di Sara Gandini
Ivan Cavicchi è Docente Universitario in Sociologia delle organizzazioni sanitarie e Filosofia della medicina all’università Tor Vergata di Roma, alla facoltà di Medicina. Ha scritto diversi libri, gli ultimi si intitolano «La complessità che cura» e «Il cancro non è un carillon. La relazione terapeutica come metodo» (Dedalo 2016), appena uscito da qualche giorno.
Io sono ricercatrice in ambito oncologico. Lavoro da una ventina di anni come biostatistica/epidemiologa in un ospedale qui a Milano. Questo mio intervento viene da un percorso di scambio di un anno con un gruppo di donne, che si richiama alla comunità scientifica femminile Ipazia quanto a pratiche e intenti.
Nel mio intervento introduttivo cercherò di mostrare quanto sia importante mantenere una dimensione politica anche quando ci si occupa di scienza e di medicina. Mi riferisco alla politica nel suo senso più ampio, non partitica quindi, ma quella riflessione sulla polis che mette al centro il fatto che il mondo è composto da donne e uomini.
In ambito medico e scientifico significa domandarsi se donne e uomini portano un pensiero e una pratica differenti, da un punto di vista di clinica e di ricerca. Certamente sappiamo che ci sono singole donne che nei vari ambiti possono segnare la loro differenza o lasciare tutto come l’hanno trovato. Il modo differente di stare nel mondo, quando c’è, non si fa acchiappare con definizioni, canoni, regole, perché dipende dalle singole soggettività, oltre che dalla storia e dalla biologia, e agisce a tanti livelli. È qui che entra in gioco la politica che insegna a riconoscere la soggettività in ogni disciplina, a dubitare dell’oggettività, spesso spacciata per scientificità, che nasconde un punto di vista maschile che vuole imporsi come universale falsando così i possibili, e talvolta necessari, nuovi sguardi.
Ho trovato illuminanti su questo le riflessioni di Evelyn Fox Keller in Sul genere e la scienza, un libro della fine degli anni Ottanta, dove critica la scienza ispirata al progetto di controllo e dominio della natura e mette in relazione questa critica alla cultura patriarcale. Keller sostiene che, nello stesso modo in cui è cambiato il dominio dell’uomo sulla donna, è cambiata anche la metafora della conoscenza scientifica. A partire da Bacone, la scienza ha adottato la metafora dell’uomo disincarnato che sottomette la natura e le strappa i segreti, invisibile a se stesso.
Questa immagine dello scienziato come conoscitore impersonale che “strappa il velo” al corpo della natura, ricorda il padrone della fantasia di dominio erotico, dove il soggetto è sempre in posizione di controllo. Keller ipotizza che il distacco scientifico dall’oggetto derivi dalla relazione con la madre e dal processo di separazione e opposizione dei figli maschi. Il mondo esterno, l’altro, è sempre oggetto, sta dietro una parete di vetro. Il ricercatore è il padrone della situazione e si pone in una posizione di onnipotenza. Al contrario, se la separazione riconosce al mondo una propria esistenza, allora si arriva a una condizione di vitalità e a un nuovo concetto di oggettività dinamica, a un’ottica intersoggettiva femminista che contempla un mondo più complesso del regno di oggetti senza vita creato dalla radicale separazione di soggetto e oggetto.
Un esempio di questa tradizione intersoggettiva si trova nel lavoro di Barbara McClintock, la biologa statunitense che negli anni Cinquanta ha scoperto l’esistenza di porzioni di DNA in grado di spostarsi da un cromosoma all’altro; questa scoperta le valse il Premio Nobel per la medicina nel 1983. La McClintock, mentre studiava i cromosomi raccontava «Quando lavoravo veramente con loro, non ero fuori, ero là. Facevo parte del sistema. Ero davvero là con loro, e tutto si ingrandiva. Riuscivo persino a vedere le parti interne dei cromosomi. Ero stupita, perché mi sentivo come se fossi veramente laggiù e quelli fossero i miei amici. Quando le guardi, queste cose, diventano progressivamente parte di te». La descrizione di McClintock ci ricorda che l’atto del conoscere può essere vissuto come comunione, non come conquista.
Trovate queste e altre riflessioni molto interessanti su questo tema nel bel libro Legami d’amore. I rapporti di potere nelle relazioni amorose di Jessica Benjamin.
Questo per quanto riguarda le donne come ricercatrici, e quando sono oggetto di studio, quando sono le pazienti o mediche?
La medicina di genere nasce sulla base della consapevolezza che all’inizio la medicina era androcentrica, con la donna considerata come un “piccolo uomo”, un uomo di dimensioni ridotte. Infatti i primi studi sui farmaci erano solo sugli uomini, per le donne al limite si diminuivano le dosi dei farmaci, senza verificare se efficacia o effetti collaterali fossero diversi.
Negli anni ’70 la clinica si è evoluta con la nascita della medicina delle donne, che riguardava gli aspetti ginecologico-riproduttivi (consultori, pillola, aborto). Solo negli ultimi vent’anni si sta ragionando sulla “sessuazione” di ogni parte del corpo, scoprendo che il fegato di una donna e di un uomo sono anatomicamente diversi e si comportano fisiologicamente in modi diversi, per esempio. E così nasce la medicina di genere che si occupa delle differenze biologiche e socio-culturali tra uomini e donne. E sembrerebbe un fatto di cui gioire perché stiamo acquisendo consapevolezza che le differenze, non solo biologiche, tra i sessi sono rilevanti. Ma sicuramente le prime a gioirne sono le case farmaceutiche: infatti quello che capita è che ora sul mercato abbiamo i doppi prodotti e lo sviluppo dei farmaci è per genere. Oggi ci sono circa 850 nuovi prodotti tarati ad hoc per le donne, e un nuovo mercato che fiorisce grazie ai prodotti per maschi e per femmine.
Dalla medicina di genere ora si sta passando all’idea della medicina personalizzata, o di precisione, riferendosi principalmente alle differenze in termini biologici (quindi tenendo conto delle caratteristiche genetiche e biologiche del tumore). E così nel trattamento dei tumori stanno arrivando farmaci di nuovissima generazione e ad altissimo prezzo. Si fa ricerca su farmaci che vanno a colpire una singola mutazione genetica; che sono quindi funzionanti solo per un singolo percorso di cura; che non possono puntare sull’universalizzazione dei trattamenti; e che di conseguenza devono trasferire il proprio altissimo costo su un singolo paziente. La spesa per farmaci oncologici in Italia è passata da circa 1 miliardo nel 2007 a 2 miliardi e 900 milioni nel 2014. Per l’Italia si stima un tasso di crescita che porterebbe nel 2040 a un raddoppio della spesa sanitaria pro-capite, quasi l’80% coperta dalla sanità pubblica. Considerando anche l’incremento di spesa per i nuovi vaccini, abbiamo un mercato mondiale di oltre 20 miliardi di euro, dominato da un oligopolio di quattro imprese multinazionali. Cifre insostenibili anche per il sistema sanitario nazionale. Alcuni sistemi sanitari pubblici (per esempio quello inglese), ma anche diversi oncologi americani, hanno preso posizione pubblicamente rifiutandosi di farsi carico del costo di medicinali mirati e individualizzati. Il costo così elevato è determinato principalmente alla speculazione finanziaria che fanno grandi aziende farmaceutiche.
Anche la possibilità di diagnosi sempre più precoci, con tecnologie sempre più precise ed avanzate, ha “cambiato i numeri” delle patologie oncologiche e ampliato il mercato, con un aumento enorme delle diagnosi di tumori piccolissimi, in situ, che non diventeranno mai maligni. L’esempio più classico e conosciuto è quello dello screening del PSA, che spinge a curare tumori della prostata che non avrebbero mai fatto danni, trasformando in malati uomini che senza lo screening sarebbero stati considerati sani. Molti ricercatori da tempo parlano dei rischi di “sovradiagnosi”, dicendo che si sta di fatto creando una macchina per avere sempre più pazienti/clienti. I malati oncologici italiani sono tre milioni e crescono di oltre 90.000 pazienti ogni anno (ricordiamo il bel libro della Duden, Il corpo delle donne come luogo pubblico).
Si tratta di un problema economico e di sostenibilità che ci porta di fronte ad una contraddizione. Infatti non siamo certo contrarie alla medicina personalizzata, se intesa come medicina che tiene conto della persona che ha di fronte e non ragiona in termini neutri e di universalizzazione degli approcci medici, con le relative rigidità dei protocolli, perché sappiamo quanto sia importante tenere conto dei pazienti con la loro singolarità, con la loro complessità. E dell’importanza di questo aspetto parla in modo approfondito e serio anche Ivan Cavicchi nei suoi ultimi libri.
Cavicchi sottolinea che essere impersonali e protocollari, nel senso di prescindere dalla persona nelle scelte cliniche, è sempre stata una condizione richiesta all’oncologo per l’esercizio del proprio ruolo, ma ora la medicina personalizzata potrebbe diventare rivoluzionaria se ci si rendesse conto che quello che conta non è solo caratterizzare il tumore, come fa la medicina di precisione biologico-genetica, ma dare importanza a quello che capita nella relazione medico-paziente, partendo anche dal fatto che siamo uomini e donne e questo è importante, sia come pazienti che come curanti. Cosa voglio dire?
Vi faccio un esempio relativo al mio lavoro. Oramai è noto che i modelli statistico-matematici che usiamo per capire le determinanti dei tumori non possono prescindere dal fatto che i pazienti sono donne e uomini. Tuttavia questi elementi vengono definiti confounder, cioè “fattori di confondimento, di confusione”, per cui si aggiusta il modello eliminandoli di fatto dal quadro principale di interpretazione, e così si finisce per dare un’interpretazione che vale in media, per tutta la popolazione. Adesso però stanno uscendo pubblicazioni che mostrano come la sopravvivenza da tumori sia statisticamente migliore per le donne, e nessuno riesce a spiegare queste differenze usando criteri legati esclusivamente alla biologia. Conosco da vicino un’associazione di ricercatori europei (l’EORTC) che lavora con aziende farmaceutiche che investono forti capitali per trovare farmaci che funzionano, e per anni sul melanoma di cui mi occupo non hanno trovato nulla. Recentemente alcuni epidemiologi miei colleghi hanno pubblicato articoli su riviste di alto livello in cui mostrano che le donne sopravvivono meglio a tumori aggressivi, e questa differenza è più significativa del miglioramento dato dai farmaci su cui loro facevano ricerca.
Questo tipo di risultati infastidiscono molti medici, perché non li capiscono e vorrebbero ridurre la differenza a un fatto ormonale e biologico. Un medico di fronte a evidenze simili di una mia pubblicazione una volta ha commentato: «Vabbè, e quindi? Noi uomini dobbiamo cambiare sesso?». Questo tipo di reazioni mostra come questi aspetti mettono a disagio invece di ispirare curiosità e voglia di capire, di mettersi in discussione.
Ma è sempre più chiaro che essere uomo o donna, influisce sul corso della malattia e sulla guarigione e anche trovare medici consapevoli di questi aspetti, cui potersi affidare, è fondamentale. Anche perché ora il rapporto medico-paziente è cambiato grazie alla rivoluzione femminista che ha fatto franare il sistema simbolico patriarcale e l’approccio medico paternalista, come scrive lo stesso Cavicchi. Anche Umberto Veronesi, famoso chirurgo che ha costruito l’ospedale in cui lavoro, commentava su La Stampa a settembre dell’anno scorso che «Il medico non è più “padre e padrone” e il paziente non è più sottomesso» aggiungendo: «Il rapporto di fiducia medico-paziente, basato sulla certezza che il dottore sia l’unico detentore del sapere, è in crisi profonda». Ivan Cavicchi, a proposito del disegno di legge sulla responsabilità professionale dei medici, commentava che: «La gente non denuncia i medici perché sbagliano, ma perché i medici non sono capaci di avere relazioni con i malati e i loro familiari. Questo perché nell’ospedale l’unica misura è il tempo dedicato al paziente e il costo della visita. Per far crollare il fenomeno del contenzioso legale bisogna insegnare ai medici ad avere delle relazioni», perché la relazione «non è una roba semplice». E in alcuni articoli sul tema sollecita a imparare dalle mediche, che portano una nuova idea della medicina e della prassi professionale, perché non partono dalla malattia e dalle sue caratteristiche biologiche, ma dalla donna o l’uomo malato che hanno di fronte. Quelle mediche di fatto ridiscutono un certo tipo di conoscenza clinica e un certo tipo di organizzazione sanitaria. Cavicchi in quegli articoli in sostanza invita a imparare dal sapere delle donne per arrivare ad un nuovo paradigma anche in ambito medico, che porti ad una nuova coscienza della complessità.
Voglio ricordare il libro di Vita Cosentino, Tam Tam, che racconta la sua avventura di protagonista di una malattia invalidante e i libri di Metis (C’è la vita. Saperi di donne sulla relazione terapeutica e Corpi soggetti) che riflettono da sempre sulla relazione medico-paziente e l’idea di protocollo sensibile.
Si tratta in fondo di accettare una verità scomoda, sia per i medici che per i pazienti, e cioè che in terapia non tutto quanto accade è spiegabile in termini scientifici. Cavicchi racconta l’importanza della verità soggettiva: l’interpretazione soggettiva del malato vale di più, nel senso che ha maggiori ricadute sull’andamento della malattia, rispetto alla valutazione oggettiva del medico.
Ma questa realtà spesso spaventa il medico che vuole avere tutto sotto controllo (ricordiamoci della Keller). I medici vivono come invadente la verità dei soggetti che scompiglia le carte della verità oggettiva scientifica, con i suoi metodi deduttivi e logici.
Da un lato la medicina deve tenere conto di questa complessità e delle individualità se vuole essere efficace; dall’altro ha bisogno, come ogni scienza, di criteri generali, del metodo scientifico e di una comunità scientifica a cui fare riferimento. La senatrice a vita e direttora del Centro di ricerca sulle cellule staminali dell’università di Milano, Elena Cattaneo, afferma che c’è poca coscienza di cosa sia realmente la scienza e metodo scientifico e aggiunge «Scienza e Politica sono due mondi lontani che devono iniziare a parlarsi con più fiducia» per non cadere vittima delle bufale e delle frodi. La comunità scientifica lavora per essere al riparo dal rischio, per esempio, che personaggi come il comunicatore di massa Vannoni abbiano la meglio. Ricordo che il metodo Stamina era un trattamento privo di validità scientifica, per il quale il parlamento italiano ha deciso, in seguito ad una fortissima pressione dei mass-media, di avviare a sperimentazione, con costi notevoli, come nel caso Di Bella, per poi scoprire che era una bufala. Se non vogliamo che lo scetticismo nei confronti della medicina e della scienza e il giusto sospetto e insofferenza verso il linguaggio specialistico, gli interessi economici, l’impostazione organicistica e la riduzione del paziente a cliente e numero, che caratterizzano la medicina tradizionale, aumentino sempre più anche con danni notevoli (pensiamo a quello che sta capitando con i vaccini: molti genitori non vaccinano più i figli e malattie terribili e oramai dimenticate stanno ricomparendo), bisogna riflettere su questa contraddizione viva tra necessità di un metodo scientifico che si basi sulla riproducibilità, modelli, protocolli… e la gestione della complessità della relazione medico paziente.
La mancanza di fiducia nasce anche dall’incapacità di affidarsi all’imprevisto della relazione, come dice anche Cavicchi (e questo capita più da parte maschile), ma anche dal potere del mercato, che entra sempre più nell’ambito della cura, della scienza, della medicina, con la sua unica misura, il suo unico simbolico: il denaro.
La mia risposta all’invadenza del mercato è affidarsi alla ricerca indipendente, non finanziata dalle aziende farmaceutiche. Per me per esempio ha voluto dire dedicare le mie ricerche alla prevenzione primaria e a quei farmaci già in commercio, sui cui le aziende non fanno più ricerca perché non avrebbero grandi profitti, ma che hanno potenzialità impreviste in ambiti su cui non si era investigato. Ma è sempre più difficile trovare luoghi in cui si sostenga la ricerca indipendente, da cui non si ricavano entrate economiche vive immediate. Nel mio istituto stanno chiudendo la divisione in cui lavoro, la divisione di Epidemiologia e Biostatistica…
Concludo con le parole di Marie Curie, che come sapete nel 1903 fu insignita del premio Nobel per la fisica e nel 1911 del premio Nobel per la chimica e rappresenta per me un grande esempio.
Marie scrive che lei e il marito rinunciarono a trarre profitto materiale dalla loro scoperte. Non presero alcun brevetto e pubblicarono, senza riserva alcuna, i risultati delle loro ricerche… anche se questo creò problemi economici seri al loro lavoro. Madame Curie sosteneva che l’umanità «ha bisogno di sognatori, per i quali il prolungarsi disinteressato di un’impresa è così affascinante che è per loro impossibile consacrarsi ai propri benefici materiali» e «una società bene organizzata dovrebbe assicurare a questi lavoratori i mezzi efficaci per adempiere al loro compito, in una vita liberata dalle preoccupazioni e liberamente consacrata alle ricerche.»
Per tutta la vita Marie e Pierre, il marito, non ricaveranno mai soldi da scoperte che sono patrimonio di tutta l’umanità.
Finisco con una domanda diretta a Ivan, a cui chiedo se pensa che la differenza sessuale possa essere un fattore discriminante per affrontare queste problematiche. Glielo chiedo perché i suoi ultimi libri sono tutti al neutro, come se il fatto di essere medico o medica, paziente uomo o donna, scrittore o scrittrice non fosse significativo, mentre in alcuni articoli sembrava sostenesse altro.
(www.libreriadelledonne.it, 18 giugno 2016)