Un abbandono in tenera età, il primo incontro con il celebre padre nell’adolescenza, romanzo familiare che narra il disagio esistenziale di una figlia naturale. Non potremmo pensare che Giancarla Dapporto scrive per svelare un segreto e per dare statuto alla verità? A partire dal libro Massimo Carlo ed io. Metamorfosi affettive (Araba Fenice 2016) Laura Lepetit e Antonella Nappi ne parlano con l’autrice.
Presentazione di Antonella Nappi
È un romanzo appassionante quello di Giancarla, ci mostra fatti e contesti, lascia a noi immaginare i sentimenti e le riflessioni dei personaggi. Nel sottotitolo, Metamorfosi affettive, suggerisce le difficoltà della sua crescita, ma non ce le dice e questo raccontare per immagini è molto coinvolgente.
Attraverso momenti della sua biografia infantile e giovanile, di quella della madre e del padre ci porta nell’Italia della guerra e del dopoguerra, così differenti dall’oggi, e nel fascino del ricordo e della scoperta delle nostre madri, per noi anziane, e della nostra infanzia.
Gli incontri in libreria stimolano a leggere bei libri e sollevano un confronto e una discussione, il mio apporto è ricordare il contesto di quegli anni e un percorso che le femministe dovettero fare e che è necessario continuare.
Le donne nate prima della guerra e subito dopo, pur nelle grandi diversità, sono state oppresse o addirittura trasfigurate da un abisso di denigrazione che anche noi anziane ci stiamo dimenticando. Solo gli uomini avevano valore, la donna a loro doveva rendersi utile e bisognava farlo per avere un marito senza il quale non si era socialmente riconosciute.
Non sembra credibile, oggi, provare l’adesione al proprio misconoscimento che io e le mie amiche provavamo. Qualcuna dice di non aver subito svalorizzazioni nel suo contesto familiare ma io ricordo che tutte le donne che frequentavo da bambina e da adolescente erano convinte di essere di molto inferiori agli uomini, quello era allora il senso della diversità dagli uomini, e chi voleva valorizzarsi li doveva imitare (di qui la pretesa d’essere pari).
Anche da femminista, negli anni ’70 e ’80, pur sentendo la forza che mi veniva dal movimento sentivo anche la debolezza delle donne, la mia forza e la mia debolezza assieme, e mi sentivo molto sola nel mondo degli uomini.
Ho imparato con il primo femminismo a credere in quello che io vedevo e pensavo, a sapere che vedevo di più di quello che vedevano gli uomini nei molti ambiti in cui mi applicavo con loro; mi sono sentita più giusta di loro in molti pensieri contesti culturali e sociali. Lavorando all’università, ad esempio, la critica che veniva dall’esperienza delle donne e dal movimento femminista la valutai importantissima e rivoluzionaria, la applicai, ma in realtà mi sentivo ancora sola.
Non avrei mai immaginato, fino ad anni recenti, che tutte le donne valessero più degli uomini, solo con il tempo è diventato ai miei occhi del tutto vero.
Ora tutte le donne sanno che i loro pensieri sono diversi da quelli degli uomini e cominciano ad esprimerli, tutte iniziano a chiedersi se non sia il caso di dare proprio a questi il valore e la prevalenza che possono avere nella vita pubblica e rigettare quelli ereditati dalle esperienze dei soli maschi.
Oggi risulta meno credibile anche per noi il passato che abbiamo dovuto rigettare e rivoltare, io allora non avrei mai immaginato che le donne fossero capaci e appassionate ad ogni lavoro, anch’io le credevo capaci di fare solo le madri e pensavo che la maternità impedisse ogni altro interesse, il contrario di ciò che mi hanno mostrato: la potenza femminile di avere cura di se e degli altri è la stessa che ci porta ad osservare e agire in ogni campo.
Un altro aspetto del passato era il timore che mi infondeva un rapporto con gli uomini che non fosse ossequioso, pensavo fosse impossibile per loro non essere messi su un piedestallo. Avevo paura di scatenare la loro violenza se mi fossi messa alla pari, il separatismo mi permetteva di sfidarli tenendomi in una posizione protetta.
Invece, la più recente scoperta è che anche loro ce la possono fare, alcuni o molti sanno accettare di mettere in discussione la loro supremazia o addirittura questa li spaventa e se ne sottraggono.
Ora c’è da togliere il piedistallo aprioristico che mettiamo sotto la cultura pubblica maschile e sotto le attività che gli uomini compiono in ogni campo, non più soltanto riguardo al rapporto uomo/donna, ma proprio rispetto al procedere nella vita politica ed economica, questa è una sfida attualissima: ambiente, scienza, economia sono un’altra cosa se le donne estendono la loro ottica e la loro azione.
Ma ancora, l’incontro tra i due padri di Giancarla, quando lei è piccola, mostra qualche cosa di quella che è stata l’esperienza affettiva degli uomini e il loro simile senso di responsabilità verso le donne. L’investimento prioritario nel lavoro artistico allontana il padre dalla figlia, ma lui paga la sofferenza di perderla per molti anni, quando il marito della donna che lui non ha sposato lo pretende; questi, avendo scelto di averle vicine, vuole essere marito e padre senza interferenze. Invece la madre di Giancarla e lei stessa recuperano anni dopo l’interesse che il padre naturale può dar loro, sia come rapporto, sia come consapevolezza del rapporto che c’è stato. Tutti mostrano dunque quanto il riconoscimento delle esperienze affettive sia necessario alla propria realizzazione: siamo figlie e figli dei nostri genitori, la relazione tra loro che ci fa nascere e le loro aspettative nei nostri confronti, quelle tra di loro fanno parte della procreazione, contano per tutti e di più per i figli, ci pesano addosso tutta la vita e fanno grossa parte delle nostre forze e debolezze. La genitorialità è fatto profondo: sentimenti, carnalità, comunicazioni interpersonali, differenze di personalità, sono sembrate per decenni discorsi futili di donne, anche oggi sembrano preoccupazioni minori ma sappiamo che sono scienza umana, possiamo privilegiarla rispetto a quella tecnica.
Invece le scienze umane continuano ad essere meno importanti di quelle tecniche e l’adeguamento delle donne alla società maschile è continuamente in atto proprio attraverso le prassi che la tecnica ci fa condurre, per ogni umanizzazione che conquistiamo c’è in agguato una deresponsabilizzazione, una spersonalizzazione.
Oggi è più difficile che in passato scorgere i conflitti perché il contesto in cui si cresce è più simile, i consumi avvicinano le persone e sembrano risolverle.
Le nonne e madri di chi è più giovane, noi, si sono formate in un mondo più ricco di natura, questa si contrapponeva ad ambienti urbani caratterizzati a loro volta da differenti storie sociali; la relazione tra soggetti umani differenti erano intense e le opportunità di iniziativa personale maggiori; ora l’esperienza demandata alla tecnica sembra soddisfare impoverendo le capacità di autonomia e la critica, a mio avviso; adegua ad un mondo più maschile che femminile. È dunque importante la volontà di studiare, capire, leggere le critiche al potere ancora, per scoprire e scegliere di nuovo quello che davvero ci sta a cuore.
(www.libreriadelledonne.it, 6 giugno 2017)