di Francesca Pasini |
Nell’immagine c’è qualcosa che riconosciamo e nello stesso tempo sorprende, come se venisse da un deposito ad accesso libero, ma in cui non tutti decidono di entrare. L’arte è questo misto di conosciuto e imprevisto. Quello che mi attrae è soprattutto il rapporto tra l’artista e l’immagine nel momento in cui è lì, lì per presentarsi ai suoi occhi. Una volta arrivata parla a chi la guarda, crea a sua volta un deposito e offre un incontro con qualcosa che sta oltre. Questo andare oltre avviene perché ognuno è invitato a capire qual è “il punctum che ferisce e ghermisce”, come scriveva Roland Barthes ne La camera chiara. Trovare dentro di sé quello che non si era visto e che l’immagine fa affiorare o riaffiorare da quanto abbiamo accumulato. La sorpresa sta nel contatto con gli occhi dell’altro. Succede anche nei rapporti quotidiani, ma senza qualcosa che trattiene il passaggio dello sguardo è difficile raccontarsi quello che proviamo.
Tutta l’arte agisce così, ma quella visiva assomiglia di più a un dialogo tra soggetti che s’incontrano. Non si può parlare solo tra sé e sé e l’arte ha bisogno dell’altro che la guardi, la accetti, la rifiuti, e poi magari faccia pace. Esattamente come in ogni incontro.
Ci sono opere e immagini che hanno più forza, più invenzione nel farci percepire questo legame tra l’estetica e la comprensione di sé, come quelle di Barbara Bloom e Joan Jonas, in mostra alla Galleria Raffaella Cortese di Milano, fino al 27 febbraio.
Barbara Bloom con i suoi Works for the Blind ci porta dentro la massima aspettativa: mettersi nelle condizioni di guardare l’assenza di vista. Il contatto con gli occhi dell’altro è folgorante. L’emozione è fortissima. Barbara Bloom ce la fa provare unendo la lettura degli occhi a quella del braille. Sette fotografie in bianco e nero hanno dentro di sé qualcosa di noto e qualcosa che appartiene a quell’immagine. Davanti al vetro sono trascritte in braille, le citazioni che accompagnano ogni singola foto. Sono frasi sul senso del vedere e della perdita, tratte da Ludwig Wittgenstein, Hannah Arendt, Roland Barthes, Dorothy L. Sayers.
Chi è cieco ha la conoscenza immediata del testo e un’immaginazione dell’immagine; chi vede l’immagine non riesce a leggere il testo. È trascritto in caratteri piccolissimi, sembra piuttosto un francobollo che certifica la spedizione del messaggio.
Vedere e leggere si scinde nella vista e nel tatto, e in questo equilibrio appare sia la dolcezza di sentirsi uniti a chi non può vedere la foto, sia lo sforzo di immaginare le parole attraverso i rilievi tattili del braille. L’equilibrio c’è anche nella disparità fisica della vista, perché produce quello sfondamento soggettivo che alcune opere imprimono alla “lettura della mente”, cioè a quella lettura che non si basa sulla grafia, ma sui segni emotivi, fisici che accompagnano le espressioni di uomini, donne, bambini, animali, paesaggi. In questo vedo la capacità di farci andare oltre, o meglio di trarre dalle intuizioni allo stato fluido il “punctum” che può condensarsi in un’immagine e da quel momento “ferirci e ghermirci”.
Nel secondo spazio della galleria, c’è The Weather, un’installazione di tappeti sollevati da terra e ad altezze diverse, su cui affiorano i rilievi della scrittura braille. Citazioni letterarie descrivono cambi di temperature, di colori, di umidità: “Piovve per quattro anni” (Gabriel Garcia Marquez, Cent’anni di solitudine). “Aveva cominciato a nevicare nuovamente” (James Joyce, Gente di Dublino). “Soffiava il vento del deserto quella notte” (Raymond Chandler, Vento rosso). “Ti scrivo sotto un azzurro perfetto” (Andre Gide, L’immoralista). “Il cielo a nord s’era oscurato”(Cormac McCarthy, Cavalli Selvaggi).
In un tappeto, più o meno al centro, sono trascritti i valori di “temperatura, somma termica, umidità, precipitazioni, pressione a livello del mare, velocità del vento, visibilità: condizioni meteorologiche al momento della nascita di Barbara Bloom, Los Angeles, 11 luglio 1951”.
Tutta la stanza è pervasa da un clima cilestrino, polveroso come nei cieli velati dalle nuvole, opaco come nei passaggi tra il giorno e la notte, verde leggero come traspare dall’acqua. Sulle pareti è steso un leggero velo azzurro-grigio. È un’immersione che mette in moto l’immaginazione dell’atmosfera in cui siamo calati. L’equilibrio tra visione fisica “corporea” e grafica letteraria ci riporta al contatto con gli occhi e la mente dell’altro che sta alla base del vivere quotidiano. Viene voglia di toccare i rilievi braille, ma anche le superfici vuote dei tappeti, come se la tattilità diventasse una chiave di lettura per tutti: vedenti e non. La sorpresa è enorme e non c’è che viverla.
Altrettanto forte è l’emozione nel terzo spazio della Galleria, dove Joan Jonas ha riunito in una stanza la trasparenza, la luce, la temperatura della natura. È una sintesi fulminea del Padiglione e della performance alla Biennale di Venezia, They come to us without a word. La misura della stanza è perfetta per racchiudere una molecola del mondo, s’intitola In the Trees: un’opera totale per immaginare uno sfondamento rispetto al deposito di immagini che ci circonda e che non sempre vediamo.
Incrociamo gli occhi con Jonas mentre attraversa una lieve foresta di alberi, inframmezzati da segni verdi brillanti: gli alberi disegnati da lei. Il video “continua” riflettendosi sugli specchi, posizionati agli angoli della stanza. E sul lato opposto, in una proiezione circolare, stroboscopica, Jonas ci viene incontro con fogli di carta bianca su cui disegna la natura che la circonda e in cui ci invita a entrare. Un invito semplice, senza commenti, come appunto è quello della natura. Un richiamo pacato a fare un passo indietro per osservare i mutamenti e ricordare.
La parete di fondo è avvolta da una “nuvola” di disegni mossa dal vento. Sono disegni di uccelli che potenzialmente abitano gli alberi tra i quali Joan si è immersa e riflessa, ma sono un d’apres da Bird Guide of Mailand by Dr. Boonsonq Lekaqul. E così si chiude il cerchio tra vedere e disegnare, tra leggere e intuire, tra vivere la natura e andarle incontro senza parole. È un’evocazione poetica, ma soprattutto un suggerimento ad accedere al deposito di immagini che artisti, uomini, donne, bambini, animali, piante mettono quotidianamente in circuito.