18 Gennaio 2013

Il cibo come oggetto filosofico. Uno studio


TESI DI LAUREA (ABSTRACT)
DI ELEONORA MINEO

RELATRICE: Prof.ssa Federica Giardini

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI ROMA TRE, FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA, CORSO DI LAUREA MAGISTRALE IN “FILOSOFIA DELLA CULTURA” – A.A. 2008-2009
Mangiare è un universale e l’universale, si sa, piace alla filosofia. Ma allo stesso tempo ha a che fare con il corpo, che piace meno alla filosofia, se non come corpo pensato, astratto, che però non mangia. Così come la sessualità, altro universale incorporato che non a caso gli si accosta di frequente, il mangiare oltrepassa la questione biologica e si apre alla dimensione del senso. È un gesto carico di significati, ed il cibo è la materia di questo gesto.
La filosofia, da Platone a Nietzsche, ha sempre fatto i conti con il cibo, inteso sia come bisogno primario del corpo, sia come metafora di ciò che nutre l’umano. Ciononostante, ai loro scritti sul cibo è stata tendenzialmente accordata solo un’importanza marginale nel canone filosofico occidentale. L’ipotesi proposta è che questo apparente scarso interesse sia dovuto alla separazione tra corpo e ragione che ha segnato la filosofia fin dai suoi inizi, e che ha relegato in secondo piano tutti quegli aspetti della vita umana legati alla corporeità. Come le donne ben sanno, questa separazione non è senza conseguenze.
La differenza tra uomini e donne ha un ruolo nella definizione di cos’è cibo e qual è il nostro modo di viverlo, non solo perché le donne sono state per lungo tempo nella storia le protagoniste della maggior parte delle attività che hanno reso possibile all’umanità il nutrimento quotidiano, ma anche perché questa esperienza le ha rese competenti in materia e ha permesso loro di acquisire un sapere che oggi conosce riformulazioni e redistribuzioni radicali. Inoltre, senza lo sguardo messo a disposizione dall’esperienza del femminismo della differenza, non sarebbe stato possibile pensare un’impresa come lo studio del cibo come oggetto filosofico.
L’approccio filosofico ha permesso di interpretare il cibo attraverso l’utilizzo di alcune categorie – soggettività, relazione, natura – che appartengono alla storia del pensiero occidentale, gettando una luce del tutto particolare su un argomento apparentemente ordinario seguendo come filo conduttore la messa in gioco del confine.
Il primo confine è quello che il soggetto cerca di stabilire tra sé e l’esterno: un confine mobile, costantemente negoziato e rielaborato. Tramite l’atto alimentare noi diventiamo ciò che mangiamo; assumendo il cibo assimiliamo il mondo e di conseguenza l’atto di mangiare “è sia banale, sia carico di conseguenze potenzialmente irreversibili”
L’analisi della soggettività fa emergere l’inevitabile presenza dell’altro all’interno della relazione con il cibo, a partire dal corpo materno fino alla comunità alimentare alla quale l’individuo sente di appartenere e che contribuisce a definire. Allo stesso tempo, in questo processo, si attuano dei processi di identificazione che spostano l’alterità ancora una volta verso l’esterno, istituendo nuovi confini.
A minacciare lo statuto dell’umano è anche il confronto con l’animale, con il quale condividiamo l’esigenza del nutrimento: come in altri ambiti, anche in relazione al cibo l’umano si è costantemente impegnato nell’elaborazione di strategie e nella ricerca di alcuni elementi che potessero indicare in maniera definitiva il proprio specifico rispetto all’animale. La donna, la cui posizione nella storia ha spesso coinciso con quella dell’animale, si colloca in maniera del tutto peculiare nei confronti della questione, con effetti rilevanti dal punto di vista politico.
Insomma, pare che la nostra relazione con il cibo sia complessa a sufficienza perché la filosofia possa occuparsene per trarne qualcosa di utile o di interessante. Come sostiene Derrida, infatti, la questione non è, né mai lo è stata, “mangiare o non mangiare, mangiare questo e non quello, il vivente o il non vivente, l’uomo o l’animale”, quanto – nella nostra relazione con il cibo, ma non solo – “la migliore maniera, la più rispettosa e la più riconoscente, la più adatta così a rapportarsi all’altro e a rapportare l’altro a sé.”
C. Fischler, L’onnivoro. Il piacere di mangiare nella storia e nella scienza, Mondadori, Milano 1992, p. 279

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