INCONTRO PRESSO IL CIRCOLO DELLA ROSA DEL 19.01.013
Di Bianca Bottero
YES,WE CAN!
Sul tema che Laura Minguzzi ci ha proposto di trattare, “La città che vogliamo: l’altra Milano”, questo mio intervento non vuole essere una presuntuosa presa di parola per una questione di cui non ignoro la complessità, ma il tentativo di sottolinearne i significati più importanti, euristici, senza d’altra parte trattarli a sé, in modo autoreferente, come spesso si tende a fare.
È mia convinzione – come del resto sempre sottolineato in questo luogo – che sia necessario nell’interpretazione di fatti umani e sociali complessi appoggiarsi a un metodo di ricerca che sostituisca al sistema di saperi verticali, specialistici, peculiari al pensiero occidentale della modernità, una rete olistica orizzontale, consistente in intrecci di soggetti, riflessioni, competenze, pratiche: cioè quel diverso sapere, del quale è peculiare testimone il pensiero femminile.
Ma perché questo diverso sapere acquisti autorevolezza, perché riesca a rompere la crosta di concetti e di comportamenti attraverso i quali la modernità ha agito così prepotentemente, in particolare nell’ambito delle discipline spaziali, mi pare importante in queste occasioni di dibattito fare entrare questo sapere in una dialettica diretta con quanto ancora ci condiziona e soprattutto con quanto il futuro ci prepara.
Tentare un confronto tra questi due mondi, tra un sapere tecnico-scientifico che si dà autonomamente la definizione di “vero e giusto” (e ciò ha permesso che nelle sue forme più scopertamente produttivistiche egemonizzasse il mondo accademico e plasmasse le modalità operative delle istituzioni fino a diventare buon senso diffuso) e una aspirazione all’uguaglianza nella distribuzione dei beni spaziali, alla valorizzazione delle bellezze naturali, all’etica del consumo è stato sempre per me, che lavoravo su questi temi all’università e dovevo trasmetterne il senso agli studenti, una sorta di necessità ineludibile: da quando individuavo nelle proposte del planner-geografo scozzese Patrick Geddes e nel suo Piano per Indore, in India, basato sulla minuziosa interrogazione dei costumi e bisogni dei luoghi e della popolazione (quanto il tempo impiegato!) l’alternativa radicale alle nuove regole pianificatorie produttivistiche e funzionaliste messe in atto dalla nuova società industriale all’inizio del secolo scorso; o studiavo le “progettazioni partecipate” di Lina Bo Bardi, di Ralph Erskine, di Giancarlo De Carlo che cercavano modalità di intervento radicalmente contrapposte a quelle che diffusero l’edilizia massificata in tutto l’occidente a partire dal secondo dopoguerra. O quando indicavo nell’Advocacy Planning, cioè nell’appoggio tecnico fornito gratuitamente da architetti e da planners alla popolazione espulsa dai propri quartieri, la strada per una diversa giustizia sociale nelle politiche di rinnovo urbano negli USA degli anni ’60.
Quelle intuizioni, quelle proposte generose (che, se pur lentamente, hanno avuto fertili sviluppi in diversi paesi europei) sono di mezzo secolo, o addirittura di un secolo fa, ma ben poco hanno modificato le pratiche di intervento urbano in Italia, sia nell’azione tecnico-amministrativa sia, ancora più grave, nelle modalità di insegnamento e di applicazione delle discipline progettuali nei luoghi a ciò deputati.
Non c è dunque da meravigliarsi se quel formicolante protagonismo, quel moltiplicarsi di movimenti civici impegnati nei problemi grandi e piccoli della città che ha interessato negli ultimi anni le popolazioni urbane in tante città italiane, spesso sorretti e guidati da donne,[1] abbia letteralmente spiazzato tanti tecnici dentro e fuori le istituzioni e soprattutto abbia dovuto subire il dileggio di quanti li accusavano di “localismo”, di interesse meschinamente opportunistico, qualificandoli in modo dispregiativo come NIMBI (Not In My Back Yard) perché si permettevano di rifiutare o di voler discutere opere che modificavano radicalmente il loro uso dello spazio, la loro memoria dell’ambiente, il loro piacere di goderne, in definitiva la loro vita; opere che, presentate come “necessarie alla funzionalità e al progresso” coprivano spesso, gratta gratta, solo gigantesche operazioni speculative…
Milano, se pure in modo un po’ ancora sommesso – forse per quel manzoniano riserbo che caratterizza la popolazione ambrosiana – si è anch’essa venuta mobilitando, soprattutto di fronte alle mostruose ultime iniziative edilizie varate dalle giunte Albertini/Moratti che, con la prospettiva di una provinciale, tardiva “modernizzazione” hanno sfigurato importanti luoghi storici, inserito parcheggi sotterranei nelle belle piazze alberate ottocentesche, rese ancor più derelitte le periferie.[2]
Ma siamo solo agli inizi: io credo infatti che l’azione dal basso – non voglio parlare di partecipazione, un termine che per l’uso burocratico, superficiale e direi anche in malafede che spesso se ne fa, crea delle resistenze e degli equivoci – per i suoi contenuti concettuali radicali, rappresenterà, dovrà rappresentare un riferimento fondamentale nella configurazione della città del futuro. Tale azione infatti, nel suo implicito riferirsi alla vita e al benessere degli individui impone un approccio ai problemi complessi della città e della società che scardina e demistifica la apparente neutralità del Piano generale e la sua spesso offensiva sudditanza agli interessi proprietari e alla rendita speculativa sul suolo urbano, riscuotendo il corpo sociale da quella sorta di apatia in cui lo stesso lo ha costretto, per il modo spesso oscuro, attraverso meccanismi tecnici difficilmente controllabili con cui agisce.
Esiste oggi una contraddizione fondamentale tra i principi di un Buon Governo dello spazio pubblico e del benessere sociale e gli interessi legati alla proprietà privata del suolo e dei beni urbani: una contraddizione che, pur escludendo ogni patologica connivenza tra proprietari e tecnici, le stesse leggi vigenti non sono in grado di risolvere.[3] Questa contraddizione appare in una prospettiva particolarmente oscura e paurosa a fronte della crisi sociale cui lo strapotere finanziario ci induce: che porta a creare fasce sempre più ristrette di super ricchi – che si chiuderanno in enclaves protette nella città – e la massa di “poveri”o meno-abbienti al loro servizio[4]: con una drammatica trasformazione, quindi, nell’uso libero e democratico del suolo urbano. Come la recente vicenda del gruppo di giovani del Macao[5] ha dimostrato, l’azione dal basso, al contrario, agendo secondo quanto è stato definito una sorta di “situazionismo tattico “[6] interviene punto per punto in una continua interlocuzione coi cittadini a costituire una sorta di diffuso laboratorio, creativo, suscitatore di risorse, immaginifico, tale da suggerire quale potrebbe diventare la civiltà europea del domani: una civiltà che ha nell’uso libero, fruibile e sicuro della città, nel suo governo consapevole e partecipe da parte di tutti i cittadini, uno dei più forti capisaldi. Queste esperienze e iniziative, sono troppo poche ancora in Italia, ma già tali, secondo me, perché alcune giunte municipali più sensibili, come la nostra attuale, possano guardare ad esse per un appoggio sostanziale alla loro azione.
[1] Per questo protagonismo rimando al testo Architetture del desiderio (a cura di Bianca Bottero, Anna Di Salvo, Ida Faré, ed. Liguori, Napoli 2011), uno stupefacente documento sulla maturità del protagonismo femminile nell’interpretare le bellezze e le qualità più sottili delle proprie città e competenza nella organizzazione della loro difesa.
[2] Così la città ha continuato, fino al recente cambiamento di giunta e di indirizzo, a occupare gli ultimi posti nella classifica della qualità della vita che in un confronto con le altre città europee la vedevano (dati 2002):
al 90° posto per il verde accessibile – (15mq. per ab.contro i 96 di Stoccolma );
al 90° posto per la rete ciclabile ;
al 94° posto per posti auto di interscambio ecc.:
e, di contro la vedevano (vincente)
al 2° posto per il consumo annuale di aree naturali e agricole periurbane
al 4° posto per il consumo annuale di acqua
al 2° posto per il consumo annuale medio di NO2
[3] Attorno a questa contraddizione si è spesso interrogato per es. Stefano Rodotà, che ha proposto l’introduzione nel nostro diritto, oltre a quello di “bene pubblico” e di ” bene privato”, il concetto di “bene comune”
[4] Si vedano su questo le analisi, tra altre, di Saskia Sassen e di Loretta Napoleoni
[5] Sulla vicenda del Macao si veda V.D. n. 102
[6] La defiinizione è stata coniata dall’urbanista di Rotterdam Petar Zaklanovic, capo del Progetto europeo “Atelier Architectures Manifesto”, ed. Eterotopia In Folio, 2012