell’età tendono, probabilmente per paura, a rimandare il momento dell’assunzione di responsabilità della paternità, creando con le loro compagne conflitti drammatici perché l’età fertile delle donne non arriva fino a ottant’anni. L’altra cosa che deriva dalla mia esperienza e non voglio rovesciarla sui ragazzi è che io ho l’impressione invece che gli uomini possano fare seriamente i papà di figli maschi e i papà di figlie femmine solo se contrattano, se negoziano la loro autorità di padri di volta in volta con coloro che hanno di fronte: figlie femmine che sono una cosa e figli maschi che sono un’altra cosa. Devono cercare nei figli l’autorizzazione ad essere padri e se i figli non gliela danno non se ne fa nulla perché lì è proprio una questione di negoziare molto precisa. Un uomo non è padre finché un figlio non gli dice “sei mio padre”. L’altra volta Luisa Muraro diceva: i padri non esistono, sono quelle figure che la madre presenta ai figli e dice “ecco vostro padre” e una volta ai miei tempi era così. Se oggi vogliamo che non sia più così io credo che la strada sia che uomini che vogliono seriamente essere padri, certo hanno bisogno di una compagna e con questa devono assumere strategie, ma poi se la devono veramente negoziare con i figli.”
“Sono un padre, ho a che fare con parecchi uomini, quindi conosco diverse situazioni. Credo che un uomo nasca nella relazione con un padre se c’è una relazione affettiva – dice un partecipante – . Qui nasce anche un desiderio di paternità successivo. Non credo che nasca dall’amore con una donna, credo che nasca dalla relazione che ha avuto con il padre, se no non è un desiderio, se no è uno status, se no è una situazione che spesso si ha da fare , allora lì diventa il padre strumentale. Ma un padre che vuol essere padre e vuole assumersi l’autorità con i figli è molto facile che abbia avuto un buon rapporto, una buona relazione con il proprio padre. Questo lo so per esperienza mia, come figlio, lo per esperienza mia come padre, lo dico per l’esperienza che ho avuto con altri uomini che hanno vissuto paternità diverse, una figlia acquisita e un figlio naturale quindi anche due situazioni diverse. Sicuramente l’uomo deve decidere di essere padre, e l’uomo è padre nel momento in cui adotta il figlio che sia suo o non sia suo perché la cosa è identica. Io sono diventato padre della mia figlia adottiva che è la sorella di mio figlio quando questa figlia aveva otto – nove anni in un giorno in cui ho deciso di essere padre. Con mio figlio naturale è stato molto più semplice, forse perché è biologico ma ci saranno tanti altri motivi. Volevo ringraziare Francesco della sua relazione quando ha detto appunto che il patriarcato si perpetua nell’uccisione del padre allora io sono di una generazione che il padre l’ha fatto fuori, ma quale padre? Nel 1967 a Torino con l’occupazione di Palazzo Campana c’era scritto: contro l’autoritarismo accademico. Questo è il padre che abbiamo voluto fare fuori, questo è il padre che è morto: il padre che resta è il padre che sa stare in relazione. L’autogoal del patriarcato, e per fortuna che è successo, è quello di essere uscito da ogni relazione: con i figli, con le compagne e con tutto il resto, ha solo guardato l’ordine verticale. I padri che sono rimasti in relazione forse hanno detto e stanno dicendo qualcosa in più, che vogliono entrare in relazione. A proposito di relazione seconda, è giusto dire la relazione seconda, ma ricordiamoci che non è una relazione seconda, è una relazione di differenza, perché se noi parliamo di relazione seconda scateniamo automaticamente una serie di pensieri inconsci che stanno nella svalutazione, che so benissimo che non è questo il caso, ma se lo definiamo in questa maniera ci sono dietro un sacco di guai e dobbiamo spiegare agli uomini che la relazione seconda non è proprio seconda, è seconda ma non è seconda, parliamo di relazione nuova di differenza tra padri e madri.”
Sara Gandini: “io credo che tu abbia toccato un punto che anche l’altra volta era uscito e che inizialmente era emerso dallo scambio che ho avuto nel nostro gruppo di uomini e donne, della stessa generazione. L’ultima volta è nato un conflitto notevole su questa questione del desiderio di paternità, di vivere pienamente la relazione con i propri figli da parte del padre, e cosa capita nella relazione con la madre se c’è questo desiderio. Io ed altre dicevamo che la madre viene prima e con lei bisogna fare i conti, ed è emersa con forza la difficoltà da parte degli uomini di dover passare per la madre, da cui il timore da parte delle donne che il padre scavalchi in qualche modo la madre per avere una relazione diretta. Questa cosa è uscita in modo molto intenso, così io penso che qui ci sia un nodo, una conflittualità fra i sessi che riemerge nella gestione dei figli.
Una cosa mi interessava chiederti, Francesco: tu dicevi che per riuscire a stare qui con noi in questa relazione un po’ scomoda hai bisogno di un padre. Vorrei che dicessi di più. Perché per stare in una relazione con me tu hai bisogno di un padre?”
Francesco Ragazzi: “Parto da quello che lei diceva su mio padre. Forse una relazione più desiderata che reale. E secondo me è un nodo quello del desiderio che è fondamentale. Cioè il padre è costruito dal desiderio e secondo me anche il puntare sulla decisione di essere – non essere padri non è molto vera. Nel momento in cui tu apprendi che avrai un figlio da una donna anche il fatto di dire che non mi assumerò il ruolo paterno, non cambierò i pannolini, non sarò presente, non coltiverò la relazione immagino che sia problematico per l’uomo e quindi bisogna ricordarci che le relazioni difettive, le relazioni di mancanza pongono dei problemi ed è il figlio che decide che quello è suo padre, è il desiderio del figlio di avere un padre che lo crea e lo cerca, in un certo senso fonda la responsabilità del padre anche se questo latita. Prendo anche l’esperienza femminista. C’era un desiderio che attraverso la sua forza è diventato realtà. Nella relazione con mio padre e di mio padre con suo padre, quindi con mio nonno, vedo uno scorrere di desiderio che ha, pian piano, creato una realtà, una realtà diversa che è passata anche tra maschi, non per forza nella mediazione con una madre o non per forza nella mediazione con una donna. C’è stato anche quello. Però quello che ha mosso mio padre, e tento di partire da me e da lui, quello che ha mosso mio padre ad essere un padre differente è stato anche il fatto che suo padre era un padre terribile, un padre che ascoltava le crisi depressive di mia nonna spedendola in clinica a fare l’elettroshock e, nel momento in cui tornava, azzerando la conversazione e rimanendo in silenzio fino tre giorni dopo il rientro di mia nonna in casa. Ed è stata questa sofferenza nel vedere un padre del genere che si comportava in quella maniera anche con lui, quindi un padre silenzioso, un padre assente pur nella presenza che forse anche è peggio, che l’ha mosso. E’ stato questo desiderio a volere un padre diverso che l’ha mosso a essere un padre diverso. Un altro piccolo esempio, un caso clinico che mi ha raccontato la madre di un mio amico che fa la psicoterapeuta. Si tratta di un ragazzo che era stato abbandonato da suo padre e che aveva iniziato ad avere degli episodi schizofrenici. Avevano iniziato a lavorare molto sul rapporto con suo padre per riuscire a ricomporre la personalità di questo ragazzo. Il problema si è risolto nel momento in cui è diventato padre, non nel momento in cui ha conosciuto suo padre. Quindi, ancora una volta, è stato il desiderio mosso da una mancanza, mosso da un rapporto che comunque anche se di assenza rimane un rapporto e rimane anche un rapporto da cui si passa. E proprio da questo riuscire finalmente ad occupare questa posizione di assenza e di occuparla bene che è riuscito, in un certo senso, ad essere curativo, terapeutico per lui e quindi secondo me desiderio e realtà vanno insieme. Il più desiderato che reale a mio modo di vedere è qualcosa che va discusso, il rapporto tra desiderio e realtà anche seguendo quello che è stato il femminismo che ci ha insegnato che il desiderio fonda la realtà. E poi sulla questione della mediazione, sempre a partire da un episodio della mia vita, in questo momento mia madre si trova a dover assistere a sua madre malata di Alzheimer e ha deciso di gestire questa relazione in maniera titanica, cioè decidendo di occuparsene da sola con l’intento di raggiungere la perfezione. Con una malattia del genere, degenerativa, e che ha un determinato decorso è impossibile raggiungere la perfezione, bisogna rassegnarsi a farsi aiutare da figure terze che spesso sono altre donne. Ho litigato con lei nel vedere che voleva far tutto da sola che non voleva sentire ragioni, che non voleva mediare. Nel riuscire a conservare il rapporto con mia madre in questo, riuscirlo a portare su una discussione produttiva, è intervenuta la mediazione di mio padre che, proprio perché ha avuto una relazione con lei positiva, è riuscito a essere padre per me e mediatore all’interno del rapporto con lei. Quindi, in fin dei conti il rapporto, con la differenza, passa attraverso questa serie di mediazioni. Il padre deve avere una funzione di mediazione con la madre per me figlio, così la madre è stata soprattutto nella mia infanzia e adolescenza, in cui il rapporto con mio padre era decisamente più complicato, è stato un elemento di mediazione, in fin dei conti il rapporto tra i sessi è, in quanto tale, mediato è una rete di mediazioni che volendo si propaga all’infinito. Esiste anche un modo specifico per esser un mediatore maschile e questa mediazione serve, è importante, è produttiva, prolifica, almeno lo è stata per me. Vorrei sapere se per voi è esistita questa forma di mediazione. Sulla tua domanda sulla necessità del padre penso che si torna al tema del saccheggio. Non è tanto l’avere paura di mettermi in relazione con la donna in maniera immediata, ma è il riconoscere che ci sono delle posizioni storiche e anche personali che mi portano a pensare che ascoltare il femminismo senza pensare, elaborare la mia differenza, sia un cucirmi addosso dei vestiti che non sono esattamente i miei vestiti, perché non è quello il mio percorso anche se questo percorso lo posso guardare, così come quel percorso parallelo che io ho fatto rispetto a mio padre, mio padre è riuscito ad ascoltarlo. Così il saccheggio non significa non ascoltare e tapparsi le orecchie, significa il passaggio del padre, significa elaborare la propria differenza. Poi se pensiamo al rapporto di assenza come comunque è un rapporto anche se difettivo o al rapporto di risentimento che lei descriveva è stato comunque un rapporto, un lanciarsi verso una figura che forse è assente che forse sbarra la strada, però comunque è stato un passaggio così come è imprescindibile il passaggio con la madre anche nelle sue eventuali assenze o carenze e questo secondo me è legato.”
Laura Colombo: riprendo l’intervento che faceva Vita perché anche a me ha colpito il punto che nominava Francesco di questa necessità di genealogie maschili, in particolare una tua necessità di fondare delle genealogie su quello che resta alla legge. Tu dici, il padre non si esaurisce nella legge del padre, c’è un’eccedenza, un’eccedenza che può essere qualcosa di minuto, di piccolo, di contingente, di ineffabile ma così concreto che io lo vivo e così concreto che mi è necessario, ed è su questa base che mi piacerebbe, ho la necessità di creare genealogie maschili. Anna Maria giustamente diceva che c’è la necessità di un salto in un ordine simbolico e mi aveva colpito, leggendo il tuo articolo, questo passaggio e sono convinta che sia una questione importante. Sono d’accordo con Vita quando dice che il fulcro è la relazione di differenza e secondo me, come diceva poco fa Francesco, e come esce dai nostri incontri nel gruppo misto, è come se non si potesse sfuggire da questa figura del padre che si pone in tutta la sua problematicità. Cioè non si può fare finta che non ci sia e non ragionare sulla relazione di differenza. Non si tratta, come diceva Anna Maria di una generatività semplicemente biologica, si tratta di una generatività di mondo, di cultura, di politica di storia, di civiltà che deve scaturire dalla relazione tra uomini e donne e però la figura del padre è una porta da cui bisogna passare, la sento anch’io come necessità. Invece per quanto riguarda la questione della mediazione di Francesco e la questione di Roberto di non usare il termine secondo, secondo me è molto sintomatica questa cosa. La mediazione non sta nel mettere d’accordo due parti in avversità, problemi con mia madre interviene mio padre, problemi con mio padre interviene mia madre, non è questa cosa. Credo che ci sia un primato che era quello di cui parlava Anna Maria. Una medaglia con due facce, un primato che ti dà una certa potenza, continuità con il corpo, una relazione di un certo tipo. D’altra parte può essere anche distruttivo, pericoloso, fa paura, perché se una donna nella relazione con suo figlio vuol far fuori il padre lo può fare e io ho dovuto fare un lavoro su di me perché il padre di mio figlio potesse fare il padre. E’ veramente una questione di essere secondi ma non perché uno è menomato ma perché è una questione di fattualità, è così nella realtà, la realtà è necessario accettarla. Se c’è questo lavoro di elaborazione e di consapevolezza, non diventa una realtà insensata”.
Luisa Muraro: “mi innesto su questo tema. Volevo raccontare quando la madre del mio nipotino aspettava il secondo figlio ed era visibilmente incinta. Lui aveva quattro – cinque anni, eravamo a tavola, e ha cominciato a confabulare qualcosa perché si vedeva che cercava di far ordine nei suoi pensieri e nelle sue emozioni. Alla fine ci è arrivato, perché mi ha comunicato che questo fratellino nasceva dalla mamma però lui era nato dal papà. Mi ha colpito la maniera in cui la madre gli ha risposto, in una maniera che non concedeva niente. La questione era che prima viene la madre e poi eventualmente il padre. Su questo punto io ho ascoltato l’intervento di quello che si è presentato come mente confusa che invece era chiarissimo. Ho ascoltato quando lui ha chiesto cioè che non si dica secondario ma si parli di differenza. A lui anch’io rispondo come la mamma ha fatto con mio nipote, in maniera che non concede niente: il patriarcato è nato verosimilmente, secondo gli antropologi, dal fatto che c’era questa questione, bisognava quindi riversare la cosa. Basta leggere gli antichi tragici, è stato tutto messo a rovescio rispetto tutto quello che è la fenomenologia e forse le civiltà arcaiche dicevano. Adesso non è che le donne ci tengano tanto ai primati ma è la rassicurazione di cui abbiamo bisogno. Se gli uomini non elaborano la secondarietà della posizione del padre, se non la elaborano io non mi fido”
Anna Maria Piussi: “Luisa ha chiarito quello che prima ho provato a dire. Non è tanto un discorso di porsi in una posizione di marginalità, umiliante, non è questo, ma la questione è diversa e alcuni uomini stanno lavorando tra loro e con donne a partire dalla loro differenza. Stanno facendo emergere questo riconoscimento della madre come primum, come principio della vita e della parola, è un riconoscimento, un passaggio che va fatto e in questo consiste la precedenza, la primarietà. Se non c’è questa elaborazione, questo passaggio che può avvenire anche in altri modi, ci sono tanti modi per arrivarci, se non c’è questa presa di coscienza, questa consapevolezza con relativa elaborazione io credo che allora sì la secondarietà si trasformi in marginalità umiliante. Che è la paura che hanno molti uomini…”
Sul desiderio di paternità: “…che ci sia un desiderio di paternità però lo vedo molto difficile negli attuali uomini 30 – 40 enni, che tendono piuttosto all’incertezza. Lo vedo difficile come desiderio in proprio, non mosso e sostenuto dal desiderio di maternità di una compagna, autonomo nel senso di radicato in sé e a partire da sé.
Dicevo che se non c’è questo passaggio ho l’impressione che il desiderio di cui parli tu finisca per essere un desiderio di tipo compensativo che è molto pericoloso. E’ pericoloso, per una donna ma anche per un uomo, mettere al mondo un figlio per tacitare quella mancanza che in certi momenti della vita si fa presente. Tante volte è stato interrogato il desiderio di maternità e sono state dette e scritte molte cose dagli psicanalisti. E’ stato scritto molto sulle deformazioni del desiderio di maternità ma se si parla di desiderio, c’è da chiedersi desiderio di che cosa.
Sulla questione della genealogia maschile ho l’idea che i giovani maschi abbiano bisogno di figure maschili, non necessariamente il padre biologico, di figure maschili che siano dei riferimenti positivi che poi possano costituire genealogia, non una geneaologia patriarcale ma un’altra.
Sulla faccenda dell’autorità: come dicevo prima, ci può essere autorità maschile, in particolare autorità paterna, se però c’è questa disponibilità a giocarsela sul campo, a guadagnarsela nella relazione. E qui vedo la necessità di un’autonomia maschile, di un processo di elaborazione autonoma della propria differenza sessuale, autonoma rispetto alle genealogie maschili patriarcali ma anche rispetto alle donne, alla compagna madre dei propri figli e più in generale a quanto le donne stanno pensando e facendo a partire da sé. Credo che questo sia un punto importante, perché senza un passaggio autonomo di scoperta, di invenzione di come essere uomini e padri in senso libero, misurandosi in una relazione di differenza con una donna, il posto secondo del padre finisce in una banale secondarietà, si incastra nella dipendenza interminabile dall’altra: cosa che una donna in genere non auspica. Accettare il posto secondo e la mediazione necessaria di una donna non significa accomodarsi nella dipendenza da lei. Penso sia importante la mediazione di una donna perché un uomo diventi padre e faccia il padre, e questo lo ribadisco: è la madre che dice al bambino o alla bambina questo è tuo padre, questo l’ha detto Dolto e l’hanno detto in tanti. Chi è il padre? l’uomo che rende più felice la madre, dice Dolto, è lei che lo elegge, è l'”eletto”, quello scelto da lei. E’ la madre che indica alla creatura piccola il padre e che apre lo spazio del padre. Ma che poi questa mediazione femminile tenda a continuare nel rapporto padre-figlio/a anche quando questo/a cresce, arriva ad età più avanzate, è oggi un fatto legato alla mancata o ancora carente elaborazione autonoma da parte degli uomini di un modo differente di essere-fare il padre, differente dalle generazioni precedenti, patriarcali, di padri, e differente dal modi materni. Non a caso oggi si parla di maternalizzazione della cura e dell’educazione parentale: è la fenomenologia di come stanno andando le cose. Il padre tende ad autonomizzarsi sempre più tardi, cioè riesce a impostare un rapporto autonomo con i figli quando i figli sono in età molto avanzata, per esempio, oppure mai, perché, venuta a cadere la legge del padre, che cosa resta? resta la madre con le sue mediazioni, con il suo esempio, con i suoi insegnamenti…Ecco, io penso che sia necessario un passaggio di indipendenza degli uomini da elaborare dentro la relazione di differenza, indipendenza nel senso di una reale individuazione degli uomini rispetto alle donne.
Questa necessità di individuazione mi sembra urgente proprio a partire dai padri, vedendo quanto i padri sono dipendenti dalle donne per fare i padri, ma lo vedo in generale nella relazione di coppia, in cui gli uomini oggi rivelano molta fragilità. Anche nella sfera del lavoro c’è poca autonomia maschile rispetto alle donne, nel senso che gli uomini -anche se noi ci siamo sottratte in larga misura- continuano ad aspettarsi che facciamo da supporto, che continuiamo a interpretare e tradurre le loro emozioni e i loro desideri, a metterli nel mondo in modo comprensibile e accettabile. Qui io vedo la necessità, nella relazione di differenza uomo – donna, di un passaggio di individuazione non solo dalla madre ma dalle donne quindi anche da colei che è compagna-madre del proprio figlio, e in senso più ampio di individuazione dal punto di vista intellettuale, culturale, simbolico, nel senso che uomini che stanno relazione con il pensiero femminile molte volte si appoggiano troppo al simbolico che hanno creato le donne. Un conto è il riconoscimento di valore, sapere che lì io trovo principi di orientamento che vanno bene anche per me, ma dopo ci deve essere lo scatto personale a partire da sé, perché non si può continuare ad appoggiarsi. Io auspico questo: che il padre emerga come padre sufficientemente buono e desiderabile per i figli e anche per la compagna, proprio nella misura in cui ci sia questo lavorio del singolo su di sé e in relazione con altri uomini che permetta l’individuazione, il sapere dove si sé, da dove si parla, quella autonomia – da non confondere con l’ autosufficienza – che produce lo spazio, l’intervallo, la distanza necessaria tra uomo e donna perché ci sia relazione di differenza”.
Sara Gandini: “sulla questione del venire secondi. Si accennava al fatto che, nella contemporaneità, l’anello debole è la relazione fra i sessi e mentre sembra che anche all’interno della famiglia la relazione principale sia quella fra genitore-figlio. Io credo che lì ci sia un problema non da poco, nel senso che se c’è questa necessità di passare dalla relazione con la madre e non c’è una relazione tra i sessi, il conflitto diventa molto aspro. Se l’essere padre nasce dal fatto che gli uomini non riescano a trovare altre strade di realizzazione, tu nominavi il fatto che c’è un’insicurezza generale, la relazione con i figli può anche trovare senso ma se non si affronta questa questione della confilttualità dei sessi, il come stare in questa situazione di necessità della mediazione materna….. credo che da queste difficoltà nascano le associazione dei padri di cui parla Deriu”.
Anna Maria Piussi:” …e anche le varie disgrazie che si ripetono ogni giorno, tipo il padre che fa fuori la famiglia, la compagna e i figli… c’è un intensificarsi di questa questione maschile, che secondo me dipende dal fatto che le donne non ci stanno più a fare da supporto e da mediazione pacificante. Quindi a un certo punto gli uomini si trovano di fronte alla loro solitudine e incapacità. E’ vero che questo forse c’è sempre stato, ma un tempo c’era un simbolico più strutturante e conveniente per loro, adesso c’è questa fragilità e questo bisogno. Vedo certo il loro desiderio, ma anche il bisogno, e forse più il bisogno che il desiderio: ho l’impressione che in realtà ci sia un misto di desiderio e bisogno di figli e di partner anche perché di questi tempi la sfera pubblica non dà dei ritorni così brillanti agli uomini in termini di senso di sé, di identità positiva e di valore …”.