Circolo della rosa
Buonasera a tutte e tutti e benvenuti in questa serata di discussione dell’ultimo quaderno della Scuola estiva della differenza di Lecce, quello che dà conto della XII edizione dal titolo “Un punto fermo per andare avanti. Saperi, relazioni, lavoro e politica”, che si è tenuta a settembre del 2014. Il libro è edito da Milella ed è uscito nell’Agosto di quest’anno, lo potete trovare in Libreria insieme ad altri volumi della scuola. Qui in Libreria all’inizio di quest’anno abbiamo già discusso il volume precedente, relativo alla XI edizione della scuola del 2013, intitolato “Quando la differenza fa la politica”, durante il primo degli incontri del ciclo “Femminismo tremendamente vivo” ideato da Luisa Muraro (potete trovare il video sul canale youtube della libreria https://www.youtube.com/watch?v=wWlO73Jdn8k ). In quell’occasione era presente anche Marisa Forcina, l’ideatrice della scuola estiva di Lecce che oggi purtroppo non è riuscita a venire.
Quella della scuola estiva è un’esperienza di grande valore. Nata in seno all’università, vive tuttavia di relazioni femminili che hanno a cuore la politica delle donne e la ricerca di libertà, e crea un’occasione unica di scambio con femministe e realtà del femminismo italiano e internazionale, dislocate anche molto lontano dal Sud Italia (alla scuola, per esempio, hanno partecipato Luce Irigaray e Françoise Collin, ed è una presenza costante la Libreria delle donne di Milano). Stasera a parlare dell’ultimo libro uscito ci sono due delle autrici, che hanno fatto una lezione alla scuola del 2014: Sara Gandini e Stefania Ferrando che, per chi non la conoscesse, si è appena dottorata a Parigi, dove vive, con una tesi su delle giovani femministe dell’inizio dell’800 e insegna filosofia politica a Strasburgo.
Prima di lasciare la parola a loro, vorrei brevemente darvi alcuni spunti di lettura di questo volume, a partire dalla premessa – quasi un programma – che Marisa Forcina scrive nella sua introduzione al libro. L’intento è, cito le sue parole: “ripartire da una grammatica che consente di andare avanti e chiarire ciò che ci è essenziale” (p.9).
Il primo filo che attraversa gran parte degli scritti è quello del rapporto con la memoria e la storia, per molte autrici un punto essenziale per illuminare di senso il presente e per non mettersi nella posizione di chi deve sempre ricominciare da capo: è vero che noi donne abbiamo un’eredità senza testamento, cioè una storia senza le istruzioni per l’uso, come scrive Fina Birulés, ma posizionarsi in una genealogia femminile e riconoscere la forza di donne vissute fuori dai canoni, non previste dall’ordine vigente, restituisce forza anche a noi oggi. Per esempio Fina Birulés propone una “politica della memoria; cioè una responsabilità della memoria, un farsi carico dell’eredità delle donne del passato, non più solo per denunciare la discriminazione e l’esclusione, ma soprattutto perché, come ho detto, senza passato né futuro, il presente ci diventa opaco, sempre identico, non c’è possibilità di innovare o conservare e, quindi, non c’è possibilità di aggiungere qualcosa di proprio al mondo” (p. 28). Il discorso sulle genealogie è essenziale per il femminismo, lo sappiamo a partire da Luce Irigaray. E per le donne è una sfida perché abbiamo a che fare con genealogie lontane e genealogie prossime, in primis il rapporto con la madre, elemento da tenere in conto se vogliamo far politica non ripartendo sempre da capo.
Stefania intitola un paragrafo “ritrovare il filo della storia” e rivisita le vicende di un gruppo di giovani donne, le sansimoniane, in cui rintraccia i segni della libertà femminile usando il metodo indiziario (a partire dal rimosso, dagli scarti, dai particolari non rilevanti per la Storia con la esse maiuscola), non diversamente da Fina Birulés.
Helena Gonzales Fernandez fa una ricerca sulle riviste femministe viste come piazza pubblica in cui chi scrive e chi legge fa comunità.
Elena Laurenzi, nel suo articolo intitolato “Punti luminosi per guardare avanti” scrive: “Ciò che muove la memoria storica è dunque una domanda del presente che sorge in una fase di stasi, quando la speranza si arresta di fonte all’enigma del passato e alla sua impronta nel presente […]. La conoscenza storica sorge dalla necessità di estrarre dalle cose passate il loro senso, di “trasformare l’accaduto in libertà”, la fatalità subita passivamente in destino consapevolmente affrontato” (pp. 114-115).
Ritroviamo altri elementi di questa ricerca sulla storia in Wanda Tommasi, che riprende Carolyn Heilbrun quando mette in evidenzia che spesso si interpreta la vita di una donna secondo quanto stabilito dal simbolico dominante, forzandola in stereotipi lontani dalla verità della sua esperienza. Invece “potersi rispecchiare in biografie non convenzionali è un grande aiuto per avere il coraggio di osare a propria volta percorsi di vita, esperimenti esistenziali fuori dai canoni già dati” (p.167).
L’altro filo che vorrei evidenziare stasera, che percorre tutto il volume essendo ovviamente intrecciato con questo che ho appena detto è quello della differenza, in alcuni saggi messa a tema e messa alla prova della storia e del presente, come nel caso di Stefania. Vorrei leggervi alcuni frammenti dell’inizio del suo saggio, sull’esigenza di parole che sappiano contornare una sofferenza indicibile, che sono attualissime oggi e che io ho sentito molto vere. Qui lei si riferisce all’esperienza dei profughi, ma sono parole che contengono una verità generale: “Che cosa potevano le mie parole di fronte al racconto di un’ingiustizia e di una sofferenza così grandi? Eppure, proprio in questi momenti, il bisogno di parole, di parole nuove, capaci di far essere e illuminare la realtà, si avverte lancinante […] poche parole sanno contornare la sofferenza, poche sanno farsi carico con giustizia dell’ingiustizia, delle contraddizioni, delle mancanze, per lasciar scorgere un’altra realtà” (p.59). Questo è un punto che ha a che fare con le vicende di questo nostro presente tormentato. Il suo saggio mette in evidenza una questione politica cruciale, perché mostra lo spazio di conflitto che si apre nel campo della differenza. La differenza è “possibilità di dire il mondo e il senso dell’umanità” in prima persona, dunque qualcosa che ha a che fare strettamente con la libertà femminile. Oggi è questo il campo di battaglia. La invito quindi a parlarci della differenza nel suo dispiegarsi nelle diverse forme di esperienza e di quello che non torna oggi, cioè il rischio che la differenza sia percepita come pura teoria (filosofica o politica) ridotta all’essenzialismo e, ancora, il malessere verso l’affermazione della differenza espresso dal linguaggio del gender, che possiamo definire come il primato della singolarità svincolata da qualsiasi determinazione. Stefania è una fine pensatrice, quello che le vorrei chiedere è se ci sono delle pratiche politiche che possiamo mettere in campo per affrontare questa impasse (la liquidazione della differenza come essenzialismo e l’affermazione di una singolarità svincolata, senza possibilità apparente di dialogo).
La differenza, questo secondo filo che sorregge la lettura del volume, in altri saggi è agita nell’arena della politica ed elaborata perché sia possibile “andare avanti”, sorretta da pratiche e relazioni, come nel caso del saggio di Sara, che riflette sulla relazione di differenza con gli uomini, portando una storia politica che condivide anche con me, una vicenda forte (la nota vicenda relativa all’accusa di violenza psicologica a un uomo di Maschile Plurale) e molti esempi tratti dalla politica e dalla società. Sara parte da un punto nodale della politica delle donne, quello dell’autorità femminile, e si muove con destrezza nella storia ripercorrendo le trasformazioni radicali dal patriarcato al post-patriarcato e i conti che uomini e donne devono fare sempre e comunque con l’autorità femminile. A partire dal saggio pubblicato nel volume della scuola stasera ci propone ulteriori spunti di riflessione. Le lascio quindi la parola.