16 Gennaio 2025
La Nuova Ferrara

L’arte sempre al fianco delle donne nella lunga lotta al patriarcato

di Maria Sofia Gallotta


The Dinner Party di Judy Chicago diventa l’opera simbolo della battaglia. Il suo tributo ai personaggi femminili della storia celebra anche Isabella d’Este


Se “The Dinner Party” di Judy Chicago può essere considerata, a detta di numerosi critici, l’opera artistica che meglio simboleggia il messaggio dell’arte femminista negli anni Settanta, anche Ferrara è presente in tale opera.

Fra le 39 donne che nella storia hanno più efficacemente rappresentato l’universo femminile figura infatti anche la ferrarese Isabella d’Este. Nata nel 1474, «Isabella liberale e magnanima», come la definì Ludovico Ariosto, fu reggente del marchesato di Mantova per quasi un anno durante l’assenza del marito Francesco II Gonzaga e per due anni durante la minore età del figlio Federico. Mecenatessa delle arti, ammirata anche per l’innovativo stile del vestire, venne considera «suprema tra le donne» da Matteo Bandello.

Il fermento Tornando agli anni Settanta, l’universo artistico – nonostante le spinte innovatrici del Sessantotto – si presentava, in Italia e nel mondo occidentale, come una realtà di impervio accesso per le donne. Al grido «Ribaltiamo il patriarcato!» le donne si destarono, sollevando un’ondata di proteste fino ad allora impensabile.

Dal Vecchio al Nuovo continente urlarono il loro dissenso contro chi le pretendeva subalterne, marginalizzate, indifese e silenti di fronte al dominio incontrastato del potere maschile che dettava legge. Dimostrarono invece di avere una forza non più nascosta, lottando per riscrivere la struttura non solo dell’arte ma dell’intera società partendo dalle fondamenta, con le artiste schierate in prima linea come promotrici e protagoniste del cambiamento.

Correva l’anno 1972, quando il sistema dell’arte iniziò a comprendere che le cose sarebbero

cambiate, anche se Judy Chicago (al secolo Judith Cohen) e Miriam Schapiro avevano già proposto il primo programma femminista. A partire dall’inizio del decennio i movimenti femministi avevano dato una robusta spallata alla realtà preesistente, puntando a cambiare radicalmente le vecchie regole del gioco. Le donne avevano trasformato quadri e sculture in gesti performanti, riportando l’attenzione su attività considerate secondarie come la ceramica o la scenografia teatrale, mettendo sotto accusa prassi, regole, convenzioni e assetti gerarchici cristallizzatisi nei decenni precedenti. Al grido ideale di “épater le bourgeois” avevano intenzionalmente disturbato la quiete della società perbenista, dimostrando all’opinione pubblica di non aver bisogno del permesso altrui per operare e di non essere figure secondarie in una società patriarcale superata dai tempi.

Fu proprio nel 1972 che Barbara Zucker e Susan Williams, volendo realizzare un luogo di

scambio, di confronto e di condivisione fondarono, nel cuore di New York, la Air Gallery, che costituì il primo “artist-run space”, come si evince dal ritratto del gruppo Air di Sylvia Sleigh. Ideata e realizzata dalle donne per le donne, la Air Gallery fu certamente la rampa di lancio per numerose artiste respinte da altre gallerie.

Come ricorda Zucker: «Non eravamo accettate dal mondo dell’arte, forse perché eravamo delle outsider. Quindi potevamo fare qualsiasi cosa ci pareva, e così abbiamo fatto. Ci eravamo date il permesso aveva detto no».

L’opera simbolo Se New York vedeva il fiorire di luoghi di aggregazione femminile fino ad allora sconosciuti, con la pubblicazione dello storico saggio di Linda Nochlin “Perché non ci sono state grandi artiste?” (“Artnews”, gennaio 1971), il dibattito raggiunse anche la West Coast. Il saggio, che diede vita alle discussioni sulla disparità di genere, ebbe notevoli ripercussioni come un robusto sasso gettato nell’acqua stagnante, al punto che, secondo l’iperbole utilizzata da Judy Chicago, “trasformò il mondo”.

Fu proprio Judy Chicago, trasferitasi dall’Illinois in California dove teneva corsi d’arte per donne al Fresno State College, a ideare – in collaborazione con Schapiro – un luogo di ritrovo per artiste dove lavorare in libertà. Nacque così il progetto Womanhouse: in soli due mesi un piccolo gruppo capeggiato da Judy e Miriam ripristinò un vecchio edificio abbandonato di Hollywood trasformandolo in uno spazio artistico di aggregazione femminile aperto a tutte le arti. La Womanhouse divenne così in breve tempo il principale laboratorio politico femminista della California.

Anche le artiste nere rialzarono la testa. Fra esse è degna di nota Faith Ringgold (che ci ha lasciato il 15 aprile 2024, a 93 anni) co-fondatrice del “Where We At” Black Women

Artists, un collettivo artistico femminile con sede a New York, associato al Black Arts Movement. Lo spettacolo inaugurale di “Where We At”, che presentava piatti soul (tipici della cucina afroamericana): fu presentato per la prima volta nel ’71 con otto artisti e fu ampliato a 20 nel ’76.

Quanto a Judy Chicago (che aveva scelto tale cognome in omaggio alla città natale ma, soprattutto, per compiere un gesto controcorrente) si era guadagnata un certo riconoscimento con le sue sculture minimaliste “a blocchi”. Una sua opera (“Rainbow Pickett), datata 1965, era stata esposta in una celebre mostra del ’66 al Jewish Museum Primary Structures. Judy fu una delle tre sole donne selezionate su oltre cinquanta artisti. È conosciuta soprattutto per la sua opera The Dinner Party (1974-1979), a cui hanno partecipato centinaia di volontarie, un tributo alla storia e alla memoria delle donne. Essa si presenta sotto forma di un grande tavolo triangolare, che comprende 39 posti apparecchiati, dove ogni posto rappresenta una figura storica femminile.

Fra le altre figure femminili sono rappresentate l’imperatrice Teodora, la regina Eleonora d’Aquitania, Artemisia Gentileschi, Georgia O’Keeffe, Emily Dickinson, appunto Isabella d’Este, Virginia Woolf e la suffragetta americana Susan Brownell Anthony, che disse «Non pagherò nemmeno un dollaro» al giudice che voleva multarla per aver votato in un periodo in cui l’espressione del suffragio per l’elezione del Congresso Usa non era consentita alle donne.

La performance

La nuova aria che spirava agli inizi degli anni Settanta non poteva lasciare insensibili di fronte a stupri e violenze di cui le donne erano spesso vittime silenziose, indotte sovente (come troppo spesso accade ancor oggi) a tacere per la vergogna, il senso di colpa o le regole convenzionali e familiari della società. Fra le artiste più sensibili a tale tema occupa un posto di rilievo Ana Mendieta.

Nata a Cuba in una famiglia dell’alta borghesia anticastrista, nel 1961, appena dodicenne approdò negli Stati Uniti con la sorella Raquelin. Dopo aver studiato al Liceo di Dubuque, nello stato dell’Iowa, si iscrisse nel 1967 all’Università del medesimo stato, seguendo corsi di arte primitiva e di culture indigene, nonché frequentando corsi di pittura e di arti intermediali. Motivata a combattere contro le ingiustizie subite dalle donne tramite la propria corporeità, si impose con la “Scena di stupro” del 1973. Dopo lo stupro e l’omicidio di Sara Otten, avvenuto nel suo stesso campus universitario, Ana chiamò studenti e docenti nel proprio appartamento per quella che sarebbe stata considerata una delle performance artistiche più visivamente traumatiche. Gli invitati arrivarono nell’appartamento di Mendieta e si trovarono dinanzi a una scena da brividi: una porta spalancata e una ragazza – Ana, che s’immedesimava in Sara – brutalmente denudata e sporca di sangue, esattamente come fu ritrovato il corpo esanime della studentessa assassinata. Lo scopo era evidente: Ana voleva sbattere in faccia ai presenti, alle autorità accademiche e all’intera società, lo stupro, la violenza e l’odio contro la donna.

Capì che occorreva sfruttare la potenza espressiva dell’arte con la presenza personale della performance per trasmettere un messaggio o una denuncia: in quel caso una condanna dello stupro e di ciò che ora definiamo femminicidio.

Femminicidio di cui, per un amaro quanto brutale scherzo del destino, fu forse vittima la stessa Mendieta, precipitata in circostanze controverse dal 34º piano nel settembre ’85 dopo una lite con il marito che fu processato ma, alla fine, venne assolto con una sentenza che suscitò molte perplessità.

Nel Belpaese E in Italia come andavano le cose? In una lettera inviata nel 1975 a Lucy Lippard, Ketty La Rocca illustrò le difficoltà e il pesante clima di un ambiente artistico segnato da forti disparità tra uomo e donna: «Ancora, in Italia essere una donna e fare il mio lavoro è di una difficoltà incredibile». La fatica di essere artista e donna di cui parla La Rocca, non era un malessere riconducibile all’individualità, bensì un fenomeno sociale, dato che a quel tempo la presenza femminile nelle grandi mostre, nei concorsi e nelle collezioni pubbliche e private era ridotta ai minimi livelli, rivelando una condizione di subalternità non più accettabile.

In questo quadro alcune artiste ripensano il proprio ruolo nella società e si decidono a rivendicare agibilità nei musei, nelle gallerie e nelle istituzioni, mettendo sotto accusa un sistema che le marginalizza, rivelandosi insensibile alle istanze dalle artiste donne, che non vengono adeguatamente sostenute neppure dai critici e dagli intellettuali più aperti. Siamo nel periodo dei “ghetti rosa”, come venivano chiamate ironicamente le mostre con presenze solo femminili.

Ma fortunatamente la lotta delle donne impegnate nell’arte vide protagoniste di elevato spessore come Lea Vergine, Annemarie Sauzeau Boetti, Romana Loda, Mirella Bentivoglio, Simona Weller e Carla Accardi. Ma, soprattutto, occorre citare Carla Lonzi, di cui è stato finalmente ripubblicato nel 2024 un testo fondamentale: “Taci, anzi parla. Diario di una femminista” 1972-1977, (editrice La Tartaruga).

Con la sua radicalità scuote lo stantio modo di pensare e l’immobilismo culturale di quegli anni, a partire dal luglio ’70, quando sui muri di Roma apparve il manifesto di “Rivolta femminile”, basato su un testo elaborato dalla Lonzi in collaborazione con Accardi ed Elvira Banotti.

A tale proposito vogliamo ricordare la mostra “Altra misura”, tenutasi dal novembre del 2015 al marzo 2016 nella Galleria Frittelli Arte Contemporanea di Firenze, nata dalle ricerche condotte per il libro “Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta” (Postmedia Books, 2013), che vedeva la presenza di Tomaso Binga, Diane Bond, Lisetta Carmi, Nicole Gravier, Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Paola Mattioli, Libera Mazzoleni, Verita Monselles, Anna Oberto e Cloti Ricciardi. Artiste che hanno usato la fotografia contro gli stereotipi di genere e i cliché tipici di una comunicazione inguaribilmente maschilista.

Quale messaggio ci trasmettono, infine, le artiste che si batterono mezzo secolo fa per la rivalutazione della figura femminile nell’arte e nella società? Un messaggio che suona come incitamento a continuare la lotta per l’affermazione del ruolo che compete alle donne nella società. Un ruolo non ancora pienamente riconosciuto nel mondo occidentale (per tacere di paesi in cui la condizione della donna è a dir poco umiliante), ma che otterrà il giusto apprezzamento se sapremo far tesoro dell’esempio personale e dell’audacia artistica che ci hanno lasciato in eredità le protagoniste degli anni Settanta.


(La Nuova Ferrara, 30 dicembre 2024)

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