di Laura Minguzzi
Introduzione all’incontro con Valentina Parisi, autrice della Guida alla Mosca ribelle (Voland, 2017), Libreria delle donne – Circolo della rosa, 6 giugno 2018.
Ho sentito leggendo la Guida alla Mosca ribelle di Valentina Parisi una consonanza, una grande emozione nel ritrovare luoghi conosciuti e visti negli anni settanta per la prima volta e poi rivisti nel corso del tempo. Oltre al gusto per il viaggio. Ma il viaggio prima di tutto come messa in gioco della soggettività di chi lo compie, soggettività che, esposta a stimoli non usuali si rinnova e arricchisce, galvanizzandosi al contatto di genti e orizzonti immaginati, sognati, ma non ancora conosciuti. I non sperimentati spazi chiedono di fare il vuoto dentro di sé per accogliere quanto d’inaspettato ci è offerto. Ed è una postura politica fertile, destinata ad applicazioni anche in altri ambiti. Si sceglie in genere di fare un determinato viaggio, seguendo un desiderio, perseguendo un completamento di sé; un’altra caratteristica che sento in comune è di intendere il viaggio non solo per sé, ma anche per altri e altre.
Per il mio modo di viaggiare e conoscere altre culture ho letto con grande interesse i percorsi esplorativi della Mosca ribelle di Valentina Parisi perché ci guida a compiere un viaggio fatto di scoperte, un viaggio non banale non eterodiretto ma che fa leva sulla nostra curiosità personale, il nostro desiderio di arricchirci con lo scambio e con la lentezza del camminare per andare a vedere ciò che lei seguendo un proprio desiderio vuole mostrarci.
A me è sempre piaciuto progettare viaggi a mia misura, osservare le trasformazioni, parlare con la gente, con le donne, per andare oltre le notizie. Questo mi è stato possibile con gli scambi fra scuole che ho organizzato per una decina di anni (dal 1992 al 2003), quando insegnavo. Nel mio ultimo viaggio (da Mosca a Vladivostók) ho seguito le tracce e la storia delle Decabriste e dei Decabristi e come Valentina Parisi nella Guida, descrivendole e quindi pubblicandola, ho reso partecipi altri della loro vicenda rivoluzionaria. Mi piaceva che anche le mie alunne e i miei alunni, vivendo nelle famiglie russe, dessero corpi, una storia alla realtà, alla lingua che studiavano sui banchi. Con la fine dell’Unione Sovietica nel 1991 io ho cominciato a sognare una civiltà europea senza frontiere, senza muri, che potesse lambire l’oceano Pacifico, arrivare oltre gli Urali fino a Vladivostók. Ho sempre temuto l’idea della fortezza Europa che si difende o si arma. Partivo perciò per capire cosa stesse succedendo, cosa pensasse la gente comune, le amiche, le insegnanti, cosa scrivessero i giornali della nuova Russia che si andava formando, tastare il polso della situazione e nelle scuole portavo la mia esperienza politica, libri di scrittrici italiane, e a mia volta compravo libri di scrittrici russe da leggere nelle mie classi.
Dal mio primo contatto con Mosca nel 1972, di questa città mi ha sempre affascinato la forma a centri concentrici, ad anelli che progressivamente si allargano (i kol’zo in russo), come quando nell’infanzia si getta un sasso in mare o in un lago e si formano cerchi che se il lancio è ben riuscito si allargano in modo quasi magico sempre di più, quasi all’infinito…
La Guida alla Mosca Ribelle di Valentina Parisi è molto precisa e dettagliata con mappe dei luoghi e dei quartieri descritti, come arrivarci con le fermate e le stazioni della metropolitana con alcune foto dell’autrice. Completa la guida un esaustivo indice dei nomi delle figure storiche e dei luoghi. Perciò è di facile consultazione, molto adatta anche per un viaggio autonomo non organizzato.
Gianpiero Piretto, nella prefazione, ci illustra perché Mosca è considerata la madre di tutte le città russe accompagnandoci attraverso i vari epiteti e attributi di Mosca in un percorso storico dall’origine della città, come prima sede del trono, e via via nel corso dei secoli. Mosca rappresenta l’antichità, la tradizione e ha goduto di una serie di attributi per distinguerla nel bene e nel male da Pietroburgo-Leningrado, città europea, voluta da Pietro il Grande all’inizio del Settecento. Nel quattordicesimo secolo Il principe Dimitrj Donskoj sostituì il vecchio Cremlino di legno con la pietra, la dolomite e il calcare, poi principi e boiardi preferirono la pietra bianca e allora Mosca si chiamò “Mosca dalle pietre bianche”. Poi oltre nel sedicesimo secolo per affermare la supremazia dell’ortodossia comparve l’appellativo “Mosca terza Roma”. Il profilo della città antica si manifestava nelle numerosissime cupole d’oro delle molteplici chiese e si fece ricorso all’espressione figurata, sòrok sorokòv, come dire mille millanta. Sòrok significa quaranta ma soròk indicava le unità amministrativo-religiose in cui la città era divisa. Così come “Mosca rossa” e “Mosca bella” testimoniano di come il nome della città fosse legato nella storia alle realtà più diverse, sacro e profano, alto e basso. Ma è nel ’57, pochi anni dopo la morte di Stalin, che a Mosca si ebbero le due settimane più intense, inaspettate e innovative che la storia dell’Unione Sovietica ricordi. Fu il VI Festival Mondiale della Gioventù e degli studenti. Fu il sessantotto prima della stagione dei figli dei fiori di San Francisco e del maggio francese. Negli anni settanta-ottanta trionfarono le canzoni d’autore del ribelle cantautore Vysòtzkij, i samizdàt, le produzioni manoscritte autonome della dissidenza politica e del femminismo. Infine per arrivare agli anni prima della grande ricostruzione degli anni novanta, l’epiteto “Mosca non è di gomma” sintetizza la resistenza degli abitanti a un allargamento smisurato dei confini. Dopo il crollo dell’URSS, la nuova identità riassunta nella Mosca-City ci presenta una capitale che vuole essere un centro affari internazionale. Un piano cominciato nel 1997: palazzi, grattacieli, torri, spazi espositivi.
Valentina Parisi nella sua introduzione ne segue lo sviluppo storico lento fino al ’900, secolo in cui il paradigma della lentezza si è capovolto. Decrescita è una parola ignota a Mosca. Frequente il termine megalopoli. Stabilire la popolazione attuale è un’impresa disperata. Dodici, tredici milioni? Ai dati ufficiali va aggiunto un numero fluttuante di presenze invisibili: sans-papier giunti per lo più da ex-repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale, braccia indispensabili alla crescita implacabile della capitale. La stessa struttura concentrica della città pare garantire un allargamento a macchia d’olio. Dal Piano Generale di ricostruzione degli anni trenta voluto da Stalin, Mosca attraversa ora l’ennesima fase di trasformazioni. Ci sono gli sviluppatori, developery in russo, che mettono mano alla città chiamando la trasformazione renovacija – rinnovamento – e vogliono tramutare Mosca in una città pedonale – peschechòdnaja, anche se il clima non invita certo alle passeggiate, per cui molte strade centrali vengono ristrette. Con la City si è tornati allo sviluppo in verticale con i grattacieli in vetro e acciaio. Ne è un esempio la Torre della Federazione, l’edificio più alto d’Europa, 374 metri.
Per non smarrirsi in un simile caos occorre una chiave di lettura. La scelta di Mosca come città ribelle è da rintracciare nel passato, dice l’autrice. Il filone letterario della narrazione dell’io comincia in Russia con l’autobiografia di un disobbediente, quella scritta da Avvakùm nel carcere di Pustoziòrsk, oltre il Circolo polare artico, mentre attendeva il martirio sul rogo. Mosca è da allora centro e luogo per le proteste antigovernative. Molti in Italia ricordano, ricordiamo, la protesta mondiale delle Pussy Riot, due delle quali, Mascia Aliòchina e Nadja Tolokònnikova, nel 2012-13 furono condannate a due anni di lavori forzati nella colonia penale di Perm, liberate nel dicembre del 2013 grazie alle pressioni internazionali su Putin, in quanto c’erano le Olimpiadi a Soci e non gli conveniva. Avevano osato denunciare le collusioni di potere fra governo russo e ortodossia e potere religioso rendendo visibili le relazioni fra Putin e il patriarca di Mosca Kirill con la performance scandalosa, definita blasfema nella Cattedrale del Cristo Salvatore di Mosca. Mascia Aliòchina, madre single di Filipp, inoltre era attiva nel movimento ecologista e aveva partecipato alla difesa della foresta di Khimk attorno a Mosca, che stava per essere distrutta dal progetto di costruzione di un’autostrada. Io oggi mi chiedo, citando il titolo di un’opera del poeta Nikolaj Nekràsov: Chi vive bene in Russia? Un poema che parla della vita dei contadini, servi della gleba e delle loro sofferenze, sconosciute ai nobili che vivevano separati nei loro palazzi in città. Valentina ci descrive il quartiere dove visse Aleksandr Ràdiscev, un nobile condannato all’esilio in Siberia per avere pubblicato un libro di viaggio da Pietroburgo a Mosca in cui descrive ciò che ha visto. Ci fa conoscere Fanny Kaplan e un monumento a lei dedicato, nonostante la damnatio memoriae che a lungo l’ha bandita dalla storia della città. Aveva attentato alla vita di Lenin.
Rivolgo la domanda a Valentina: Oggi chi vive bene in Russia? perché la ribellione e la protesta nascono da questa domanda. Come migliorare la vita non solo materiale ma renderla più libera nell’espressione di sé? Io quando sento strategie politiche come quella di Putin, tipo la cosiddetta verticale del potere, che portò all’eliminazione delle elezioni autonome dei governatori e alla centralizzazione delle scelte, penso all’accentramento burocratico, al risucchiamento delle risorse a Mosca, come specchio per le allodole e così interpreto le proteste e le richieste di più autonomia delle città siberiane che si vedono sottratte le risorse dalla capitale. Dal punto di vista geopolitico vedo inoltre un progressivo spostamento della Russia verso l’Asia e mi pare che sia dimostrato anche dallo sviluppo abnorme e caotico di Mosca dal 2000 a oggi, come racconta Valentina nella introduzione. Una città asiatica molto più simile a Singapore, Hong Kong ecc.
Un’altra domanda mi preme. Come vivono le donne? Perché a differenza degli anni novanta non sappiamo più nulla delle produzioni letterarie e artistiche di giovani scrittrici o scrittori? Per esempio mi ha colpito ciò che ha scritto Chiara Zamboni in Femminismo fuori sesto, sul femminismo delle cucine nell’Unione sovietica degli anni settanta-ottanta, citando il libro di Svietlàna Aleksièvic Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo: «Allora la libertà di parola di queste donne contribuì a dare una spallata al sistema sovietico ma non creò un mondo nuovo e si è lasciato travolgere dal capitalismo» (pag. 12). Oggi Eduard Limonov richiama in Italia un grande interesse di pubblico. Sono impressioni che ho ricavato ascoltando una sua conferenza nel corso della quale ha attaccato duramente l’Aleksièvic, definendola una scrittrice nemica del popolo russo e addirittura criticando apertamente la scelta di conferirle il premio Nobel, attribuendolo anzi a una precisa volontà di attaccare la Russia e di porla in cattiva luce, denigrando il popolo sovietico.
(www.libreriadelledonne.it, 25 giugno 2018)