Incontro del 18 maggio 2013 – Libreria delle donne-Circolo della rosa- Milano-
Questa sera festeggiamo l’uscita della rivista DWF dedicata alla Storia vivente. Attorno a questo tavolo, Marirì Martinengo, Laura Minguzzi, Luciana Tavernini ed io -Marina Santini- racconteremo il nostro percorso e apriremo alla discussione sui nodi della Storia vivente.
DWF: che cos’è?
Innanzitutto per rispondere a distanza al giornalista che ci ha detto di non sapere cosa fosse DWF due parole sulla rivista che affonda le sue radici nel 1975; da allora ha seguito il dibattito del movimento delle donne, vuole essere ed è stata un riferimento essenziale per chiunque si occupi del pensiero politico e della cultura delle donne in Italia e nel mondo: è insomma una rivista di ricerca, approfondimento, memoria e storia di ciò che le donne producono.
Questo numero è dedicato a “La pratica della storia vivente”.
Con questa pubblicazione si concretizza il desiderio di far conoscere, anche in Italia, il lavoro che come Comunità abbiamo iniziato nel 2006. Dico anche in Italia, perché alcuni testi erano usciti, sollecitati dalla storica Milagros Rivera, sulla rivista spagnola DUODA (Università di Barcellona). Marirì e Laura qualche tempo fa, si mettono in contatto con Federica Giardini, allora nella redazione di DWF, le propongono la traduzione di questi testi e di dedicare un numero alla storia vivente. La richiesta è subito accolta, i testi sono accettati dalla redazione. Le difficoltà ci sono state invece nelle relazioni che avremmo preferito fossero più strette, soprattutto con la nuova redazione composta di giovani ricercatrici precarie. Noi avremmo sperato in maggiori scambi.
Chi siamo
Lavoriamo sulla storia dal 1988 come Comunità di pratica e riflessione pedagogica e di ricerca storica: abbiamo fatto insieme un lavoro politico di storia, fondato su relazioni di affidamento e di disparità, abbiamo sempre seguito la pratica di pensare, progettare, scrivere in relazione. Sono gli anni in cui, sulla spinta del desiderio di Marirì Martinengo, abbiamo studiato le badesse nei monasteri medievali, individuando la libertà femminile e il contesto relazionale come categorie della storia; abbiamo scoperto che attraverso lo studio del contesto, creato da una figura femminile che gode di autorità e centrato sulle relazioni tra donne e tra donne e uomini, potevamo comprendere e rinnovare la storia.
Nel 2005 Marirì scrive La voce del silenzio in cui afferma che “C’è una storia vivente annidata in ciascuna/o di noi”.
E da qui (fine 2006) si è verificata una svolta nel nostro lavoro di gruppo: Marirì propone la pratica della storia vivente, cioè l’indagine interiore come motore di un modo di scrivere la storia da parte di donne. Avvertiamo che con questo cambiamento di prospettiva anche il nome della nostra Comunità deve modificarsi. Nasciamo come Comunità di pratica della storia vivente.
Marirì ha quindi avuto l’idea e ha dato origine a questa pratica, Milagros Rivera la storica spagnola ne ha riconosciuto l’originalità e ne ha sottolineato pubblicamente la novità in un convegno a Roma e così l’ha rilanciata come invenzione politica per fare ricerca storica.
Come spesso accade, ci ha fatto capire Clara Jourdan in un articolo di VD, è l’altra che ti fa vedere il salto che hai fatto, che coglie la novità del tuo pensiero. Ed è stata sempre Milagros Rivera colei che ci ha fatto fare il passo verso la scrittura.
Fino alla pubblicazione su Duoda avevamo solo raccolto articoli e saggi, scritti da altre in cui noi sentivamo essere presente un’affinità e contenere alcuni elementi riconducibili alla pratica della storia vivente (la storia delle viscere di Maria Zambrano ad es.) e li inserivamo nel sito Donne e conoscenza storica di Donatella Massara.
Ora il materiale via via sempre più ricco, lo abbiamo messo a disposizione in una stanza dedicata alla Pratica della storia vivente nel sito della libreria delle donne.
Dal settembre 2011 la Comunità si è aperta all’incontro con altre, Graziella Bernabò, Gemma De Magistris, Laura Modini, Giovanna Palmeto, che avevano più volte espresso il desiderio di sperimentare questa pratica.
Contenuti della rivista.
Nodi irrisolti
Nel corso di questi anni, come emerge dai testi qui pubblicati, abbiamo indagato alcune possibili cause della difficoltà di parola pubblica femminile; ci siamo interrogate, partendo da forme di resistenza femminile -anche estreme-, a ciò che è considerato ‘sviluppo’, in relazione alla trasformazione dell’Italia da paese agricolo a industriale; abbiamo messo in luce modelli di autorità femminile come quello delle ‘salvatrici delle situazioni impossibili’; abbiamo analizzato la differenza tra munificenza e ricchezza e l’ambiguità della preferenza.
Il testo di Marirì Martinengo La voce del silenzio. Mi ha chiamata da sempre è parte del libro, del 2005, intitolato La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”. Qui è riportata la frase che ha dato inizio alla nostra pratica “C’è una storia vivente annidata in ciascuna e ciascuno di noi, costituita di memorie, di affetti, di segni nell’inconscio; Io racconto una storia vivente che non respinge l’immaginazione, un’immaginazione che affonda le sue radici nell’esperienza personale, storia più vera perché non cancella le ragioni dell’amore, non respinge le relazioni, dal suo progetto cognitivo”. La sua storia vivente era la memoria di sua nonna, Maria Massone, rinchiusa in una casa di cura poco dopo aver partorito il suo quinto figlio fino alla sua morte, molti anni dopo. Questo si può chiamare “liberazione dell’oggettività”. Non solo senza rinunciare alla verità ma mostrandola o, meglio, osando “abbracciare il vero”.
La storia respinta, storia come vita significante, nel suo testo Laura Minguzzi lavora il nodo, forse il più difficile della vita di una donna, che è la morte violenta della madre, quando la figlia è una ragazza giovane. E riesce a mettere in luce, attraverso l’osservazione dei sintomi di questo nodo, la storia del processo si trasformazione da rurale a industriale di una zona del Nord d’Italia, nella seconda metà del XX secolo. Dopo la lettura di quanto scrive Laura sarà difficile leggere il processo di industrializzazione come l’abbiamo sempre fatto.
Il volto ambiguo della preferenza. Marina Santini, partendo da un’esperienza infantile, indaga il rapporto problematico tra giudizio, uguaglianza, e preferenza femminile, vista nella valenza ambigua di valorizzazione ed esclusione, inserito nel passaggio dalla scuola elitaria alla scuola di massa degli anni Sessanta.
Luciana Tavernini inserisce già nel titolo stesso il nodo: I grumi oscuri del disordine simbolico. S’interroga sull’origine della difficoltà della parola pubblica, prendere la parola per dire ciò che è, e la rintraccia in esperienze legate alla sessualità. Parla partendo da sé, delle conseguenze che può avere la difficoltà di una madre nel trovare le parole per raccontare a sua figlia il concepimento e la nascita.
- Ultimo in questa sezione è l’articolo di Milagros Rivera La storia vivente, una storia più vera in cui l’autrice parla proprio di Storia vivente v. p. cinquantatré.
La pratica della storia vivente ha un effetto di veridicità sulla scrittura della storia. L’effetto di veridicità consiste nel legare la scrittrice (senza escludere lo scrittore) e la scrittura, legare corpo e parola intimamente, trasparentemente, luminosamente: senza separazioni tra soggetto e oggetto, senza sintesi, senza idealizzazione, senza menzogne, senza strumentalizzazioni della storia, senza nascondere ambizioni di potere; con negativi, con paradossi, con impotenza, con autocritica, con epifania di realtà, con amore, con povertà scelta.
- Segue poi una sezione in cui abbiamo raccolto due saggi.
L’intervento di Graziella Bernabò su Scrivere biografie di donne (GB è autrice di due bellissimi libri su Antonia Pozzi ed Elsa Morante) e di Marirì Martinengo Una storia personale. Omaggio alla memoria, madre del percorso storiografico in cui si puntualizza la differenza tra storia personale, biografia e autobiografia. (storia personale, cioè la narrazione, a partire da sé, di un breve periodo di vita). La storia personale è legittima al pari della storia oggettiva, per cui, entrando a pieno diritto in ambito storiografico, rompe la barriera fra privato e pubblico, con l’affermazione sottesa, che anche la testimonianza personale fa parte della nostra storia.
PRATICA DELLA STORIA VIVENTE
L’originalità della nostra pratica è che ognuna pesca dentro di sé. Un partire da sé ma non pensare solo a sé. Adottiamo un tempo dilatato, fluido in modo tale che ciascuna abbia agio di scendere nella propria interiorità, di risalirne e di riannodare l’antico al presente mettendo tutto in parola, con un via vai che prefigura quello che pensiamo possa essere il tempo della storia. Ci diamo il tempo largo del racconto e dell’ascolto. Il racconto è inizialmente della singola, esso però diventa a più voci, nel momento in cui l’una o l’altra, sentendolo risuonare dentro di sé, in analogia o per contrasto, lo collega al proprio vissuto del passato e/o del presente. Qui sono importanti la presa di parola di ognuna, l’oralità e l’ascolto reciproco. Anche se non si tratta di autocoscienza perché questa ripresa nel ricordo fa vedere davvero ciò che è accaduto. Le altre fanno da specchio e da limite. I temi emersi nella riunione precedente sono ripresi e filtrati, di nuovo interpretati collettivamente. Un avanti e indietro che riflette anche il nostro differente concetto di tempo. Questo procedere infonde forza e dà a tutte un guadagno simbolico, riconoscibile in altre situazioni, dove ognuna di noi lavora, vive o è impegnata politicamente. La pratica della storia vivente è una figura dello scambio, come dice Laura Ming., che dà forza nell’arena pubblica (una sorta di Agorà della storia), per avere voce ascoltata e ripresa nella nostra battaglia simbolica per iscrivere la differenza sessuale nella storicità. Per non stare incollate al contesto, al fare, ma pensare, produrre parole, risignificare i fatti che accadono e che sono accaduti. Questi racconti spogliati del superfluo, raffinati e portati a un livello tale da renderli validi per tutte e tutti li chiamiamo storia e costituiscono un frammento di simbolico per scrivere la storia.
Con l’invenzione di questo luogo spazio-temporale della pratica della storia vivente ci siamo incontrate periodicamente per arrivare alla scrittura femminile della storia.
Non consideriamo la pratica della storia vivente, l’unico modo di fare storia, tanto è vero che ciascuna di noi scrive altre forme di storia ad esempio Marirì con La signora del Monte (Martinengo 2011) ha scritto storia personale; Luciana e Marina si stanno occupando di storia contemporanea del movimento delle donne, basandosi su documenti e raccogliendo testimonianze.
Insomma la storia vivente – diciamo nell’introduzione – nasce dalle profondità dell’essere di colei (o colui) che scrive, è frutto dello scavo intorno e dentro il grumo oscuro che portiamo al nostro interno, di solito ignoto o ininterrogato. Si tratta quindi di un partire da sé radicale che evidenzia, fra le altre cose, l’origine della passione del nostro fare storia.
Un’operazione coraggiosa: attraversare la sofferenza, la perdita dolorosa riguarda anche la storia di un paese. Sia per gli individui, che per il paese attraversare un dolore è la possibilità di aprire una via e realizzare desideri che erano rimasti bloccati.
Attraversare il dolore libera energie dentro di noi e permette come dice Milagros Rivera di redimere il passato. Il dolore che raccontiamo, il nodo irrisolto che cerchiamo di mettere in luce ha radici sociali nella nostra epoca. La storia vivente intacca le strutture simboliche della scrittura della storia.
Sembra che quello che nasce dentro non sia storia, Milagros invece ha riconosciuto valore un modo nuovo di fare storia, trova parole e un simbolico nuovo per scrivere la storia delle donne. Rifonda la storia, rinnova partendo da quello che lei stessa ha dentro. A lei ha permesso di riattraversare, rileggere la dolorosa guerra civile spagnola, redimere vincitori e vinti. Far sì che chi fa storia entri nella scrittura è un modo nuovo di fare storia.
Altra cosa è dedicarsi alla stesura della biografia di un’altra donna.
Altra cosa ancora sono l’autobiografia racconto della propria vita o di gran parte di essa e la storia personale che ne mette in scena alcuni sprazzi, dove le emozioni, l’esperienza propria, i ricordi giocano un ruolo di primo piano e l’assunzione in proprio diventa materia stessa del narrare.
LUCIANA TAVERNINI
Parlerò solo di alcuni elementi messi a fuoco nel mio saggio.
Il primo individua il nesso tra parola pubblica femminile autenticamente legata al proprio sentire e il cambiamento avvenuto dalla metà degli anni Cinquanta e poi nei Settanta rispetto alla sessualità.
Dagli anni Cinquanta comincia lo svelamento dei misteri della nascita e del concepimento da parte dei genitori, ma spesso viene fatto maldestramente, creando un senso di vergogna verso l’origine e una svalorizzazione della capacità del linguaggio di dire la verità, riducendolo a mero strumento di comunicazione della quotidianità, contatto affettivo, suono gradevole.
Solo dagli anni Settanta, col femminismo, ha cominciato a diventare dicibile il concepimento e la nascita con narrazioni che non sminuissero l’evento e nello stesso tempo non lo rendessero prosaico. Questo ha offerto alle nostre figlie una lingua capace di dire ciò che siamo e facciamo e a non temere di farlo pubblicamente. Vi è dunque in questo evento privato una forte valenza pubblica.
Sempre in riferimento alla presa di parola pubblica da parte delle donne ho messo a fuoco un altro elemento legato alla sessualità. Sono partita dalla constatazione che per parlare pubblicamente in modo autentico occorre fidarsi di ciò che si sente. María Zambrano (“Per una storia della pietà”, in aut aut, n.279, 1997, p. 64) dice:
Tutto, tutto quanto può essere oggetto di conoscenza, tutto quanto può essere pensato o sottoposto a esperienza, voluto o calcolato, viene previamente sentito in qualche modo; […] Il sentire dunque ci costituisce più di qualsiasi altra funzione psichica; potremmo dire che le altre le possediamo, mentre il sentire lo siamo. Per questo il sentire è sempre stato un segno di veridicità, di verità viva: la fonte ultima di legittimità di quanto l’uomo dice, fa, pensa .
Vi sono però esperienze che rendono difficile capire e fidarsi di ciò che si sente e quindi essere in grado di giudicare.
Quella da me individuata è legata alle molestie sessuali soprattutto se provengono da persone stimate dalla madre. Sono episodi molto diffusi e estremamente ambigui.
Anche se la giovane trova il modo per evitare che l’esperienza si ripeta, tuttavia dentro di lei permane il dubbio sul comportamento dell’uomo. Voleva farmi del bene o del male, i gesti sono quelli dell’affetto? Ero io importante per lui o ero sostituibile? Che cos’aveva di buono, se mia madre lo stimava? Se mia madre si sbagliava, come posso fidarmi del suo giudizio? Come faccio a parlare con lei, se ciò che è accaduto è così ambiguo? Il dubbio è anche un modo per sottrarsi alla reificazione che la violenza di un essere umano determina sempre in chi la subisce. Inoltre, rispetto ai racconti tragici di violenza sulle donne, ciò che è accaduto appare insignificante, eppure sappiamo quanto ci abbia segnato.
Accade che, solo dopo la morte della madre, si diventi in grado di riconoscere e giudicare l’accaduto o, come è capitato alla scrittrice Ornela Vorspi e da lei narrato nel racconto “Corona di Cristo” ne Il paese dove non si muore mai (Einaudi, Torino 2004), se ne può parlare in una lingua che la madre non può leggere.
Non significa che una donna non parli in pubblico ma lo fa attraverso strategie di nascondimento.
Una è l’uso dell’ironia su di sé: racconti accattivanti, affabulatori, divertenti, soprattutto mimetici.
Un’altra è sicuramente il fare, ma un fare legato al far piacere: dunque nel parlare in pubblico si diventa ottime interpreti di desideri altrui più che dei propri.
E per la presa di parola pubblica su temi che stanno a cuore si parla attraverso le parole di un’altra o un altro, quasi una maschera che cela e tuttavia rivela. E spiegando in modo puntuale i pensieri, le vicende altrui, grazie alla porosità che il linguaggio può consentire, trapela qualcosa di sé. Questo è quello che accade anche alla scrittrice Azar Nafisi che nei suoi studi critici parla di donne nella letteratura classica e contemporanea persiana e nel suo primo libro di grande successo, non a caso intitolato Leggere Lolita a Teheran (Adelphi, Milano 2004), racconta la sua esperienza di insegnante e le sue relazioni con le e gli studenti attraverso testi letterari, mentre solo nell’ultimo Le cose che non ho detto (Adelphi, Milano 2008), scritto dopo la morte della madre, può parlare in prima persona, raccontando anche la storia del ‘sant’uomo’ che le si stringe contro a letto mentre lei, bimba di sei anni, sta dormendo nella stanza del fratellino, quando i genitori sono fuori per una festa e di come quest’episodio l’abbia segnata.
Ho anche presentato esempi di comportamenti di donne in cui, nel tempo e non facilmente, ho riconosciuto modelli “di autorità per un altro modo di esserci”, come li chiama Chiara Zamboni, donne che non aspettano che il capitalismo finisca, che sanno che “all’interno del tempo dei processi capitalistici si possono aprire spazi altri nei quali regni una sapienza femminile dei rapporti umani” (“La notte ci può aiutare” in Il pensiero dell’esperienza a cura di Annarosa Buttarelli, Federica Giardini, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2008, p. 59-60). Ma per queste riflessioni rimando al saggio su DWF perché penso che sia interessante avere con voi uno scambio in presenza.
LAURA MINGUZZI
UN SEME E’ STATO GETTATO.
Orfanità nella storia
La nostra pratica si rifà al femminismo delle origini. Nel mio caso posso sintetizzare che quando il fare sopraffa il pensare per riempire il buco della perdita, della mancanza, all’orfanità nella vita corrisponde l’orfanità nella storia. L’autorità che ho riconosciuto a Marirì Martinengo mi ha permesso di prendere la parola, cioè raccontare l’esperienza della perdita, riattraversare il dolore, far emergere la verità, far parlare un’esperienza muta. Perciò io chiamo la pratica della storia vivente, una figura dello scambio. Agisce in modo trasformativo e toglie dall’impotenza, dall’afasia o dalla cecità. (impedendo la visione del cambiamento o il cambiamento stesso). Un attraversamento del dolore senza soccombere ma anzi trasformandolo in forza, in energia, in parola, in scrittura della storia della condizione umana, in un periodo storico preciso. Questa pratica ha permesso di fare comunicare fra loro la mia esperienza con quella di Marirì, distanti per differenza di classe. Il di più, la disparità, agiti, per noi sono stati generativi poiché abbiamo scelto di investire questa ricchezza nel mondo, e questo numero della rivista DWF ne è il frutto.
La storia respinta, titolo del mio testo, narrazione di ciò che è stato rimosso, taciuto della storia dell’Italia contadina, nel passaggio cruciale all’economia industriale per finire, irrimediabilmente deturpata, nell’era postindustriale. La figura di mia madre, una contadina piegata dalle circostanze che vorrebbero obbligarla a lasciare la campagna, e poi le inutili quanto crudeli terapie seguite alla depressione. E alla fine la tragedia, solo da morta lascerà la campagna amata. Che però è anche per me l’epoca delle donne che studiano, che vanno avanti più degli uomini. Una contraddizione da riattraversare.
Gli ostacoli a questa pratica: la difficoltà del partire da sé, l’incertezza nel determinare il proprio desiderio, la fatica del giudizio, la paura del conflitto, contestualizzare, stare in tensione, saper attendere il tempo maturo, il kairos, per la realizzazione dei propri desideri; tenere vivo il desiderio richiede forza e consapevolezza, cose possibili sono in una pratica collettiva aperta, ricca di mediazioni su piani differenti: per esempio nel 1977 il mio prof. relatore della mia tesi pubblica su DWF una parte della mia tesi sui Movimenti Femminili e femministi nella Russia dell’ottocento, senza nominarmi. Allora era la prassi. Questa cosa mi ferì, la sentii profondamente ingiusta, una violenza. Anche questo episodio ha contribuito a far nascere in me il bisogno di verità storica.
Pubblicare c’è costato fatica, tempo e denaro ma il nostro desiderio ha prevalso. Per me era irrinunciabile il bisogno di verità storica, di giustizia, di riscatto, di dare valore alla memoria, madre della storia. Posso affermare perciò che attraverso questa pratica, non rivendicativa, ho sentito di avere ottenuto giustizia. Un sentimento molto soddisfacente, godere della giustizia senza far ricorso alla violenza.
Ringraziamenti e riscontri:
Luisa Muraro ha pubblicato nel sito della Libreria una breve recensione: “Una nuova proposta storiografica” mettendoci in guardia da un pericolo da evitare, “attenzione a non andare a coincidenza, a volere stabilire voi stesse i risultati, il percorso della storia. La lettrice o il lettore solamente potranno dare indicazioni. Il cammino resta aperto. Non immaginare l’exitus, la via d’uscita, l’esito della ricerca”.
Katja Ricci della Merlettaia di Foggia: “Questa pubblicazione segna un punto fermo nella ricerca storica, la vostra Comunità è un riferimento importante”.
Anna Potito della Merlettaia:
Cara Laura,
Ti scrivo per ringraziarti del dono che mi hai fatto a Roma in occasione del Convegno delle Città Vicine, il numero di DWF dedicato alla pratica di storia vivente.
In particolare mi ha colpito la tua narrazione di una vicenda così personale e delicata. Importante ripensare il racconto di ciò che è stato come una cammino e non un paradigma, un cammino che ci consente di ricreare il senso del passato e reinterpretarlo in maniera simbolica. E’ un po’, per me, la spinta a superare la mia innata pigrizia e riprendere i fili di cose lasciate indietro.
Drilli Cicutto del gruppo Lavinia Fontana di Bologna: testi bellissimi, scritti molto bene e molto coinvolgenti. Una proposta politica originale.
Stefania Giannotti di Estia: la scrittura è molto curata, racconti molto interessanti. Un buon lavoro sulla storia.
Annamaria Rigoni, amica e cuoca del Circolo della rosa mi scrive
Ciao Laura, mi spiace molto di non poter partecipare alla presentazione del vostro progetto sulla storia vivente, ma da tempo avevo programmato questo viaggio per mare, quindi mi piace immaginare che il mio testo vi raggiunga come un messaggio arrivato in una bottiglia depositata sulla riva.
Avrei voluto dirvi che il libro che avete pubblicato con DWF mi è molto piaciuto, e vorrei sollecitarvi non solo a continuare sulla strada che avete già intrapreso, ma anche ad ampliare il vostro sguardo, cercando di mettervi maggiormente in relazione con quegli ambienti, un po’ chiusi e forse anche con la puzza sotto il naso, abitati da storiche e storici.
Mi è molto piaciuto nel libro il legame tra le storie narrate e la “Storia”, come se le donne che venivano illuminate dalla vostra ricerca fossero in grado di narrare qualcosa in più della loro storia personale, donne che stavano parlando del mondo, dei grandi eventi che stavano attraversando la vita di milioni di persone.
Così la storia della madre di Laura racconta il dolore vissuto dal mondo contadino nella separazione violenta dal proprio contesto rurale per venire scaraventati in un mondo “moderno” e consumista che non apparteneva loro. La storia della nonna di Marirì invece sembra narrare i primi desideri di emancipazione delle donne, che non si sentono più soddisfatte della vita di casalinga dipendente da un marito distratto, ma che hanno altre aspirazioni, in anticipo sui tempi, che non vengono viste da una società bigotta.
E la maestra di Marina racconta un altro passaggio, dalla scuola di elite alla scuola per tutti, e potrei andare avanti nel descrivere come le storie individuali si intreccino sempre di più con la Grande Storia narrata nei libri. Storie che possono raccontare il presente e il vivente nel momento stesso in cui accadono e non molti anni dopo.
Quindi il mio invito è di rendere sempre più espliciti questi legami, di darvi il coraggio di mostrare al mondo (e non solo alle donne della Libreria e poche altre) la vostra bellezza.
Dibattito su DWF (N°3, 2012), Pratica della storia vivente, Circolo della rosa, 18 maggio 2013
Trascrizione della registrazione a cura di Serena Fuart e Laura Minguzzi.
Pinuccia Barbieri: Vorrei chiedere a Marina se può dire qualcosa in più sulla maestra che fa la preferenza.
Marina Santini: La bambina preferita dalla maestra, questa è la condizione che descrivo nel mio testo. Una preferenza escludente. Con la politica c’è stato un salto logico e storico.
Liciana Cella: A scuola ricordo che c’era una insegnante che faceva le preferenze tra l’una e l’altra. Ma fra di voi chi decide, chi fa la preferenza fra l’una e l’altra? Io a scuola avrei dato chissà cosa per fare la foto vicina alla maestra. Non ci sono mai riuscita. Ma fra di voi come funziona? Chi preferisce chi?
Graziella Bernabò: A scuola è l’insegnante che fa capire che preferisce una bambina e le altre si sentono messe da parte. Io, per esempio, avrei dato non so cosa per fare la fotografia dell’anno vicino all’insegnante e invece non ci sono mai riuscita. Ero sempre seduta nella prima fila. Però fra voi chi fa capire, chi è preferita da chi?
Luciana Tavernini: Il passaggio è rendere esplicita la preferenza che fa crescere tutte. Anche Marina ha detto prima che il concetto è rendere esplicito ciò che tu preferisci e far vedere all’altro il valore aggiunto che dà quella persona al gruppo che è qualcosa di diverso dalla preferenza non motivata. In classe si valorizza quello che viene fatto dall’una e dall’altra e in questo modo si mostra che non sono tutte uguali ma che ciascuna dà contributi diversi. Si spinge le altre all’imitazione di qualcosa che viene dato in più, messo in gioco, ed è un passaggio che c’è stato negli anni 80.
Marina Santini: E’ un concetto che deriva dalla pedagogia della differenza. Si tratta di rendere esplicita la differenza per far crescere, di fatto, tutti.
Vita Cosentino: Questa questione mi sta intrigando. C’è stato, all’inizio della pedagogia della differenza, il nodo che il preferito era sempre il maschio. La questione era di sottolineare il fatto che la bambina, la ragazza era una donna come l’insegnante. Era questo il gesto simbolico, quello di riconoscersi dello stesso sesso, gesto che veniva visto come preferenza, era una cosa simbolica che è stata portata nelle scuole per far vedere che, nel simbolico, l’insegnante donna era dello stesso sesso delle studentesse. E questo toglieva il concetto del siamo tutte uguali. Si esplicava questa differenza: siamo maschi e siamo femmine non siamo uguali”.
Laura Modini: Si capisce bene che il discorso della preferenza nasce in una scuola di classe per cui ho sentito vicino il suo racconto perché anch’io ero preferita dalla maestra. Siccome la mia famiglia era povera, io volevo essere brava per avere la preferenza della maestra ma poi disobbedivo e perdevo quella preferenza. Alla fine la mia perversione mi ha portato a rifiutare il fatto della preferenza della maestra.
Angela: Questa mia osservazione è in realtà un’implicita domanda, un dubbio. E’ questa: nei vostri testi ho trovato un elemento comune che è quello che la storia personale, che sia un grumo o una molla che fa scattare la storia personale avete illuminato….si tratta allora di illuminare un fenomeno storico o un periodo storico. Anche lo scritto di Laura Minguzzi, che racconta i flussi migratori urbani dalla cultura agricola, all’industrializzazione, è illuminante. I grossi fenomeni sociali sono visti a partire da storie concrete e questo credo che sia preziosissimo. Mi chiedo: è questo il campo, i fenomeni sociali, questi sono gli ambiti storici privilegiati di questa indagine, questo cammino nuovo?
Mariri Martinengo: Volevo ribadire la distinzione tra storia vivente e storia personale. La storia vivente è quella che nasce da un profondo disagio che ciascuno sente e determina delle scelte o non scelte, è alla base della vita che noi facciamo. L’incubo che era dentro di me, della nonna rinchiusa in manicomio di cui non si poteva parlare, e, vedendolo a distanza, ho capito che ha determinato come sono diventata cioè ho voluto solo una figlia perché questa nonna ne aveva cinque ed era stroncata dai parti. Verso la fine Ottocento, i primi del Novecento, nell’ambiente borghese una donna chiusa in manicomio era una vergogna ed era proibito parlarne. Questo silenzio ha scavato profondamente dentro di me e mi ha fatto diventare quella che sono. Questo groviglio interiore muove un nuovo modo di fare storia. La storia personale è più semplice. Si sceglie un periodo che pare interessante e lo si racconta, lo si espone. E’ un periodo, un lungo periodo in caso di autobiografia, ma non ha niente a che fare non ha legami con un grumo interiore, con il dolore. Quello che volevo aggiungere alla bella introduzione di Marina: il fatto che Milagros Rivera abbia riconosciuto il mio lavoro come storia ha fatto sì che il dolore, l’amore, la relazione entrassero nella storia perché non ne hanno mai fatto parte da quando la storia è diventata, con il positivismo, una scienza. Tutto quello che riguardava la storia di chi scrive, non era materia di storia. Noi abbiamo fatto sì che chi scrive entri nella storia, ne faccia parte, non si nasconda dietro gli avvenimenti, i fatti, cosa che non è sincera perché dietro la storia oggettiva, si sa, ci sono delle scelte.
Pasqualina De Riu: I brani che ho sentito leggere mi sono sembrati dei testi letterari….Io per dieci anni ho fatto ricerca didattica su un territorio ai confini tra storia e letteratura usando i testi letterari soprattutto la letteratura del Novecento per ricostruire la storia dei sentimenti. Per fare questa operazione bisognava distinguere ciò che nel testo c’era di verità e quello che era immaginazione, perciò era un lavoro molto lungo che ci portava a usare strumenti che andavano dalla semiotica alla psicanalisi per scoprire una qualche verità. Penso che scrivere salti tutte queste operazioni, che ci voglia direttamente la verità e che si possa costruire una storia dei sentimenti, che sia una storia vera e allora dico: scriviamo, facciamo questo tipo di operazione. Questa storia personale può portare a descrivere una storia dei sentimenti come si è fatto in Francia e da parte degli storici…
Mariri: Non è storia personale
Laura Minguzzi: Mariri insiste che non si tratta di storia personale ma è storia vivente. La fatica è individuare il nodo problematico e irrisolto che ha determinato le nostre scelte.
Marirì: La storia personale è una cosa molto più leggera, si racconta un pezzo della propria vita ma senza andare a scavare dentro.
Intervento dal pubblico: Vorrei che Mariri mi facesse capire meglio come funzionano le relazioni fra di voi..Il suo percorso è iniziato prima che cominciasse il gruppo e il suo lavoro è stato valorizzato da Milagros. Invece dici poco del rapporto che hai avuto con le altre e che forse devono aver avuto un ruolo per farti sentire che si trattava di storia vivente invece che di storia personale.
Mariri: noi quattro abbiamo un fortissimo rapporto, una relazione molto intensa che nasce alla fine anni 80 perché abbiamo fatto diverse esperienze di scrittura nella storia. Con loro ho un legame forte.
Il nostro iter risale alla fine anni ottanta con diverse esperienze di storia. Quando ho sentito il desiderio di raccontare, perché era venuto il momento, la storia che avevo dentro, che mi dava ansia e angoscia, mi sono ritirata dal gruppo e ho lavorato da sola. Sentivo la necessità di vedere questa storia da sola però quando questa esperienza ha acquistato la dignità di storia che le ha dato Milagros mi sono reinserita in questo carissimo gruppo che ha accettato e accolto questo progetto. Abbiamo lavorato insieme. Laura, Marina e Luciana hanno indagato quello che stava dentro di loro, che riconoscevano che le aveva determinate e aveva determinato certe cose, come la storia di Laura che ha avuto un impatto molto forte sulle sue scelte e motivazioni. Abbiamo continuato insieme e siamo andate avanti. Il gruppo si è allargato e ciascuna delle nuove sta lavorando su un argomento. Ma prima bisogna che ciascuna veda qual è il grumo, il nodo, il punto oscuro e lo tiri fuori pian piano. E’ importante che ci sia l’intervento delle altre per chiarirlo, bisogna aspettare a scrivere e lavorare con il pensiero. Ma non solo il proprio pensiero ma quello che emerge dal confronto con il pensiero delle altre in modo che il racconto di ciascuna sia ripreso e le altre abbiano la possibilità di dire quello che sentono, come lo avvertono. Ci diamo tanto tempo per arrivare poi a scrivere senza fretta e del resto le scritture stanno a dimostrare che poi ci arriviamo.
Luisa Muraro: Io volevo riprendere l’intervento di Pasqualina. Mi pare sia quello che più contribuisce al vostro progetto. Lei ha detto una cosa molto giusta: i testi scritti, vostri, sembrano nascere sul bordo (qualcuna ha anche detto che c’è della letteratura, voi non avete escluso ci sia dell’immaginazione) sul bordo tra letteratura e storiografia. Lei dice che, per esplorare questo bordo, col suo gruppo hanno messo in mezzo delle tecniche di analisi sofisticate…l’osservazione è giusta; è come se voi faceste luce su quel bordo con procedimenti che non sono quelli classici, che loro hanno usato per esplorare quel bordo. Qual’ è il procedimento che usate? E’ questa la mia critica alla vostra impresa, bella che dice di essere nata ex novo. Io dico è la pratica dell’autocoscienza, del partire da sé, che rampolla secondariamente; un’altra cosa ovvero la capacità di esplorare il bordo è quello che dicono le scrittrici, gli scrittori che partono dai rovelli, dai nodi e poi ne fanno una cosa dilettevole che noi possiamo leggere. Io sto rileggendo per la quarta volta Jane Austin che mi racconta la sua storia vivente nella fiction mentre se studio i malloppazzi di storia inglese di fine Settecento – Ottocento vedo l’altra faccia della luna. Invece voi avete trovato l’accesso diretto ed è quello che Pasqualina ha notato genialmente. Secondo me avete trovato una accesso diretto che poi Mariri confermava “ ci raccontiamo con parole che fanno echeggiare la psicanalisi che però non è la psicoanalisi, la echeggia soltanto”. Ci vuole l’ascolto, i tempi lunghi. C’è il rovello e quello che produce tutto questo e in questo senso vedo questa impresa su solide basi. Non per togliere il merito a Mariri, tra lei e me c’è sempre questo gioco, dò a Marirì i meriti che è giusto darle e altri che sono notevoli. Riconosco il lavoro che è ottimo, ma dico che ha le sue radici in quella rivoluzione simbolica del femminismo che prende forza, vita, in mezzo mondo che dopo è stato dimenticato ma in questo paese che sarà pure scalognato, quella rivoluzione simbolica non ha mai smesso di lavorare e loro sono espressione di questa fecondità, di questa rivoluzione simbolica. Sono una loro sostenitrice.
Mariri: Vorrei ritornare a quando si è parlato di psicoanalisi. Volevo fare un chiarimento. Questo non è un lavoro psicoanalitico. Il nostro lavoro è finalizzato alla storia. Quando ognuna di noi, specialmente le nuove, parla, dicono la loro esperienza, non mi stanco di dire sempre: “Contestualizza questo tuo disagio, dì da quale momento storico era sostenuto e fomentato”.
Franca Fabbri: A me è piaciuta molto la vostra posizione ma mi ha colpito in modo particolare il racconto di Laura Minguzzi. Mi ha fatto pensare a un libro che si chiama Prenditi cura di lei di una scrittrice coreana che mi ha ricordato tutto quello che avete detto. La storia è di una madre che aveva accudito ai figli che poi erano andati in città a lavorare lasciando la campagna dove lei li aveva allevati cogliendo le radici dal terreno. Mentre va a trovare un figlio a Seul, nella metropolitana congestionatissima, il marito sale in treno e lei resta giù, perdendosi per sempre. Nonostante avessero affisso biglietti in tutta Seul e cercata ovunque, la madre non compare più, non si sa come sia finita. Da quel momento, dalla sua scomparsa, la figlia scrittrice si accorge, ma solo allora, di quanto questa madre abbia fatto per loro. Il racconto di Laura Minguzzi mi ha suscitato il ricordo di questo libro.
Corrado Levi: Io mi pongo un problema. Mi è sembrato di sentire molte volte il grumo, la questione che dà sofferenza, che può aver influenzato tutta la vita. Però se io penso alla mia vita, io sono una costellazione di grumi come una maionese andata a male. Se mi fisso su uno, scopro che altri grumi hanno modificato quello lì ed è tutta una successione di cose. Però analizzarne uno può diventare consolatorio, l’ho sciolto, l’ho capito ma mi pare che…la psiche umana…tanto più che voi dite che eventi e situazione cambiano le cose che non sono più quelle. Ci sono tanti grumi. Non è un’obiezione. E’ una differenza a quello che ho sentito
Luisa Muraro: Se leggi il numero di DWF, capirai.
Vita: Anch’io volevo dire una cosa a questo proposito. Ognuna di noi può scrivere un’unica storia però io volevo, anche sulla base di quello che è stato detto in precedenza da Pasqualina, tornare su questa divisione su cui insistete: storia vivente e storia personale. Perché non mi convince tanto. Se la parola “storia” è usata in due significati diversi, questo crea una confusione. Perché invece di dire storia personale, non diciamo autocoscienza o racconto? Perché secondo me nella storia personale, oltre il grumo, che può essere una cosa diversa, possono esserci delle questioni che emergono e s’incrociano con quello che tu, Marirì, dicevi, ovvero contestualizzare l’aspetto più storico della questione e così si viene a creare un mosaico. Un incontro per tante come me, della nostra generazione, è quello che ha cambiato la vita e si è incrociato con la storia generale. Però è partito da una cosa che non era un grumo, un nodo della vita. A me sembra che la cosa che avete conquistato e tirato fuori è importantissima però adesso che c’è possa anche essere dipanata e si possano vedere tante cose. E’ un’ipotesi.
Luisa Muraro: Voglio dire a Vita che c’è una vera importante differenza tra storia personale e storia vivente. Bisogna leggere i testi. La storia vivente è vivificatrice della storia. La storia personale è la mia storia dove io, nella persona che sono riuscita a diventare, la faccio vedere; è la realizzazione che è la mia persona con tutto il contesto e il contorno. La storia vivente, come loro hanno imparato a scrivere, ha dei procedimenti che Mariri ha esposto prima e che non sono quelli della psicoanalisi. La storia vivente è vivificare quella che è la storia. Leggendo la storia della nonna taciuta dalla famiglia borghese, si può vedere un pezzo della storia della borghesia medio alta. Leggendo il tuo librino Tam Tam, si può notare che quello è un frammento di storia personale, un documento ma se poi è rilavorato mostra un cambiamento storico di quella che è una condizione dell’essere vivente che sei tu, colpita da un’invalidità e cominci a pensare, a elucubrare. Questo chiamiamolo grumo, che fa luce su tutto un modo di essere di amiche, di mariti, di una realtà sociologica della Lombardia. Loro erano già un gruppo di storiche dobbiamo ricordarlo, non sono un gruppo di autocoscienza, l’avevano il mestiere e quello che Mariri inventa a un certo punto del percorso ribalta il tutto. In questo senso hanno ragione a insistere che storia vivente e storia personale sono due cose diverse. Volevo chiedere una cosa. Marina dice che poi ciascuna di noi continua a fare storia: qual è la cogenza della vostra invenzione, quando uno inventa l’America dopo non è che continua a parlare come se l’America non ci fosse, sa bene che la cosa si sta impostando. E’un optional, un di più o c’è…vorrei uno statuto perché quando si fa un’invenzione bisogna scommettere.
Luciana Tavernini: Innanzitutto quando parliamo di grumi ci interessa parlare di quello perché ci permette di creare un simbolico nuovo per quell’esperienza, altrimenti diventa un’esperienza non nominabile. Ad esempio Milagros parlava della differenza tra vincitori e vinti come categoria storiografica. Lei dice che, analizzando la sua esperienza di donna vissuta sotto il franchismo, con genitori franchisti, si è accorta che sua madre era tra le perdenti perché con la vittoria del franchismo è stata cacciata dall’università. Questa separazione tra vincitori e vinti non è una categoria storiografica che funziona sempre per le donne, va ripensata. Questo, per esempio, era un suo nodo che la tormentava. Sicuramente non tutti i nodi sono uguali per tutte ma ciascuna porta un pezzetto nuovo, di interpretazione della vita delle donne, ma della vita anche degli uomini perché come è interpretato dal simbolico attuale non ci rappresenta. Certo che ci sono tanti grumi ma ad alcuni a riesci a dare un linguaggio per esprimerli e ti accorgi che è giusto quel linguaggio perché ti senti liberata, con un’energia più forte e riesci a parlarne perché hai l’energia che il grumo bloccava.
Sulla questione: perché continui? Non è vero che si continua nella stessa maniera perché quando hai individuato quella categoria interpretativa anche nel fare storia in cui non ti metti dentro come soggetto immediato ma racconti la storia in cui tu ci sei stata, per esempio nel femminismo, utilizzi anche altre forme narrative diverse dalle categorie che tu hai individuato e te le giochi.
Marirì: A me hanno sempre interessato le cose nascoste di cui non si può e non si deve parlare o sono dimenticate come l’infanzia. L’ultimo libretto che ho scritto era per la curiosità di indagare, raccontare, vedere quello che è l’infanzia, cioè un territorio sconosciuto, misterioso, remoto e non mi sembra che contraddica la Signora del monte. Quello è un divertissement, non contraddice la mia passione, il mio interesse per la storia vivente.
Marina: Facendo la pratica della storia vivente ho guadagnato modi di leggere la storia che mi danno un’altra possibilità, un’ altra visione. Certo se faccio ora la storia del femminismo ci sono dentro con la mia esperienza di seconda generazione ma non è la storia vivente perché non parto da nessun grumo, parto da un racconto fatto di documenti, testimonianze ecc. Cosa vado a cercare? Vado a cercare nelle testimonianze di chi mi darà aiuto nel fare questo libro un qualche cosa che parte da sé. Ma la storia vivente è un’altra cosa, è un tirare fuori delle questioni e individuarne modi nuovi per dire cose che non era possibile dire prima. Sono parole diverse.
Laura Modini: Volevo portare la mia esperienza a partire dal famoso grumo. Quando ho partecipato ai primi incontri ho rimosso i miei grumi perché era appena morta mia madre e stavo malissimo. Era un grumo spaventoso quando sono arrivata lì ho rimosso tutto e ho cominciato a dire che volevo fare una ricerca sulle donne briganti. C’è stato uno spostamento di cui io stessa non mi rendo conto di come possa essere avvenuto, fatto sta che ho fatto il volo verso mia nonna, avevo l’immagine di mia nonna che era vestita con sottanoni e fularone incrociato ed era un’immagine che io rivedevo nelle brigante solo che loro avevano i fuciloni. E io ho insistito che volevo fare questo lavoro perché ci credevo, ho acquistato i libri, mi sono informata. Poi mi sono calmata ma è stata la copertura di questo grumo che chissà quando mai verrà fuori perché non è un grumo, è un cespuglio, lo vedo come una ragnatela con tanti grumi. Bisogna cogliere il primo che aggancia poi tutti gli altri.
Luciana Tavernini: o quello che sei in grado di dire in quel momento. C’è un limite umano che è quello che riesci a vedere e altre cose rimangono lì.
Giovanna Mariani: Io faccio terapia per il mantenimento della salute in modo naturale, mi fa sorridere il fatto che voi non volete fare le analiste. In realtà…dico che state aiutando innanzitutto il processo storico a guarire, state aiutando la guarigione, state aiutando la vostra di guarigione. E’ una cosa splendida perché è proprio partendo da un contesto personale, dalla propria generazione e contesto storico che si fanno i cambiamenti a livello mondiale, perché poi se non collaboriamo verso questo processo collettivo di guarigione verso una vita più felice di pace, se manca il nostro contributo personale manca un grosso anello e ogni generazione ha la propria responsabilità verso se stessa del cambiamento del proprio periodo storico- sociale e deve rendere conto solo a se stessa, non a chi viene prima come padri, nonni ecc.. né a chi viene dopo. Ci sono poi varie consultazioni, aiuti, consigli ma è importante capire che è una responsabilità personale e che è bello parlarne con quelli-quelle della propria generazione.
Letizia Bianchi: Ho letto il libro con piacere e con molto interesse, probabilmente lo rileggerò. Il sentimento che ho, e che è anche un ricordo, Laura lo sa, è di quando noi tutte di Bologna pensavamo di fare una riflessione, l’autocoscienza e di metterla in politica. Io in questo ci vedo un inizio o un proseguimento e un andare avanti. Leggendo il testo di Laura mi ha colpito sia la bellezza con cui tu scrivi questo testo sia quello che riesce a illuminare, vivificare, di quella storia, pezzo fondamentale di quegli anni, attraverso questa tua presa in mano della tua storia che non volevi che fosse più taciuta, perché non faceva parte, non era tenuta in conto quando si faceva storia di quegli anni. In certa storia c’era molto di verosimile proprio perché era taciuta tutta una parte di esperienza. Un’altra cosa che mi colpisce molto è che si può dire che si può essere esperti disgiungendo dall’esperienza propria e degli altri. Voi invece di questo fate punto di forza, c’è un’urgenza, qualche cosa che si sente nella vostra scrittura c’è qualcosa …che lì voi giocate fino in fondo il vostro mestiere, vita e passione. Però io ci vedo un cammino, un andare avanti e mi fa piacere anche perché non è una cosa che riguarda solo la storia ma dice qualche cosa poi non lo so se è vivente o personale, mi piace se vivifica, se illumina, sento che c’è lo scarto fra personale e vivente e voi riuscite a dire qualche cosa che ci riguarda tutte.
Luciana Tavernini: A proposito di quello che ha detto Giovanna leggo una frase: “cambiare la rappresentazione delle donne cambia quella di tutto il contesto e certamente cambia la storia e il lavoro della storica quando lei non si propone più di diventare la migliore specialista dello specialismo di cui si occupa. Quello che le dà da vivere e le offre una collocazione sociale. Se la storia, come tutte le discipline, torna alla funzione primaria della conoscenza e cioè di aiutare tutto il genere umano a vivere al meglio allora questa può essere una strada per un nuovo inizio”.
Laura Minguzzi: Sono d’accordo con Letizia sul discorso dell’urgenza. Come il femminismo è stato un’urgenza, dovevamo parlare, andarcene, rompendo quello che c’era prima così la storia vivente è diversa dalla storia personale: c’è uno scarto che è l’urgenza ovvero questa cosa la devo dire adesso. E’ una necessità, una necessità storica quindi ha un carattere universale che parla della condizione umana.
Marirì: ..è proprio la necessità di dire che fa la differenza con la storia personale.
Intervento: Il libro di Marirì uscito nel 2000 è un libro particolare non perché parte da un grumo. E’ che lei va a scavare in una realtà di menzogne, di coperture, tipica di un’epoca, cosa che non avveniva in altri momenti storici come nel mondo romano o nei nostri giorni. Quindi rivela un momento storico non solo un discorso suo.
Intervento: sapete di altri gruppi o giovani in particolare che abbiano la pratica di questo genere?
Luciana Tavernini: Ci sono altre donne con cui siamo in sintonia come con Maria Zambrano. Per esempio abbiamo visto un film di un’argentina in cui la protagonista ripercorreva la storia della madre in una maniera molto simile alla nostra. Vedevamo un modo di fare storia che partiva dal silenzio che la protagonista aveva con la madre che era medico all’epoca della dittatura e aveva perso un’amica. Attraverso quella vicenda si era ripercorsa tutta la storia dei desaparecidos. Era proprio da questa difficoltà di collocare la posizione della madre che si basava il film. Possiamo trovare altre donne con cui sentiamo sintonia e la dichiariamo. Sicuramente il pensiero di Maria Zambrano che dà importanza alle viscere ci è vicino, è un elemento che produce conoscenza.
Manuela: Io non ho letto questa rivista ma sono interessatissima a questa proposta anzi se posso partecipare al gruppo, mi piacerebbe. La mia storia personale è banale ma sono un paradigma di grossi nodi: ho sessanta anni, ho fatto il sessantotto, sono figlia di meridionali, persone anziane che hanno vissuto il fascismo. Sono un paradigma di nodi che m’interesserebbe affrontare, ne ho tanti e personalmente ho il nodo di essere stata una femmina in una famiglia piccolo borghese di un certo tipo a cavallo degli anni sessanta, nel cuore della storia. Ho capito la differenza tra storia personale e storia vivente. La storia personale è molto più semplice e per quanto riguarda la storia vivente sento molte volte di aver bisogno di individuare che cosa mi ha fatto fare certe scelte.
Giovanna: In qualche modo quello che volevo dire l’ha mostrato lei; perché dico che si comincia sempre a lavorare sul nodo più doloroso e più ricorrente e l’urgenza lo è. Questo è il mio piccolo contributo, da lì si sciolgono tutti gli altri nodi, si passa dal livello corporeo a quello psicologico. Vi devo ringraziare per quest’interessante lucidità di riportare tutto alla storia, alla verità personale nel contesto storico. Si parla tanto di scrittura – terapia, in parte questo ci rientra ma diventa un bene collettivo perché c’è questo interessantissimo aspetto di lucidità ricorrente che ringrazio. Lo terrò più presente perché di solito avevo presente la storia personale contestuale perciò non così storicamente lucida mentre adesso, pensando anche ai passaggi della mia vita, mi rendo conto della loro importanza.
(Libreria delle donne di Milano, Report integrale incontro al Circolo della rosa, 18 maggio 2013)