di María-Milagros Rivera Garretas (Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan)
Intervento introduttivo all’incontro promosso dalla Comunità di pratica e riflessione pedagogica e di ricerca storica Come raccontare ‘ vite infinitamente oscure ‘?
Milano, Circolo della Rosa – Libreria delle Donne, 17 giugno 2006.
La storica Maria Milagros Rivera Garretas discute con Marirì Martinengo, a partire dall’ipotesi contenuta nel libro di Marirì La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone donna ‘sottratta’. Ricordi immagini documenti (ECIG, Genova 2005).
Dal 1985 tengo nella cucina di casa mia un manifesto intitolato “Tutte queste vite, infinitamente oscure, sono ancora da registrare, dissi io… Virginia Woolf” (la frase di Virginia Woolf viene da Una stanza tutta per sé, traduzione italiana in Per le strade di Londra, trad. di Livio Bacchi Wilcock e J. Rodolfo Wilcock, Milano, Il Saggiatore e Garzanti, 1974, p. 281). Ce l’ho messo affinché mia figlia, che allora aveva dieci anni, prendesse coscienza femminista, e perché il manifesto lo aveva fatto un’amica e compagna di università, e io volevo che mia figlia conoscesse la storia dei contesti relazionali delle donne della generazione precedente la sua.
Il manifesto è formato da dieci cartoline di una volta che la mia amica aveva in casa, ereditate dalla sua famiglia. Sono tutte foto di donne sfruttate del Sud del mondo, sfruttate nel lavoro, nella sessualità e nella maternità. Queste erano le donne che allora – vent’anni fa – consideravamo infinitamente oscure.
Quando nel maggio scorso ho riletto il libro di Marirì La voce del silenzio, mi sono resa conto che le vite infinitamente oscure sono, in realtà, le nostre; o meglio, la vita infinitamente oscura è la mia, quella delle donne della mia stessa genealogia, ma soprattutto la mia come storica, la mia – la mia vita – quando scrivo storia.
Questa rilettura del libro di Marirì su sua nonna paterna Maria Massone la associo con la mia esperienza personale della fine del patriarcato. Per anni ho vissuto e inteso la fine del patriarcato nel contesto delle mie relazioni con miei pari in età e condizione: con uomini amici e nemici, con colleghi più o meno indifferenti, con autori e politici, con capi e subordinati, con i miei fratelli… ma non con mio padre e con mia madre. Mia madre e mio padre tendevo a idealizzarli, come conseguenza – credo – di una lettura troppo letterale di un libro che è stato ed è molto importante per me: L’ordine simbolico della madre di Luisa Muraro (Editori Riuniti, Roma 1992, 2006). Varie recenti vicissitudini nella mia famiglia più vicina, e anche il lavoro di Diotima sul negativo (Diotima, La magica forza del negativo, Liguori, Napoli 2005) hanno fatto crollare in me una difesa che proteggeva mia madre, e proteggeva anche mio padre – come uomo da lei scelto per questa funzione – da un legame diretto con il patriarcato nel suo rapporto intimo e familiare con me. Caduta la difesa, è rimasta la nuda, e sola, pratica della gratitudine per mia madre e, in secondo luogo, per mio padre, per la vita e la parola ricevuta.
Non mi sto riferendo – ma un po’ anche – all’accusa alla madre di averci trasmesso il patriarcato, accusa che tanto si sentiva circolare nel femminismo degli anni settanta. Mi riferisco alla possibilità di scrivere storia partendo da me e cominciando là dove mia madre depositò un germoglio della storia, che è in me. Finora, la cosa più difficile del partire da sé mi sembrava fosse il separarsi da sé -il separarmi da me, dal mio attaccamento all’io- per andare all’altro, alla relazione. Adesso, il cominciare in me mostra la sua difficoltà. Nel caso di Marirì, il cominciare in lei ha richiesto quasi tutta una vita. Per questo -penso- scrive nel suo libro: “C’è una storia vivente annidata in ciascuna/o di noi, costituita di memorie, di affetti, di segni nell’inconscio; non penso che abbia valore storico solo quello che sta fuori di noi, che qualcun altro ha certificato, la famosa storia oggettiva. Io racconto una storia vivente che non respinge l’immaginazione, un’immaginazione che affonda le sue radici nell’esperienza personale, storia più vera” -aggiunge- “perché non cancella le ragioni dell’amore, non respinge le relazioni, dal suo processo cognitivo” (p. 21).
Penso che sia la storia vivente annidata in ciascuna storica ad essere ancora infinitamente oscura quando una studiosa accademica scrive storia. Tirare fuori questa storia e metterla in parole, come si tiravano fuori e si continuano a tirare fuori i demoni dal corpo negli esorcismi e nelle terapie catartiche, è una maniera ben interessante di scrivere storia partendo da sé.
Fare questo apre in me ferite antiche, e così apre in me un conflitto esplicito e temibile con la mia genealogia più vicina, con la mia origine, con mia madre e con mio padre. Se dalla contraddizione e dal conflitto nasce la politica, penso che nasca da lì anche la storia, la storia vera, il simbolico nella scrittura della storia. Perché credo che il conflitto nasca dalla mia idealizzazione di mia madre, dal mio non voler ricordare di lei altro che la felicità dell’infanzia, senza affrontare la storia successiva, senza affrontare ciò che mi ha portato a contribuire alla fine del patriarcato, separandomi da lei per anni. Allo stesso tempo, riconosco che è dal legame con le fonti dell’infanzia – dal legame adulto con l’origine – che nascono la creazione e la creatività.
La domanda sulla storia vera è una domanda soprattutto femminile, rispetto alla domanda sull’obiettività, che – che io sappia – non ci ha mai interessato. María Zambrano, della storia vera ha detto: “… la storia apocrifa – non per questo meno certa – […] ricopre quella vera. Perché, sì, la storia apocrifa asfissia quasi costantemente quella vera, la storia che la ragione filosofica si affanna a rivelare e stabilire e la ragione poetica a riscattare”. (María Zambrano, La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, trad. e introd. di Carlo Ferrucci, con un saggio di Rosella Prezzo, La Tartaruga, Milano, 1995, pp. 49-50).
Di riscattare tratta costantemente il libro di Marirì: riscattare non per aggiungere né per colmare un vuoto nella storia che già c‘è, e nemmeno per giudicare -come dice essere stata la sua prima tentazione- ma per redimere pensando con amore, per dedicarsi all’amorosa conversazione, per far sì che l’amore entri nel vocabolario della storia, e in questo modo entri nel vocabolario della politica.
Penso che in ogni vita umana ci sia un filo che lega al primo amore e che questo filo si faccia notare nel richiamo delle viscere. “Mi ha chiamata da sempre; come chiamano i morti, si capisce, anzi, nel suo caso, la morta”, così comincia il libro La voce del silenzio.
Come mettere in parole e narrare la storia vivente che si annida in chiunque? Marirì Martinengo propone di partire dalla carenza, dalla trascuratezza e dalle lacune nell’interpretazione dell’esistente (p. 88), senza prescindere dal silenzio del suo personaggio e dal silenzio intorno a lei, amalgamando tutto con il mercurio della propria relazione con Lei, con il richiamo che Lei ha lasciato nelle sue viscere. Scrive: “Mi baso su documenti concreti e controllabili: le immagini che conservo, sue e della famiglia, le fotografie dei luoghi in cui abitò, gli oggetti che passarono fra le sue mani, i dati anagrafici; faccio confluire nella narrazione i ricordi e i ricordi dei ricordi miei e di altre/i, rendo esplicite caratteristiche psicologiche nascoste nelle pieghe dei ritratti, non disdegno talora l’abbandono all’immaginazione ancorata nella conoscenza pratica; raccolgo tutti gli elementi, animandoli di interpretazione e re-interpretazione e li fondo al fuoco della mia relazione con Lei” (p. 90).
Riscattare e redimere la storia che si annida in me non è un tentativo di rivalutare una donna o un’esperienza comune del passato, ma è o può essere una mediazione che redima me e alcune delle mie contemporanee da un fantasma ricorrente, da un crimine del passato che continua a pesare sul presente di oggi, da un episodio storico prigioniero di interpretazioni ideologiche. In altre parole, è un tentativo di assolvermi – di assolvere il mio tempo – da fantasmi e crimini del passato. O di essere assolta da essi in grazia di una relazione politica.
Questo l’ho imparato dalla contessa di Barcellona Duoda, la scrittrice del IX secolo che nel Liber manualis dedicato ai due figli che il marito le aveva tolto, scrisse: “Benché dunque io sia indegna e fragile, mi trovi in esilio,infangata e attratta da ciò che è più basso,c’è con me, tuttavia, una compagna di sventura amica e affidabile, per assolvere i crimini dei tuoi.” (Epigramma)
Il crimine da assolvere è, in questo brano, quello di suo marito e dei suoi amici, che stavano usando i figli di Duoda come ostaggi nelle lotte di potere tra i nipoti di Carlo Magno. Ma non per assolvere costoro, bensì con il fine di liberarsi lei -Duoda- da questo crimine.
Faccio un esempio più vicino nel tempo.
C’è un crimine del passato che mi ha sempre pesato e del quale mi piacerebbe redimermi, liberarmi, assolvermi o essere redenta e assolta da un’interpretazione storica che faccia simbolico, che non sia ideologica. Questo crimine è l’Olocausto. Per parecchi anni, ho insegnato nella mia facoltà la materia Tendenze storiografiche attuali. Quando si arrivava alla storiografia sull’Olocausto, la partecipazione alla lezione era intensissima: leggevano e commentavano ogni tipo di opera, facevano reportage audiovisivi, recuperavano testimonianze di sopravvissute/i… Ma, alla fine, io restavo insoddisfatta. Non ero soddisfatta perché restava sempre, dietro le quinte, l’odio per il popolo tedesco per il crimine commesso. Cioè non c’era riscatto, non c’era redenzione, perché non c’è redenzione se l’odio prevale. E se non c’è redenzione la storia può ripetersi.
Non c’era riscatto né redenzione perché io non ho saputo trovare la porta stretta che lasciasse passare l’amore nell’interpretazione della storia. Non osavo – erano classi numerose e molto politicizzate – mettere in gioco l’esperienza personale che avevo più a portata di mano, l’esperienza di un altro crimine che avevo ereditato dalla storia, e ereditato concretamente dalla storia di mio padre e di mia madre: la guerra civile spagnola.
Marirì, invece, ha osato e ha aperto una strada alla possibilità di partire da sé davvero quando si scrive storia, e così facendo ha messo in moto anche me.