Liliana Rampello
Patrizia Zappa Mulas, che leggerà per noi oggi San Siro, il primo dei 4 racconti della raccolta Purché una luce sia accesa nella notte (et-al edizioni, 2011) non è un’esordiente. E’ nata come scrittrice in una scuderia raffinata come La Tartaruga di Laura Lepetit alla fine degli anni Novanta, con due libri, L’orgogliosa (1998) e Rosa furia (2000) e ha di recente pubblicato per Nottetempo un piccolissimo racconto Tigre adorata (2006), una trentina di pagine sulla seduzione tra donne, fulminante per la precisione dei dettagli e del gioco dei sentimenti.
PZM è un’attrice di teatro, i molti ruoli che ha interpretato e incarnato sono ricordati nell’aletta del libro, così come mi piace ricordare il suo lavoro con Franca Valeri, che di questo stesso libro ci indica la preziosità pari a “un concerto”. Un’attrice che scrive.
Quattro racconti, dicevo, a formare un romanzo nascosto, in una scrittura che ha una misura perfetta. La misura ha a che fare con l’equilibrio spaziale e temporale del racconto (molto diversa da quella del romanzo, basti pensare che il romanzo ha tutto il tempo che vuole per sviluppare, ad esempio, la psicologia di un personaggio) e il racconto è quanto la letteratura offre di più vicino alla pittura: un nucleo centrale prospettico che divide tutte le parti, dà loro funzione e posto nella composizione. E infatti PZM vede (ha cominciato da piccola a vedere, indubbiamente attraverso sua madre, Maria, fotografa eccellente) e vede in scena, cosa questa che le viene appunto dal suo lavoro in teatro. Lo sguardo così affiso, le permette di essere intensa ma concisa, mai prolissa, con parole- emozioni in cui non c’è mai parola di troppo.
Il secondo elemento che voglio sottolineare, dopo la misura stilistica, è l’invenzione del personaggio che abita queste pagine: un io che non è un io (io è un altro, diceva Rimbaud), perché l’io che scrive non è l’io che vive, né l’io protagonista. Chi scrive “io” non sta necessariamente scrivendo un’autobiografia, ha detto la massima autorità in questo campo, Proust, che così ha infatti scritto più di mille pagine, rivendicando proprio questo scarto (e sapendo i pericoli che correva, tanto da dire più o meno, vado a memoria, “certo, se avessi iniziato il mio romanzo con la frase ‘Roger Mauclair abitava in un villino” sarei stato considerato ‘oggettivo'”).
Dunque qui vediamo una bambina-adolescente-ragazza-adulta di cui si racconta l’esperienza (non la crescita), precisamente l’esperienza di essere consapevoli di ciò che succede e ci succede. Si tratta di saperi parziali che si accumulano non in un “soggetto” ma in un corpo. Tutto è filtrato dal corpo e nel corpo, ad essere in scena è il corpo con muscoli, tendini, sudore, fatica, energia…. fino a farsi coscienza di sé. Il corpo in un minuto di infanzia (lo sentiremo in San Siro); il corpo dell’adolescenza spiazzato e spezzato tra storia individuale e storia politica e sociale in Piazza Fontana, il tempo della “tenebra precoce”, la storia e la Storia, la tragedia e il silenzio (racconto magistrale per tripla scena: la scena-cornice del racconto, la scena del palcoscenico della Scala e la scena della piazza); il corpo in ascesa e ascesi di Stromboli, la salita al vulcano; infine il corpo di Via Solferino, ultima apparizione del fantasma del già avvenuto. Eccoli i mutamenti di un corpo intelligente di sé nel suo cortocircuito. Chi racconta lo fa con un organo speciale, l’occhio, ma un occhio con una temporalità sapientemente catturata, quella del volo o della coda dell’occhio, lo sguardo come rovesciato (di nuovo la madre, ricordo dei negativi delle sue fotografie?).
Il terzo elemento che mi ha colpito è la città, Milano, che non è mai un semplice sfondo, ma è anzi una vera co-protagonista; l’apertura orizzontale della sua mappa è attraversata da una temporalità che non è verticale, non richiama la profondità dei suoi strati, ma la superficie, dove il tempo non si sviluppa, ma si svolge: lo spazio dunque. Una città nuova anche per chi la conosce, secondo una regola aurea dell’arte: la capacità di farci vedere come cosa mai vista quello che abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni.
L’ultima osservazione la voglio dedicare agli oggetti. Se ci sarà mai in futuro un grande lettore di “oggetti desueti nelle immagini della letteratura” come è stato Francesco Orlando, non potrà che innamorarsi (a me è capitato) della “scatola di pece” e della “sbarra”, a garanzia del loro essere assolutamente indimenticabili.
8 Febbraio 2011